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La tecnologia non tiene lontano l’uomo dai grandi problemi della natura, ma lo costringe a studiarli più approfonditamente.
 (Antoine de Saint-Exupéry)

I cambiamenti che le tecnologie digitali hanno vissuto – e stanno vivendo – in questi anni impongono una seria riflessione circa le modalità d’interazione che esse, quotidianamente, instaurano con gli utenti che ne fanno uso. Se fino a qualche anno fa il digitale (in senso ampio) poteva essere considerato appannaggio di pochi, oggi è una realtà estremamente pervasiva delle nostre vite che tocca tutti i campi del sapere, dell’economia e del nostro modo di fare impresa ed educazione oggi [1].

Non solo il digitale è diventato appieno parte della nostra vita e del nostro modo di esperire il mondo, ma il confine tra supporti digitali e realtà si è fatto molto più labile.

E’ proprio su questa sottile linea di confine che si colloca l’Augmented Reality. La Realtà Aumentata o mixed reality o – ancora – augmented reality consiste, infatti, nella sovrapposizione – all’interno del medesimo campo visivo – di due layer informativi: uno reale e uno virtuale (Riva, 2008). L’integrazione dei due livelli – realizzata mediante un device appositamente configurato [2] – permette di ottenere uno “strato” maggiore d’informazioni e consente una migliore interazione con l’ambiente che ci circonda. Klopfer (2008), riprendendo gli studi di Milgram e Kishino (1994) identifica la Realtà Aumentata come una realtà nella quale gli elementi virtuali sono sovrapposti a quelli reali, collocandola, in questo modo, all’interno di un continuum che vede da un lato il piano esclusivamente reale e dall’altro quello completamente virtuale.

La Realtà Aumentata si pone, quindi, a metà strada tra un ambiente del tutto virtuale e un ambiente reale, in cui però gli elementi del secondo ambiente sono prevalenti rispetto a quelli del primo (Klopfer, 2008).

A sua volta la Realtà Aumentata può differenziarsi in lightly augmented (leggermente aumentata), se la presenza d’input del mondo reale è elevata o heavily augmented (consistentemente aumentata), se invece a prevalere sono gli elementi del mondo virtuale. In questo secondo caso a essere presi come esempio da Klopfer sono quelle tipologie di AR che si basano sull’utilizzo di elmetti, caschi immersivi o dispositivi indossabili che funzionano in maniera analoga a quanto si è visto per la VR. Questo secondo continuum che si innesta sul piano dell’immersività permette di trarre indicazioni anche relativamente al tipo di esperienza che viene proposta ai soggetti che si differenzia molto a seconda del differente grado di immersività a cui sono sottoposti.

In realtà – come lo stesso Klopfer sottolinea – il termine AR nell’uso quotidiano e maggiormente diffuso è utilizzato per definire semplicemente la commistione de due ambienti: virtuale e reale.

Milgram
Figura 1 – Il continuum tra ambienti virtuali e ambienti reali (Klopfer, 2008: p. 92)

Se fino a qualche anno fa l’AR era considerata un terreno di sperimentazione riservato a pochi esperti del settore, grazie all’avvento sul mercato – tra le altre applicazioni – di Pokémon Go [3] questa tecnologia è divenuta, nel giro di poche settimane estremamente mainstream. La diffusione massiva e l’interesse crescente circa questo approccio impone nuove riflessioni sul fenomeno e una maggiore attenzione alle possibili applicazioni che esulino dal contesto videoludico e di intrattenimento e riguardino più da vicino dimensioni educative, di benessere e di miglioramento delle condizioni della società nella quale viviamo.

Pokemon

Figura 2 – Ambiente di gioco di Pokémon Go, in cui è ben visibile l’integrazione del layer digitale (in cui appaiono gli elementi di gioco) con la realtà fisica

L’applicazione di questa tecnologia ha avuto, infatti – in particolar modo negli ultimi anni – risvolti eminentemente pratici legati alla comunicazione e a strategie più legate al marketing e alla pubblicizzazione di prodotti: tuttavia, proprio come per la Realtà Virtuale (VR) un filone interessante – ancora immaturo e in via di sviluppo – si colloca all’interno della formazione e dell’addestramento professionale. L’analisi della letteratura fa emergere in particolar modo un impiego dell’AR nel caso di specifiche professioni che richiedono assistenza immediata o prevedono sperimentazioni che precedano l’applicazione concreta (aviazione, medicina, apparati militari…).

Qual è, dunque il contributo specifico che l’AR è in grado di fornire, posto che vi sia, ai processi di apprendimento? Qual è la sua possibile applicazione in contesti educativi e di empowement della persona?

Augmented Reality e processi di apprendimento

Un filone molto interessante, e in forte crescita, nell’ambito della letteratura che negli ultimi anni ha trattato da vicino il rapporto tra AR e apprendimento, è quello dell’applicazione della Realtà Aumentata in ambito medico: sperimentazioni a cavallo tra apprendimento, training on-the-job, e assistenza real-time. Gli studi di Botden et alii (2009) mettono in evidenza – per esempio – gli enormi vantaggi che l’AR permette di ottenere nel caso di operazioni in laparoscopia. Nelle sperimentazioni eseguite l’AR consente di ottenere migliori performance sia sul compito sia sull’apprendimento della tecnica operatoria in generale, grazie alla capacità di fornire un feedback aptico [4] in tempo reale ai chirurghi. In questo senso l’AR, collocandosi a metà strada tra un tipo di operazione condotta in Realtà Virtuale e una del tutto reale, permetterebbe anche di guidare i medici, passo dopo passo, durante la procedura diminuendo il loro livello di ansia e agendo come una sorta di “manuale d’uso” dell’intera operazione (Botden et al., 2009). Oltretutto con costi sensibilmente inferiori rispetto alla simulazione in ambienti completamente virtuali, che avrebbero come svantaggio ulteriore anche quello di essere poco collocati nella realtà e troppo “sperimentali”.

Gli autori riassumono i vantaggi delle tre ipotesi (Realtà Fisica, Realtà Aumentata e Realtà Virtuale – si veda Figura 4) in una tabella che mostra in modo molto semplice ed evidente i vantaggi e gli svantaggi delle differenti soluzioni impiegabili.

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Figura 4 – Le differenti tecniche di simulazione a confronto (Botden et al., 2009: p. 1697).

Le ricerche e gli studi di Alan Craig (2007) – direttore associato dell’Human-Computer Interaction Institute for Computing in Humanities, Arts and Social Science dell’università dell’Illinois – mettono in luce come l’AR possa essere utilizzata per migliorare l’interazione con i libri di testo scientifici. L’autore dimostra come con l’installazione di semplici marker e l’utilizzo di una comune web-cam sia possibile realizzare dei libri di testo interattivi di grande fascino ed efficacia. Gli studi in questo senso mostrano – infatti – come questi volumi, oltre ad avere un appeal molto maggiore di un libro di testo comune siano anche in grado di aiutare la comprensione e la modellizzazione di concetti astratti e complessi. Non è difficile immaginare come e di quanto sarebbero facilitati i processi di comprensione di studenti che fossero in grado, simultaneamente alla lettura della spiegazione di com’è composta la crosta terrestre – ad esempio – di visualizzare effettivamente un modello tridimensionale della terra e di poter interagire manualmente con l’oggetto digitale (Craig, 2009).

Per meglio comprendere come funziona un libro di questo tipo è possibile dare uno sguardo alle immagini sotto riportate che mostrano le due visioni di una stessa pagina: una normale (Figura 5) e l’altra in “modalità AR” (Figura 6). [5] Nel primo caso l’immagine presentata è una semplice stampa della figura che risulta occupare le sole due dimensioni che solitamente occupa un’immagine stampata; nel secondo caso – in modalità AR – la figura stampata acquisisce una dimensione aggiuntiva permettendo di essere manipolata e consentendo l’interazione diretta con la stessa fotografia. Com’è possibile notare il libro è sempre e comunque fruibile in una modalità tradizionale in modo che l’esperienza classica e ben nota di lettura di un libro di testo non venga meno, ma possa solo essere – per l’appunto – aumentata e migliorata.

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Figura 5 – Il libro come appare normalmente senza l’impiego della web-cam. E’ visibile solo la stampa della figura in due dimensioni.

Per poter fruire un libro di questo tipo è sufficiente l’impiego di una web-cam e di un PC (o in alternativa di un visore apposito o di un device mobile di ultima generazione) che consenta di interpretare correttamente le immagini e dar loro una “forma” differente guardando nel monitor.

I lavori di Craig evidenziano poi anche i vantaggi che gli editori avrebbero nella pubblicazione di libri di questo tipo che – senza nessun costo aggiuntivo – potrebbero essere stampati senza alcuna difficoltà rispetto alla riproduzione di pagine tradizionali.

Anche gli studi di Dünsern [6] e Hornecker (2007) danno evidenza del fatto che i libri in AR presentano notevoli valori aggiunti rispetto alla loro alternativa tradizionale. Con questa modalità di lavoro – infatti – secondo i due autori,  gli “AR Book” permetterebbero di valorizzare l’esplorazione diretta dei contenuti e renderebbero l’attività stessa della lettura più coinvolgente e affascinante soprattutto per i più piccoli. Inoltre faciliterebbero l’applicazione di modelli di apprendimento basati sulla collaborazione e sulla sperimentazione.

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Figura 6 – Il libro in modalità aumentata: con un’esemplificazione della possibile interazione consentita. In questo caso l’immagine è “smontabile” e riconfigurabile a proprio piacimento

Ulteriori lavori di Dünser (2008) mettono in luce come i libri in AR possano essere utilizzati anche per migliorare la capacità di comprensione e di apprendimento di ragazzi con difficoltà di lettura o disturbi dell’apprendimento. Gli studi condotti mostrano, infatti, che gli studenti che hanno sperimentato modalità di lettura in AR sono in grado di ricordare più facilmente i contenuti anche a distanza di tempo rispetto a coloro che hanno fruito gli stessi contenuti in modalità tradizionale. Questo processo sarebbe dovuto a una serie di fattori: in primo luogo l’AR presenta i contenuti in maniera più interattiva e dinamica, catturando l’attenzione dei discenti; in secondo luogo i lettori sono in grado di interagire concretamente con il contenuto che li impegna in un’attività che facilità il ricordo; infine – ma non di minore importanza – l’AR permette la presentazione sfruttando diversi canali, il che consente una maggiore efficacia nella ricezione del messaggio veicolato.

Su questo stesso filone Augment [7] propone differenti soluzioni per gli educatori e gli insegnanti che intendano sviluppare prototipi in realtà aumentata da sottoporre ai propri studenti con vantaggi estremamente elevati in termini di: miglioramento dell’esperienza di apprendimento, migliore coinvolgimento dello studente, possibilità di restituire feedback in tempo reale, possibilità di supportare i contenuti testuali con video e animazioni, in pieno rispetto dei principi di multimedialità e interattività di Mayer e – infine – di personalizzare l’esperienza di apprendimento secondo le esigenze della classe, o – ancora meglio – del singolo studente. All’interno della sezione del sito di Augment dedicata al settore educativo sono presenti numerosi esempi e storie di successo che mostrano in che modo l’AR possa rappresentare un efficace veicolo di apprendimento all’interno di contesti scolastici.

In questa direzione di sperimentazione va anche una ricerca condotta nell’ambito del corso di Psicologia e Nuove Tecnologie della Comunicazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano in cui sono stati utilizzati dei QR Code [8] per fornire una serie d’informazioni aggiuntive a un’esposizione museale (Besana, 2010): l’esperienza ha messo in luce come, con l’utilizzo di marker realizzati con una minima spesa e di un moderno telefono cellulare, fosse possibile rendere più interattiva, piacevole e comprensibile una mostra di strumenti psicologici di inizio ‘900  mostrando l’applicazione e il funzionamento concreto di utensili non proprio intuitivi. I QR Code possono essere considerati una prima forma rudimentale di AR e potrebbero consentire di realizzare libri e supporti “mixed” con costi veramente ridotti e “fai da te”. In questo caso però la fruizione sarebbe penalizzata dal fatto di dover operare un doppio collegamento. I QR Code – infatti – funzionano come i link all’interno degli ipertesti rimandando solamente a un contenuto digitale presente su un supporto differente.

Come anticipato in precedenza, un altro filone di ricerca molto interessante è quello legato alla progettazione di prodotti videoludici con finalità educative. Un’esperienza molto interessante di applicazione dell’AR ai contesti di apprendimento outdoor è stata tentata dal Nesta Future Lab di Londra – oggi fuso con NFER – attraverso l’applicazione Savannah. Come riportano anche gli studi di Klopfer (2008) le esperienze di AR hanno fatto emergere come la dimensione di contatto e di confronto con le realtà sia determinante e fondamentale. I focus group condotti con i ragazzi che hanno preso parte ad alcuni esperimenti di applicazioni AR per l’apprendimento in contesti outdoor hanno messo in evidenza proprio l’importanza di sperimentare in maniera attiva e in prima persona i concetti teorici trattati in precedenza: con l’applicazione dell’AR è stato – infatti – possibile unire una dimensione di apprendimento esperienziale e di sperimentazione attiva con una più teorico-informativa fornita dal layer aggiunto (Klopfer, 2008).

Il miglioramento dei processi di apprendimento, secondo le esperienze di Klopfer, si rifletterebbe anche a livello trasversale su una migliore interazione all’interno dei gruppi di studenti: la sperimentazione condotta – infatti – ha permesso di mettere in luce l’emergenza di dinamiche classiche dei contesti di apprendimento cooperativo con la presenza degli elementi caratterizzanti: interdipendenza positiva, senso di responsabilità individuale, costruzione di dialogo con i pari e via dicendo. L’AR applicata in questo modo sarebbe quindi un valido strumento anche per rafforzare gruppi di lavoro e per promuovere un tipo di apprendimento più interconnesso, interattivo, coinvolgente ed efficace.

Nella medesima direzione vanno gli esperimenti condotti Kamarainen et alii (2016) e del loro utilizzo della AR nel percorso di apprendimento outdoor di alcuni studenti. E’ proprio in questo ambiente – infatti – che la realtà aumentata sembrerebbe giocare un ruolo fondamentale nel miglioramento dell’esperienza complessiva dei discenti.

Se spostiamo l’attenzione dal mondo videoludico a quello professionale è possibile riscontrare tutta una serie di applicazioni dell’AR negli ambiti dell’assistenza in tempo reale e dell’ausilio ad attività manuali ed eminentemente pratiche. E’ in questa direzione che si collocano gli studi di Anastassova e Burkhardt (2009) che dimostrano come l’AR possa essere impiegata all’interno di una comunità di tecnici specializzati e portare notevoli vantaggi. Tra le potenzialità indagate vi sono:

  • La possibilità – per chi la utilizzasse – di “imparare facendo”, cioè di costruire la conoscenza in modo attivo, esplorativo e autonomo a partire direttamente dagli stimoli provenienti dall’ambiente di lavoro.
  • La facilitazione del processo di ricerca da parte dei soggetti in formazione: poiché le informazioni richieste sarebbero proposte dai dispostivi AR nel momento e nel tempo opportuni, senza che sia richiesto nessun tipo di intervento da parte di chi sta lavorando con conseguente diminuzione della possibilità di dispersione dell’attenzione e della concentrazione sul compito.
  • La riduzione delle possibilità di errore, poiché il legame tra concetti e informazioni teoriche e la loro applicazione concreta sarebbe visualizzata immediatamente, facilitando la memorizzazione da parte dei soggetti e rendendo più semplice il recupero delle medesime informazioni in memoria.

Le ricerche di Anastassova e Burkhardt non sono le uniche ad approfondire il legame esistente tra AR e processi di apprendimento, soprattutto nel settore automotive e nella meccanica specializzata. Nella medesima direzione si collocano i lavori di Ong et alii (2008) che individuano i vantaggi dell’AR come strumento da affiancare a operatori specializzati durante lo svolgimento delle loro quotidiane routine di lavoro. Anche in questo caso la Realtà Aumentata sarebbe in grado di diminuire le possibilità di errore esemplificare il lavoro degli specialisti. Il training delle abilità spaziali attraverso VR e AR è mostrato anche dalle ricerche di Dünser et alii (2006).

Queste ricerche sui due differenti versanti di sperimentazione sottolineano l’importanza dell’interfaccia all’interno dei processi assisti da AR: l’interfaccia – che come si è visto si colloca come un meta-medium – deve essere infatti il più trasparente possibile consentendo agli utenti di essere un vero valore aggiunto e non una penalizzazione

Apprendere dall’esperienza: la realtà aumentata come supporto al percorso di crescita della persona

Riflettere sull’apprendimento esperienziale significa muoversi in un contesto informale e non strutturato in cui il “fare” gioca una dimensione fondamentale. Già Wenger (2006) nel suo celebre lavoro sulle comunità di pratica ha sottolineato l’importanza, sia per le organizzazioni sia per gli individui, di cogliere quell’apprendimento inafferrabile, intangibile che rappresenta – però – il vero nucleo di conoscenze che si possiedono. Considerato in questo modo, l’apprendimento diviene un fenomeno emergente che si colloca in un orizzonte di riflessione sulle pratiche e sugli interessi soggettivi delle persone che fanno parte di comunità in cui scambi e relazioni oltreché attività concrete fanno da collante strutturale.

Cercando di risalire alle origini dell’apprendimento esperienziale, all’inizio del Novecento, è possibile trovare tre autori fondamentali: Dewey, Lewin e Piaget.

Le teorie di Dewey sottolineano come l’esperienza educativa sia veramente tale solo quando si stabilisce un rapporto consapevole tra mondo e soggetto; la sola attività non costituisce – di per sé – esperienza. Il fare esperienza implica un cambiamento significativo nella vita e nelle rappresentazioni di un individuo (Reggio, 2003). Lewin teorizza – invece – un processo di ricerca-azione che integri teorie e prassi all’interno dell’universo conosciuto dal soggetto. Piaget, dal canto suo, gioca un ruolo fondamentale nella riflessione che vede il processo di apprendimento come una dimensione indispensabile in grado di consentire al soggetto di entrare in relazione con l’ambiente. Il processo riflessivo di “presa di coscienza” nascerebbe, infatti, da uno “scontro” tra ciò che il soggetto conosce e ciò che acquisisce dall’ambiente (Reggio, 2003).

Le riflessioni di questi autori – in questa sede solo brevemente accennate – divengono fondamentali nel pensiero di David Kolb e nell’elaborazione del suo ciclo dell’apprendimento esperienziale, che – come si vedrà in seguito – permette di comprendere meglio in che modo teoria e prassi possano entrare in contatto e in che modo sia possibile generare un apprendimento davvero significativo a partire dall’esperienza vissuta.

Dal punto di vista psicologico l’apprendimento può essere definito come «una trasformazione nel tempo, la quale modifica caratteristiche di natura psicologica intrinseche all’individuo, mostra una certa stabilità e i suoi risultati sono mantenuti con una certa autonomia» (Antonietti & Cantoia, 2010: p. VII).

Kolb, rielaborando i concetti propri delle teorie di Dewey, Lewin e Piaget, propone un modello che consta di quattro fasi principali disposte su un piano circolare:

  • Esperienza concreta
  • Osservazione riflessiva
  • Concettualizzazione astratta
  • Sperimentazione attiva

Durante la sperimentazione in contesti AR la persona vive – prima di tutto – un’esperienza, ma per fare in modo che quell’esperienza lasci qualcosa e si trasformi realmente nel cambiamento duraturo che si è visto essere fondamentale nella definizione di apprendimento, è necessario un passaggio successivo. E’ dunque indispensabile che l’esperienza vissuta sia accompagnata da una riflessione una meta-cognizione e da un lavoro di debriefing, che permetta di recuperare e comprendere quanto fatto in modo da cristallizzare la conoscenza esperita. Questi due livelli di “lavoro” sono coerenti anche con le teorie di Kahneman [9] che suggerisce che il modo migliore per favorire un cambiamento sia di lavorare su entrambi i sistemi che l’essere umano possiede: il sistema 1, legato all’esperienza, all’intuizione e il sistema 2,  basato sul ragionamento e la riflessione.

Apprendimento

Volendo tornare nuovamente ricollegare l’AR a un contesto di sperimentazione attiva e di apprendimento esperienziale possiamo sottolinearne l’efficacia ricollegandoci a quanto sostenuto da Antonietti e Cantoia quando affermano: «i contesti significativi di apprendimento sono quelli che si avvicinano o emulano i contesti reali: si dovrebbe apprendere laddove l’apprendimento viene poi speso; l’apprendimento dovrebbe tradursi nell’elaborazione di prodotti socialmente apprezzabili; l’apprendimento richiede l’interazione genuina – non simulata – tra partner simmetrici in un quadro di distribuzione delle risorse e dei compiti» (Antonietti & Cantoia, 2010: p. 3).

In generale potremmo pensare all’AR anche come uno strumento che ricopra – all’interno dei processi di apprendimento – la funzione di scaffolding [10], si faccia carico, cioè, di:

  1. proporre al discente gli stimoli e il compito da eseguire;
  2. mantenere l’attenzione del soggetto in apprendimento sul compito da eseguire;
  3. semplificare e rendere maggiormente accessibile il compito;
  4. restringere la gamma di azioni che è possibile compiere a quelle che sono pertinenti e utili al fine del raggiungimento dello scopo desiderato per la risoluzione del compito;
  5. mostrare ed esemplificare possibili soluzioni al compito.

Si tratterebbe, dunque, di uno strumento che agisce a più livelli sul processo di apprendimento collocandosi ora come strumento in grado di arricchire l’esperienza, ora come ambiente, ora come tool in grado di aiutare e fornire le direttive necessarie per raggiungere gli obiettivi prefissati.

Conclusioni: quale futuro per l’AR nei processi di apprendimento?

Il discorso condotto fino a questo punto ha voluto porre l’accento su alcune dimensioni fondamentali che legano il rapporto tra l’apprendimento e le tecnologie in realtà aumentata. L’AR si è mostrata, e si sta mostrando, uno strumento efficace non solo per le azioni di marketing e per l’ambito videoludico, ma anche per la gestione dell’intero percorso di apprendimento considerando soprattutto la sua facilità e naturalezza d’uso, la qualità dell’esperienza che ne deriva e gli aspetti di praticità, immediatezza che le sono propri. I diversi esempi rappresentati e raccontati nel presente lavoro di sintesi sul tema, mostrano che l’intuizione è corretta e che la strada intrapresa è quella giusta: una evoluzione tecnologica e una diminuzione dei costi di realizzazione (grazie anche alla proliferazione di app che supportano nella creazione di ambienti in AR) consentono, e consentiranno, a un numero sempre più elevato di educatori di sperimentare queste nuove modalità.

A titolo conclusivo è opportuno sottolineare come il presente lavoro e le riflessioni che, più in generale, sono mosse in questa direzione, non intendano in alcun modo proporre modelli educativi e formativi che si sostituiscano alle tradizionali pratiche ma, bensì, rappresentare uno scenario possibile di applicazione che – in alcuni contesti specifici come quelli illustrati – è in grado di fornire un contributo significativo al percorso di generazione di apprendimenti significativi lungo tutto l’arco della vita.

E’ necessario, dunque, un ripensamento delle logiche classiche al fine di trovare una via di mezzo che riesca a conciliare innovazione e tradizione alla ricerca del migliore degli scenari possibili.

Per concludere con una citazione di Norman:

«la tecnologia ci pone di fronte a problemi fondamentali che non possono essere superati basandoci su quanto abbiamo fatto nel passato. Abbiamo bisogno di un approccio più tranquillo, più affidabile, più a misura d’uomo.» (Norman, 2008: p. 31)

Bibliografia & Riferimenti

Anastassova M., Burkhardt J.M. (2009), Automotive technicians’ training as a community-of-practice: Implications of an augmented reality teaching aid. Applied Ergonomics, 40, pp. 713-721

Antonietti A., Cantoia M., (2010), Come si impara. Teorie, costrutti e procedure nella psicologia, Mondadori: Milano

Besana S. (2010), L’uso del Quick Response (QR) Code come tecnologia didattica: uno studio esplorativo, Tecnologie Didattiche, 51, pp. 34-40

Botden M.B.I.S., Jakimowickz J.J. (2009), What is going on in augmented reality simulation in laparoscopic surgery?, Surg Endosc, 23, pp. 1693-1700

Botden M.B.I.S., Jakimowickz J. J., De Hingh I.H.J.T. (2009), Suturing training in Augmented Reality: gaining proficency in suturing skills faster, Surg Endosc, 23, pp. 2131-2137

Craig A., McGrath R.E. (2007), Augmenting Science Texts with Inexpensive Interactive 3D Illustrations, in Internet, URL: https://netfiles.uiuc.edu/a-craig/www/AR/AR_scenario.pdf

Dünser A., Kaufman H., Steinbügl K., Glück J. (2006), Virtual and Augmented Reality as spatial Ability Training Tools, Proceedings of the CHINZ 2006, University of Canterbury, Christchurch, New Zealand, pp. 125-132

Dünser A., Hornecker E. (2007), An observational study of children interacting with an augmented story book, Edutainment ’07 Proceedings of the 2nd international conference on Technologies for e-learning and digital entertainment, in Internet, URL: http://mcs.open.ac.uk/pervasive/pdfs/duenserEdutainment07.pdf

Dünser A. (2008), Supporting low ability reader with interactive augmented reality, Paper presented at the Annual review of cyber therapy and telemedicine: changing the face of healthcare, San Diego

Klopfer E. (2008), Augmented Learning. Research and Design of Mobile Educational Games, MIT Press: Cambridge

Kamarainen A.M., Metcalf S., Grotzer T.A., Brimhall C., Dede C., (2016),  Atom tracker: designing a mobile augmented reality experience to support instruction about cycles and conservation of matter in outdoor learning environments, International Journal of Designs for Learning, Vol. 7, issue 2, pp. 113-130

Klopfer E. (2008), Augmented Learning. Research and Design of Mobile Educational Games, MIT Press: Cambridge

Milgram P., Kishino F. (1994), A taxonomy of mixed reality visual displays, IEICE Transactions on Information Systems, 12, pp. 1321-1329

Norman D.A. (2008), Il futuro del design, Apogeo: Milano

Ong S.K., Yuan M.L., Nee, A.Y.C. (2008), Augmented reality applications in manifacturing: a survey, International Journal of Production Research, Vol. 46, N. 10, pp. 2707-2742

Reggio P. (2003), L’esperienza che educa. Strategie d’intervento con gli adulti nel sociale, Unicopli: Milano

Riva G. (1999), Virtual Reality as a communication tool: A socio-cognitive analysis, Journal of Visual Languages and Computing, Vol. 10, pp. 87-97

Riva G. (2008), Psicologia dei nuovi media, Il Mulino: Bologna

Wenger E. (2006), Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità, Raffaello Cortina Editore: Milano


[1] Per sostanziare quanto stiamo affermando è sufficiente dare un’occhiata ai numeri legati alle piattaforme digitali raccontati nell’ottimo report di We Are Social di Gennaio 2017: https://wearesocial.com/blog/2017/01/digital-in-2017-global-overview

[2]  I device che possono essere utilizzati per la sperimentazione dell’AR sono anche molto diversi tra loro e vanno da caschi e occhiali indossabili a semplici display digitali (ad es. quelli dei comuni smartphone) che svolgono la funzione di AR semplicemente inquadrando – mediante fotocamera integrata – la realtà fisica.

[3] Pokémon Go è un prodotto di intrattenimento videoludico sviluppato dalla Nintendo con il supporto della Niantic. Maggiori informazioni sono disponibili sul sito ufficiale: http://www.pokemongo.com/.
Secondo Wikipedia (https://en.wikipedia.org/wiki/Pok%C3%A9mon_Go) il gioco è stato scaricato da oltre 650 milioni di persone (Febbraio 2017) e vanta – ad oggi – 65 milioni di utenti attivi mensilmente (Aprile 2017).

[4] Un feedback aptico è un feedback che è generato da una tecnologia o interfaccia aptica. Con questo temine s’intendono tutti quei dispositivi che, nel momento in cui vengono manovrati sono in grado di fornire una risposta immediata e di restituire una serie di sensazioni: tattili, visive e sonore in grado di connotare localmente l’interazione – In Internet, URL: http://en.wikipedia.org/wiki/Haptic_technology

[5] Le immagini sono tratte dal libro Dr. Jekyll e Mr. Hide realizzate da Martin Kovacovsky, un artista visuale, sul suo sito ufficiale è possibile anche guardare un video dimostrativo, davvero notevole, del funzionamento del libro – In Internet, URL: http://martinkovacovsky.ch/

[6] I lavori di Dünser si possono approfondire anche online sul sito ufficiale dell’HIT Lab di Canterbury (Nuova Zelanda) – In Internet, URL: http://www.hitlabnz.org/Hom, in cui un settore importante di ricerca è dedicato proprio all’impatto che l’AR ha sui processi cognitivi e di apprendimento.

[7] Augment è una end-to-end platform che consente la creazione di modelli 3d in realtà aumentata e vanta diverse applicazioni in ambito organizzativo e scolastico – In Internet, URL: http://www.augment.com/education/

[8] Codice QR (in inglese, QR Code) è un codice a matrice (o codice a barre bidimensionale) creato dalla corporation giapponese Denso-Wave nel 1994. QR deriva da “Quick Response” (dall’inglese risposta rapida), poiché consente una rapida decodifica del contenuto a esso associato. Maggiori informazioni sui QR Code – In Internet, URL: http://it.wikipedia.org/wiki/Codice_QR

[9] A proposito delle teorie dello psicologo e della “lotta” tra esperienza e memoria è possibile anche visionare un interessantissimo talk svolto al TED di qualche anno fa proprio su questi temi: In Internet, URL: http://www.ted.com/talks/lang/ita/daniel_kahneman_the_riddle_of_experience_vs_memory.html

[10] “Scaffolding” significa – letteralmente – “impalcatura” e indica «un insieme di procedure che possono aiutare l’apprendimento in quanto figura esperta, affiancandosi al discente, offrendo a quest’ultimo istruzioni, indicazioni e suggerimenti per compiere in maniera adeguata un’attività» (Antonietti & Cantoia, 2010 p: 95). Le nuove tecnologie didattiche consentono al discente di avvalersi della funzione di scaffolding anche senza la presenza fisica di un esperto.

E’ recentemente uscito un nuovo approfondimento di Altimeter relativo allo stato dell’arte del mondo digitale. Il numero si concentra in particolar modo sulla creazione e sulla definizione dei principi guida che dovrebbero fornire il punto di partenza per una strategia digitale (qui trovate il report se siete interessati a una lettura completa – http://www2.prophet.com/crafting-a-digital-strategy)

Analizziamo i principali messaggi che emergono dal documento.

In primo luogo – e casomai ce ne fosse ancora bisogno – sono sottolineate le motivazioni che portano le aziende di tutto il mondo a intraprendere un serio cammino verso la trasformazione digitale. A conti fatti le ragioni sottese sono molto semplici e sono state evidenziate più volte in questa e in altre sedi: presenza sul mercato, necessità di incontrare le esigenze dei consumatori, definizione di nuovi modelli di business…
Siamo però arrivati al punto in cui le aziende si stanno diversificando tra coloro che impiegano i servizi digitali (e sono la maggior parte delle organizzazioni presenti ad oggi sul mercato) e coloro che sono effettivamente in grado di fare la differenza all’interno di questo tipo di servizi.

Detto in altri termini siamo giunti al bivio in cui il digitale diviene parte naturale e integrante della strategia di business dell’azienda o rimane semplicemente un canale da utilizzare per attività e iniziative generiche 

Altimiter mette subito in luce una distinzione con la quale personalmente non concordo moltissimo:

Digital Transformation:

The realignment of or new investment in technology, business models, and processes to more effectively compete in an everchanging digital economy.

Digital Strategy: 

A plan of action to achieve business objectives using digital technologies

Al di là delle definizioni e delle etichette di sorta ciò che mi sembra importante sottolineare è che – ad oggi – la trasformazione digitale deve riguardare tutti i processi e i meccanismi che contribuiscono alla stessa struttura dell’impresa. Senza un approccio complessivo, olistico e completo non è possibile ottenere nessun risultato.

All’interno del percorso di costruzione di una strategia digitale (che coinvolga sia l’interno sia l’esterno dell’impresa) le organizzazioni incontrano notevoli difficoltà e barriere che devono essere correttamente affrontate per poter avere successo.

Capture

Cerchiamo di capire meglio quali sono queste barriere:

  • Allineamento: riguarda la capacità di agire come un unico organismo a livello organizzativo. Il digital deve essere considerato a livello cross dai diversi dipartimenti e dalle diverse service line dell’azienda consentendo al massimo il ritorno dei risultati per tutta l’organizzazione. Allineamento significa anche coinvolgimento esteso di tutta l’organizzazione dai livelli più alti di senior leadership e top management (senza i quali è impossibile cambiare le modalità di lavoro) e dei livelli “più bassi” dell’organizzazione che rappresentano di fatto gli utenti finali del processo di trasformazione aziendale
  • Competenze: il ruolo delle competenze è fondamentale. Nel mondo del digitale ci troviamo di fronte a clienti e consumatori che sono molto più rapidi, informati, veloci e – spesso – competenti di noi. L’unico modo per far fronte a queste nuove sfide e per insegnare all’organizzazione a muoversi di conseguenza è dotarsi di strumenti e di capacità nuove che sian in grado di rispondere alle sollecitazioni e alle sfide imposte dal mercato. Il ruolo della formazione e dell’educazione, in questo senso, risulta – ancora una volta – fondamentale.
  • Silos e barriere interne: le organizzazioni sono sempre state abituate a ragionare organizzandosi in compartimenti stagni. Questa logica oggi è assolutamente inadatta a gestire le eccezioni ai processi organizzativi che siamo chiamati a fronteggiare.

As Bennet Harvey, Director of U.S. West Coast Digital Strategy at Wipro Digital, told us, “Many companies are realizing that top-down
organizations can’t drive significant improvements in customer experience,” but then again, completely breaking silos — as Zappos attempted with its shift to a holocracy — isn’t easy either

  • Metriche: le aziende con cui mi confronto quotidianamente molto spesso non impiegano né sono consapevoli dell’importanza delle (ne ho parlato anche in un articolo per Centodieci qui – http://www.centodieci.it/2016/06/per-migliorare-il-business-con-il-digital-devi-puntare-sui-tuoi-dipendenti/). Molto spesso si “naviga” a vista, senza avere una chiara idea della direzione da intraprendere e dei modelli da seguire. Sono solo le aziende più mature a conoscere approfonditamente i modelli di valutazione e ad impiegare metriche che non si limitino a valutare solamente una dimensione di engagement (like, commenti, share…) ma che includano anche una dimensione maggiormente connessa al business e al fare impresa (efficienza, capacità di innovazione, vendite, miglioramento della soddisfazione interna…)
  • Risorse: anche il tema delle risorse è un tema molto molto delicato e richiede seri investimenti. Senza la presenza di agenti di cambiamento, community manager, strategist di livello che siano in grado di scaricare a terra il valore aggiunto di quanto il digitale è in grado di fare, le cose semplicemente… non funzionano!
  • Cultura: da Schein in poi le Culture d’Impresa hanno sempre avuto un ruolo fondamentale nella definizione di un’organizzazione. L’unico modo per ottenere risultati significativi in termini di trasformazione digitale è cambiare il modus operandi e la cultura organizzativa evolvendola verso un modello completamente nuovo che sia in grado di imparare dalle lezioni del digitale
  • Governance e regolamentazione: è importante definire principi e linee guida che supportino i processi e i cambiamenti in atto. Anche in questo caso sono molto poche le aziende e le organizzazioni che si sono dotate negli anni di una governance e di policy adeguate all’uso dei media digitali. E’ un passaggio importante intimamente connesso con la struttura stessa del fare azienda

Oltre alle barriere Altimeter identifica una serie di principi da seguire per poter evolvere la propria situazione luno il continuum della trasformazione digitale.

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Un percorso tracciato quindi che le organizzazioni di tutto il mondo dovrebbero avere la forza di intraprendere in modo significativo per poter fare la differenza in termini di leadership digitale.

Qualche mese fa è uscito un report molto interessante del MIT Sloan in collaborazione con Deloitte University Press che analizza attorno a quali assett si muovano le organizzazioni realmente digitali.

Come facilmente intuibile il report (che trovate liberamente scaricabile a questo indirizzo: http://sloanreview.mit.edu/projects/strategy-drives-digital-transformation/) si concentra su una dimensione di cambiamento legata all’importanza che una corretta direzione di impostazione strategica è in grado di fornire. Per chi segue questo blog e per chi segue il cambiamento organizzativo da vicino non si tratta certo di una novità: la tecnologia – digitale e non –  ha da sempre rappresentato un fattore abilitante e mai il motore del cambiamento vero e proprio. Per cambiare concretamente le organizzazioni è necessario agire su altre leve, molto più delicate e complesse: nessuna trasformazione digitale è solamente tecnologica e i progetti che ci concentrano solo su questa dimensione sono destinati al fallimento immediato.

Come si legge anche nel report:

Digital strategy drives digital maturity. Only 15% of respondents from companies at the early stages of what we call digital maturity — an organization where digital has transformed processes, talent engagement and business models — say that their organizations have a clear and coherent digital strategy. Among the digitally maturing, more than 80% do.

Alcuni messaggi chiave che emergono nell’immediato:

  • Le organizzazioni maggiormente mature sono quelle che hanno una strategia ad ampio respiro che coinvolga tutta l’organizzazione e che sia in grado di massimizzare i risultati ottenibili. Il cambiamento non può essere imposto dall’alto, ma nemmeno organizzato solo dal basso
  • La forza della trasformazione digitale corretta risiede in una corretta definizione degli obiettivi e del punto d’arrivo. Come nel famoso adagio di Seneca: “non esistono venti favorevoli per il marinaio che non sa dove andare”
  • La trasformazione richiede competenze verticali che non è possibile delegare: è necessario mettere assieme il team corretto in grado di supportare l’organizzazione nel percorso di cambiamento
  • La digitalizzazione attira i talenti, i dipendenti intendono lavorare per i cosiddetti “digital leader” che ottengono punteggi più elevati all’interno dei desideri degli utenti
  • Assumersi rischi è diventata la cultura dominante all’interno delle migliori organizzazioni. I leader sono quelli che non hanno paura di sbagliare e che si muovono in contesti anche molto complessi senza volerne necessariamente mantenere il controllo
  • I leader sono sempre coinvolti in prima persona. Lo abbiamo visto e detto molte volte: senza un coinvolgimento della testa dell’organizzazione il cambiamento non può avvenire e nessuna trasformazione può essere efficace

La seguente figura mostra le barriere che le organizzazioni si trovano a dover affrontare a seconda del loro differente livello di maturità rispetto ai temi della digital transformation.

Barriers

Un altro dato interessante che emerge dall’analisi condotta  è – a mio avviso – quello che riguarda la differente penetrazione dei servizi digitali a seconda dei differenti settori di mercato. Non per tutti la trasformazione digitale sta avendo il medesimo impatto e non per tutti il cambiamento sta avvenendo con la medesima velocità.
Il digitale tocca comunque tutti i settori cambiandone le logiche di base e rendendo alcune organizzazioni più o meno restie ad accettare il processo di cambiamento

Levels

Un altro punto di fondamentale importanza è quello legato allo storytelling e al raccontare una storia, le aziende che stanno avendo il successo maggiore sono proprio quelle in grado di muoversi anche su questo versante coinvolgendo, in senso ampio, l’intera organizzazione nel processo di cambiamento e nel processo di trasformazione. Nessuno deve sentirsi escluso e il modo migliore per  raggiungere questo obiettivo sembra proprio essere quello di dare ai dipendenti una storia nella quale identificarsi.
Come si legge nel report:

In our interviews, we found that storytelling is becoming a popular means of gaining employee buy-in and organizational traction for digital transformation.
Disney is a prime example. To capture the hearts and minds of its employees, Disney carefully crafts internal messages so that they are highly relevant.
“We develop stories all day long at Disney,” says Disney senior vice president Milovich. “A great story is  a key element in getting funding for a pilot for our TV shows, and we apply this same storytelling capability to allocate capital for our employee digital initiatives.”

Il legame tra cultura e tecnologia è tutt’ora annoso e complesso. Da quello che emerge dall’analisi sembrerebbe chiaro il ruolo preponderante della prima sulla seconda e il fatto che senza una adeguata cultura di cambiamento non si possa effettivamente trasformare il mondo organizzativo nel quale si vive.

In ogni caso i leader della trasformazione digitale restano coloro che sono in grado di innovare e di trasformarsi su differenti livelli e differenti aspetti: barriere, strategia, cultura, sviluppo e gestione dei talenti, tecnologia, leadership…

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Negli ultimi mesi mi è capitato di leggere due eccezionali lavori di Gary Hamel, professore, saggista e mente illuminata in grado di teorizzare un nuovo modello e un nuovo modo di concepire le organizzazioni.
Il primo libro che ho letto è un classico da qualche anno nelle librerie di molti consulenti ed è “The Future of Management” mentre il secondo, più recente e forse ancora più “estremo” per certi punti di vista è “What matters now

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All’interno del secondo volume c’è un aspetto che ritengo molto interessante e particolarmente di livello. 12 insegnamenti che le organizzazioni dovrebbero imparare dal funzionamento della rete e del web (quelli che riporto qui sono tratti da un post sul WSJ – http://blogs.wsj.com/management/2009/03/24/the-facebook-generation-vs-the-fortune-500/).
Sono spunti interessanti che meritano di essere commentati e ricondotti a una logica più ampia che corrisponde a un nuovo modello di fare impresa. Vediamoli:

1. All ideas compete on an equal footing.
On the Web, every idea has the chance to gain a following—or not, and no one has the power to kill off a subversive idea or squelch an embarrassing debate. Ideas gain traction based on their perceived merits, rather than on the political power of their sponsors.

Nei contesti online le idee e le persone sono valorizzate allo stesso modo. Non esistono formalità o burocrazie che impediscano a una idea di essere meglio di un’altra né ad una idea lanciata da qualcuno che si trova in una posizione “inferiore” rispetto ad altri di non avere lo stesso potenziale successo. In questo senso la rete – come le organizzazioni – dovrebbero rappresentare contesti il più democratici possibile e favorire la circolazione di informazioni. Se l’idea è buona ha successo se non lo è non merita di essere presa in considerazione. Questo è il modello. Il cosa conta più del chi.

2. Contribution counts for more than credentials.
When you post a video to YouTube, no one asks you if you went to film school. When you write a blog, no one cares whether you have a journalism degree. Position, title, and academic degrees—none of the usual status differentiators carry much weight online. On the Web, what counts is not your resume, but what you can contribute.

Simile riflessione anche per quel che riguarda il background delle persone e quello che le persone dicono o fanno. In questo caso come riportato molto bene nell’esempio il fare conta più di molti titoli e di molte parole. Se le persone sanno fare e sanno dare un contributo di valore nell’organizzazione allora questo dovrebbe essere valorizzato al di li dei curricula o dei ruoli ricoperti da ognuno. Il merito rispetto ai risultati raggiunti dovrebbe essere il fattore chiave che guida.

3. Hierarchies are natural, not prescribed.
In any Web forum there are some individuals who command more respect and attention than others—and have more influence as a consequence. Critically, though, these individuals haven’t been appointed by some superior authority. Instead, their clout reflects the freely given approbation of their peers. On the Web, authority trickles up, not down.

Declinazione naturale di quanto si diceva prima nei punti 1 e 2 è questa. Non esistono gerarchie prescritte ma solo gerarchie mobili e naturali basate appunto sulla competenza e sui cambiamenti che avvengono nel lavoro. Nel web e in rete il funzionamento è esattamente quello descritto.

4. Leaders serve rather than preside.
On the Web, every leader is a servant leader; no one has the power to command or sanction. Credible arguments, demonstrated expertise and selfless behavior are the only levers for getting things done through other people. Forget this online, and your followers will soon abandon you.

I leader non si limitano a comandare o fornire indicazioni ma partecipano attivamente alla costruzione di valore e di contenuto all’interno dell’organizzazione. Le logiche di comando e di controllo decadono completamente e vengono sostituite da modelli organizzativi flat e collaborativi che consentono di adattarsi meglio alle sfide del mercato e che provengono dall’esterno.

5. Tasks are chosen, not assigned.
The Web is an opt-in economy. Whether contributing to a blog, working on an open source project, or sharing advice in a forum, people choose to work on the things that interest them. Everyone is an independent contractor, and everyone scratches their own itch.

In un modello simile a quello che Zappos ha annunciato di voler perseguire nel 2014 (http://venturebeat.com/2013/12/31/how-zappos-is-getting-rid-of-managers-to-retain-a-flat-startup-culture/) gerarchie, task e gruppi di lavoro sono autodeterminati e sono organizzati in modo collaborativo e dinamico, sempre intercambiabili e in grado di fornire un supporto di valore a qualunque progetto

6. Groups are self-defining and -organizing.
On the Web, you get to choose your compatriots. In any online community, you have the freedom to link up with some individuals and ignore the rest, to share deeply with some folks and not at all with others. Just as no one can assign you a boring task, no can force you to work with dim-witted colleagues.

Stessa riflessione per i team di lavoro che si scelgono compiti, composizione, scadenze sulla base dei reciproci interessi e competenze lavorando in modo sempre motivato e significativo.

7. Resources get attracted, not allocated.
In large organizations, resources get allocated top-down, in a politicized, Soviet-style budget wrangle. On the Web, human effort flows towards ideas and projects that are attractive (and fun), and away from those that aren’t. In this sense, the Web is a market economy where millions of individuals get to decide, moment by moment, how to spend the precious currency of their time and attention.

All’interno delle community online, le risorse non sono gestite da un coordinamento centrale e da un organo di controllo specifico ma scelgono i propri progetti e sono attratte in modo spontaneo dai progetti di valore che vengono costruiti all’interno. Contenuto e persone di valore attraggono altre persone di valore.

8. Power comes from sharing information, not hoarding it.
The Web is also a gift economy. To gain influence and status, you have to give away your expertise and content. And you must do it quickly; if you don’t, someone else will beat you to the punch—and garner the credit that might have been yours. Online, there are a lot of incentives to share, and few incentives to hoard.

L’informazione è potere recita un vecchio adagio spesso applicato in contesti organizzativi molto strutturati.
Se da un lato questo è vero dall’altro può rappresentare un grosso freno nello sviluppo di nuovi processi e di frontiere innovative, all’interno della rete (pensiamo anche solo a come è costruita una community e un sito come quello di Wikipedia)

9. Opinions compound and decisions are peer-reviewed.
On the Internet, truly smart ideas rapidly gain a following no matter how disruptive they may be. The Web is a near-perfect medium for aggregating the wisdom of the crowd—whether in formally organized opinion markets or in casual discussion groups. And once aggregated, the voice of the masses can be used as a battering ram to challenge the entrenched interests of institutions in the offline world.

Le decisioni e le opinioni delle persone influenzano tutta l’azienda. In rete si sa che ogni pezzo di informazione e ogni nodo coinvolto ha una importanza chiave, nelle organizzazioni non è sempre e non è affatto così. Comprendere questo significa giocare di anticipo e abilitare ogni singolo attore nella creazione di valore e di successo per l’impresa. Abilitare i nostri dipendenti è spesso la soluzione migliore che abbiamo per fronteggiare il crescente potere del consumatore.

10. Users can veto most policy decisions.
As many Internet moguls have learned to their sorrow, online users are opinionated and vociferous—and will quickly attack any decision or policy change that seems contrary to the community’s interests. The only way to keep users loyal is to give them a substantial say in key decisions. You may have built the community, but the users really own it.

Il potere si traduce anche nella possibilità di veto. Trasformarsi e imitare una community significa anche questo. Ognuno ha la possibilità di impattare in modo davvero significativo sull’ambiente di cui fa parte.

11. Intrinsic rewards matter most.
The web is a testament to the power of intrinsic rewards. Think of all the articles contributed to Wikipedia, all the open source software created, all the advice freely given—add up the hours of volunteer time and it’s obvious that human beings will give generously of themselves when they’re given the chance to contribute to something they actually care about. Money’s great, but so is recognition and the joy of accomplishment.

Le ricompense non formali, gli incentivi intrinseci sono i migliori per stimolare la motivazione e il voler fare bene delle persone. Per molti individui non esiste nulla di più energizzante del sentirsi parte di una squadra che lavora in modo coeso verso un unico obiettivo e che condivide una passione e uno scopo. Puo’ sembrare una favola ma abbiamo visto anche in passato come la motivazione non sia guidata solo da incentivi economici e anzi, abbia molti altri aspetti da non sottovalutare (per approfondire si veda anche: https://sociallearning.it/2012/12/30/motivazione-e-gamification/ in cui l’argomento è stato trattato)

12. Hackers are heroes.
Large organizations tend to make life uncomfortable for activists and rabble-rousers—however constructive they may be. In contrast, online communities frequently embrace those with strong anti-authoritarian views. On the Web, muckraking malcontents are frequently celebrated as champions of the Internet’s democratic values—particularly if they’ve managed to hack a piece of code that has been interfering with what others regard as their inalienable digital rights.

La rete funziona anche e soprattutto grazie a coloro che non sono d’accordo, coloro che giocano un ruolo nel remare a volte controcorrente (con un senso si intende – ovvio), coloro che non la pensano sempre allo stesso modo degli altri. Queste persone contribuiscono alla creazione di una forte dialettica costruttiva e a realizzare cose che da molti altri sono ritenute impossibili.

Le “lezioni” evidenziate da Hamel che le organizzazioni dovrebbero apprendere dal web sono estremamente significative e di valore per chiunque voglia costruire il prossimo futuro della propria impresa. In sostanza queste “regole” non sono molto differenti da quello che tempo fa abbiamo teorizzato come social business. Un’organizzazione più a misura d’uomo, più personale, più in linea con principi di valore e di costruzione di senso per gli individui. Un modello aziendale che sembra – tra le altre cose – essere l’unico in grado di rispondere con efficacia alle sollecitazioni e ai nuovi stimoli che provengono dal mercato.

Di recente mi è capitato tra le mani un interessante report che analizza e fotografa in modo completo e professionale lo stato dell’arte rispetto al tema dell’Open Innovation consentendo di capire in modo molto semplice ed efficace a che punto siamo e in quale direzione si stiano muovendo le grandi aziende.
Trovate il report sul sito dell’Università di Berkeley, ve ne consiglio la lettura.

Prima di tutto che cosa si intende per Open Innovation?  In che modo è stata definita dagli autori del report?

Open innovation is defined as: “… the purposive use of inflows and outflows of knowledge to accelerate innovation in one’s own market, and expand the use of internal knowledge in external markets, respectively.”7 This is the definition we gave respondents for our survey. Using this definition, 78 % of respondents reported practicing open innovation, with 22 % reporting that they do not practice open innovation.

Ma cerchiamo di capire i dati salienti e i punti principali che vengono messi in luce all’interno dell’analisi.

  • Il 78% delle aziende all’interno del report pratica – o perlomeno afferma di praticare – in qualche modo o in qualche forma iniziative di Social e Open Innovation
  • Oltre il 71% delle iniziative di questo tipo trovano un supporto nel top management
  • L’82% del campione ritiene che le iniziative di questo tipo siano in netto aumento e di maggiore intensità rispetto a 3 anni fa
  • L’adozione di strategie e processi di open innovation è in forte crescita in modo trasversale rispetto alle singole unit e rispetto alle industry di riferimento. In questo senso si veda anche lo schema sotto-riportato che chiarifica il posizionamento delle aziende analizzate.

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  • Le aziende analizzate spendono circa 2 milioni di dollari in iniziative di open innovation all’anno e i team staffati sono di circa 20 persone/risorse full time
  • Il potenziale inesplorato dell’innovazione partecipata è ancora estremamente alto e non correttamente sfruttato per una serie di ragioni: mancanza di formazione corretta che consenta il pieno uso delle piattaforme e dei processi e mancanza di una strategia globale che connetta questa iniziative con i bisogni reali dell’impresa. In sostanza si analizza come a fronte di investimenti maggiormente mirati e strategie maggiormente focalizzate sul business i benefici di iniziative di questo tipo potrebbero – potenzialmente – essere molto maggiori e più legate all’effettivo bisogno espresso dalle organizzazioni.
  • Allo stato attuale molte delle iniziative di questo tipo sono da ricondursi a fasi ancora sperimentali e a esercizi stilistici fini a se stessi che non impattano in modo significativo sulla direzione verso la quale intendono andare le aziende.
  • L’insoddisfazione maggiore legata a questi temi sembra essere quella connessa alle metriche di misurazione di successo delle iniziative di collaborative innovation, mancano misure standard del ritorno dell’efficacia e dell’investimento, ma anche per comprendere adeguatamente l’impatto delle singole idee sull’organizzazione. La maggior parte delle volte non si fa – infatti – ricorso a strumenti che siano in grado di valutare l’efficacia e l’efficienza di questi processi.
  • Le attività di questo tipo – probabilmente anche grazie alla spinta e all’innovazione portata (e in un certo senso imposta) dai social media – sono aumentate e si sono intensificate nell’ultimo anno, crescendo non solo per le aziende che hanno iniziato da poco a sperimentare in questo settore ma anche – e soprattutto – per quelli che sono sul mercato dell’open innovation da più tempo.

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Di interessante rilievo mi sembra poi l’analisi rispetto ai partner ideali per le iniziative di social innovation. In un certo senso è possibile far emergere una riflessione che si collega molto bene con i principi chiave di una social organization e di un social business: la connessione – cioè – tra l’interno e l’esterno dell’organizzazione, l’allineamento tra le conversazioni che avvengono all’interno dell’azienda e quelle che avvengono all’esterno.
In questo senso diviene dunque fondamentale e di strategica importanza connettere consumatori esterni e dipendenti all’interno di ambienti che rappresentino il contesto ideale e privilegiato per poter far maturare iniziative valide che abbiano un impatto chiave sui processi e sulle strategie aziendali, connettendosi a precisi obiettivi di business e facendo maturare risultati concreti e misurabili.
Altre realtà rappresentano dei partner importanti ma come visibile occupano un posto minore rispetto a queste due dimensioni che riguardano l’interno e l’esterno dell’azienda.

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Altrettanto importanti risultano le riflessioni che vedono la connessione delle iniziative di open innovation con i dipartimenti interni all’azienda. In particolare risulta interessante e particolarmente significativo notare come la funzione HR giochi un ruolo marginale e quasi assente all’interno di questi processi. Questione molto significativa se si considera che invece proprio questa funzione dovrebbe essere a supporto significativo di questi processi garantendo il coinvolgimento esteso dell’intero ecosistema aziendale.

In generale provando a tirare le somme della questione possiamo dire che:

  • l’open innovation pur essendo un fenomeno tutto sommato nuovo ha del grosso potenziale che è già stato espresso e promette di averne ancora di più nei prossimi anni.
  • Le iniziative condotte dalle aziende pur con notevole soddisfazione estesa mancano di un coordinamento e di una precisa strategia che sia in grado di tenere insieme tutti i pezzi e tutte le risorse del progetto misurandone qualitativamente e quantitativamente output e risultati.
  • Lo spazio per migliorare è ancora molto e per le aziende c’è ancora molta strada da fare soprattutto dal punto di vista della cultura dell’innovazione e delle modalità di collaborazione.

Uno dei primi articoli scritti in questo blog (nell’ormai lontano 2011) era proprio legato a come i processi di creatività e di innovazione fossero (o meglio dovessero essere) legati a processi sociali.
Di recente mi è capitato sia di cimentarmi in progetti di Social Innovation sia di studiare più da vicino l’argomento. Un’interessante White Paper di SteelCase (che trovate qui – http://360.steelcase.com/topics/workspace-futures/) mette in luce anche altri aspetti – spesso non sempre considerati adeguatamente del processo di innovazione – che riguardano l’importanza del workplace aziendale.

Partiamo con una considerazione fondamentale: il mito del genio solitario è fasullo. Le grandi menti del passato (e del presente) difficilmente hanno “partorito” le idee chiuse in una torre d’avorio isolate dal mondo.
Come si legge anche nel report:

The myth of the lone genius achieving one eureka after another in a closed room is a cartoonish, outdated cliché.

In tempi di crisi e di difficoltà organizzative come quelli che stiamo vivendo l’Innovazione all’interno delle aziende può rappresentare davvero il fattore differenziante in grado di permettere un salto di livello.
L’innovazione – o meglio il processo di innovazione – non è un qualcosa che accade dal nulla (non sempre perlomeno) e nemmeno può essere forzato. Possono essere – però – create le condizioni perché “accada”.

Schermata 2013-02-22 alle 15.39.34All’interno dell’articolo sono messi in luce – inoltre – differenti modelli che le organizzazioni, nel corso della loro storia, hanno attuato.
Lo schema seguente riporta le diverse fasi, mostrando il percorso che porta da un modello di innovazione top-down, strutturato e pianificato a un modello più aperto, partecipato, collaborativo e bottom-up.

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Lascio alla lettura del report completo l’approfondimento dei differenti modelli di innovazione, sottolineando solo alcuni aspetti centrali:

  • come in molte altre occasioni non esiste un giusto o uno sbagliato. Esistono piuttosto processi che funzionano – a seconda del contesto – più o meno bene. Ciò che appare evidente è che comunque un processo di innovazione socializzato gli impatti e i risultati possono essere molto più ampi ed efficaci rispetto a un processo identico ma verticalizzato e “calato” dall’alto
  • Ogni azienda è – ed ha – una storia a sé stante: è necessario pensare modelli e soluzioni sartoriali che si adattino alle singole e specifiche esigenze.
  • Il processo di innovazione non può essere improvvisato: una corretta pianificazione (come vedremo anche tra poco) risulta fondamentale
  • Il ruolo della cultura aziendale e organizzativa all’interno dell’adozione di nuovi modelli gioca un ruolo chiave ed è fondamentale.
  • Il coinvolgimento allargato dell’ecosistema aziendale tutto (clienti, partner, stakeholder, dipendenti) può essere il fattore differenziante per amplificare al massimo i risultati del processo di innovazione. L’allargamento esteso – sia in termini di creazione sia in termini di valutazione e di ricezione delle idee – a tutta l’azienda.

A proposito di questo ultimo punto particolarmente interessanti risultano anche le riflessioni di Scott Belsky nel suo Making Ideas Happen.
Belsky evidenzia – ancora una volta (e casomai ce ne fosse ancora bisogno) come le idee, la creatività, l’innovazione non siano un “buon accidente”, un qualcosa che capita, ma piuttosto un processo ben definito che si basa su tre punti chiave e fondamentali.

Organizzazione e Pianificazione
Le idee possono essere pianificate con task, responsabilità e scadenze ben precise. Esattamente come qualunque altro progetto è possibile strutturare attività organizzative e di pianificazione che consentano di passare dal sogno alla concretezza fattiva dell’idea. La capacita di execution, di mettere in pratica l’idea, di realizzarla è tanto importante quanto l’idea stessa. Quante sono le idee che rimangono chiuse in un cassetto? Quante quelle irrealizzabili? E’ perché molto spesso si rinuncia ancora prima di aver cominciato?
Sottoporre il processo di innovazione a una dettagliata organizzazione e gestione non significa ingabbiare le idee, non significa piegare la creatività a dei compromessi. Significa passare dalla visione all’azione, dal pensare al fare. 

La forza della Community
Da solo nessuno può fare nulla. Nessun uomo è un’isola. Una bella riflessione di Keith Sawyer – autore di Group Genius – ben sintetizza tutto questo:

All great inventions emerge from a long sequence of small sparks; the first idea often isn’t all that good, but thanks to collaboration it later sparks another idea, or it’s reinterpreted in an unexpected way. Collaboration brings small sparks together to generate breakthrough innovation

L’importanza della condivisione dell’idea, del knowledge sharing, dell’esporre le idee al confronto e alla “contaminazione” da parte di altri risulta fondamentale. E’ raro che le idee geniali nascano “pure”, di solito la contaminazione – almeno in fase iniziale – avviene sempre. L’incrociare la propria idea con quella di altri può essere un punto chiave per vagliarla, metterla alla prova e per poterla rafforzare o ampliare anche verso nuovi orizzonti che non si erano minimamente immaginati e ipotizzati prima.
Aggiungo un altro spunto di riflessione, che non viene trattato nel volume di Belsky: le piattaforme di social networking e le tecnologie che ci stanno guidando verso la social enterprise rappresentano un importantissimo driver e contesto abilitante per questo tipo di procedure. Piattaforme che consentano la socializzazione delle idee e la condivisione sono basate proprio su questi meccanismi (per citare alcune delle più famose: My Starbucks Idea, Dell IdeaStorm, il Mulino che Vorrei…)

Leadership
L’ultimo punto che viene approfondito nel volume è quello legato alla capacità – propria di un leader – di ispirare gli altri e di fare in modo che l’idea venga applicata e sia portata fino alla fase conclusiva del suo processo di “gestazione”. Senza una leadership chiara, condivisa e una direzione decisa non si può andare da nessuna parte.

A titolo di completezza della discussione metto sul tavolo altri punti che ritengo fondamentali:

  • Valutazione: come valutare le idee? Come capire quelle davvero efficaci? Riflettere sul processo di valutazione e di selezione delle idee, ancora prima del lancio di iniziative partecipate è sicuramente doveroso e sensato. 
  • Lavorare sull’engagement: utilizzare processi, strategie e tecniche che consentano di aumentare
  • Provare, fare: come dice anche il Maestro Yoda: fare o non fare, non c’è provare! Abbandonare la paura di fallimento e intraprendere nuove strade può essere la soluzione – anche – a comuni problemi quotidiani. Inutile dirlo: uno degli scogli maggiori che si incontrano in questa direzione è quello culturale. La resistenza al cambiamento può rappresentare il problema principale.

Paolo Calderari di Palazzolo, Andrea Pesoli
Originally part of the Social Business Manifesto published for Harvard Business Review Italia by OpenKnowledge team. Read more on: 
http://socialbusinessmanifesto.com/ 

“Creativity in itself shouldn’t be encouraged: we instead need to encourage creative solutions to real problems. Innovation is only “good” when it’s useful.”

“There’s no such thing as a bad idea! Just poorly executed awesome ones.”

Look beyond innovation for the sake of innovation. More and more organizations today find themselves having to find and exploit new ideas and opportunities in order to respond to growing competitive pressure and to changes in customers’ needs. The recent economic recession has only further accelerated the urgency of this change and the “demand” for innovation for companies.

The main objective of innovation is not (only) to create the next hot product. Various types of innovation exist and people need to be engaged and stimulated to recognise and pursue not only product innovation, but also process or business model innovation. We need a way to encourage innovation and make it “normal”, namely not to separate it from the rest of the business. It has to be treated systematically, like any process in which a problem is determined and a solution is found. Some of the key questions we need to ask ourselves are therefore: What do we want to obtain and how? What resources will we need? Who will be part of the team? What will be the factors to motivate people and what recognitions will be given? How will the initiative’s success be measured?

Creativity therefore doesn’t have to be seen as a mysterious gift or prerogative of few “talents”, but as the – daily – activity of creating not obvious connections, putting things together that are normally not together. Innovation is always more the product of a collaborative process among individuals rather than the result of the intelligence of a single person.

What is Idea Management?

But where are all of these innovative ideas hidden that are so necessary to drive growth, productivity and value creation? When innovation is more important than ever, the collaborative management of ideas (collaborative idea management) through functions and geographical areas can help organizations to make new ideas emerge, and to refine them and ensure that they reach the right people. This approach is also a way to make employees more responsible and recognise the ones who are more active in the innovation process, so as to measure and stimulate creative activity and to promote a more open, collaborative and social culture in organizations. In other words, to create one or more innovation communities that work in a vertical or cross-cutting way in organizations.

Idea Management is a structured process – an integral part of the innovation process – aimed at the collection, management, selection and sharing of ideas. This process is typically supported by specific technologies (Idea Management Platform) that provide methods and tools that make the union of ideas, their assessment and – in some cases – even their execution, more effective and amplified. Idea Management can be applied in various contexts, from incremental improvements to more radical ones, and it can even cover the entire company ecosystem, including external stakeholders, partners and customers.

It is the social evolution of the traditional “idea box”, where, however, the use of the social processes and technological platforms of Idea Management profoundly transforms its nature:

  • Various forms of participation: these systems value the contribution not just of the idea proposal but also of the cross-valuation (vote), comment or criticism of the idea;
  • Contamination: everyone sees proposals from colleagues and a consistent idea can be born out of a proposal which in itself is not very concrete, or is unfocused, by enriching the information and/or concept;
  • Emergence: the most read, most commented or most appreciated ideas emerge and stand out from others, allowing the community to rapidly see the selection process in progress;
  • Collective Intelligence: if duly supported, the community can make proposals evolve by exploiting the intelligence and knowledge present in the system;
  • Focus on people (and not just on ideas): the proposals that stand out also identify a group of people who believe in the idea and who could also be involved in its implementation.

How to make the innovation process social

There are quite a few contributions that underline the importance of considering innovation as an open process that must involve many players within or outside the same business ecosystem.

The concept of “players” in the innovation process is important and interesting, because it reinterprets a “social” company role that is not always made clear in an organization chart (or rather not only focused on the R&D function) or in a specific organizational role. Unlike the traditional stage-gate selection process, the social approach to involvement and to the realisation of ideas and improvement projects is based on the activation of three different communities: he who brings or generates ideas (explorers, perhaps the most common meaning of innovator), he who carries them out (exploiters), and he who has the task of selecting and assessing them. It is precisely this last role, typically concentrated in Management, which is of fundamental importance for facilitating and “bridging the gap” between explorers and exploiters. Instead of acting as a restraint or gate-keeper (as a team would act by sticking to the assessment methods based on expert committees), the team has to act with a role of broker, a key figure who supports and accelerates the realisation of an idea.

A typical innovation process will therefore have the structure shown in Figure 1.

PHASE 1: Setting of objectives and scenario

  • Identify the topics and main areas of applicability of the initiative. A punctual analysis can help to understand both the sensitivity of an organization towards specific business topics and the level of cultural alignment on the social approach to innovation (readiness);
  • Identify the key players in the innovation process: therefore not only the formal figures, but above all – as we have already seen – those who already play an important role at an informal level (e.g. broker);
  • Specify and define the topics on which to start the first phase of idea production;
  • Involve and form the support team (experts, assessors, moderators, …).

PHASE 2: Generation of ideas

  • Launch the initiative on a restricted group of people (soft-launch) with the twofold objective of having a punctual feedback from end users and starting to populate the platform;
  • Involve a wider group in the generation of ideas (full-launch);
  • Punctually manage the growth of the community, timely intervening to “correct” negative behaviours (e.g. unconstructive comments, missing information, inappropriate language) and award positive ones (e.g. connections between ideas, precise comments, …);
  • Communicate the state of progress within and outside the community, also giving visibility to Top Management.

PHASE 3: Idea selection

  • Give visibility of the phase of approval of single ideas directly on the platform, punctually engaging the experts in the assessment;
  • Select the ideas (or groups of ideas), based on various KPIs. Ideally, the services on which it is important to concentrate are impact on the company (e.g.
    turnover increase, cost saving, scope of the idea, brand value, …) and feasibility (e.g. resources necessary, time to market, investment, …);
  • Award those who come up with the best ideas and…realise them!

This process, especially in phases 2 and 3, can obviously be repeated whenever new innovation initiatives on specific topics are to be launched (see figure 2).

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What to do and what not to do.

We end this article with a series of pieces of operational “advice” based on our experience:

  • Establish clear objectives. At times collaborative innovation initiatives are born within organizations as experiments or as extensions of collaborative social aspects. In these situations, the “learning by doing” approach sometimes takes over, and risks defocusing and dissolving the experience. In reality, to ensure the project’s success it is useful to initially identify clear business and result objectives, so as to strongly link the innovative process to an additional value brought to the organization and to its stakeholders.
  • Know the target. Before launching an innovation initiative, it is important to know who the participants in the process will be, in terms of profile, role, business unit and localisation in order to outline the best engagement strategy possible. Culture-country aspects must also not be underestimated. Tools like Social Network Analysis can also shed light on the existing collaborative dynamics and on the roles that some key players already play within the organization. These people should be punctually involved.
  • Manage the change and the alignment with the company strategy. The addition of an Idea Management tool must also be accompanied by a process of change management and alignment of the innovation initiative with the company strategy. There are many hidden barriers, firstly the natural low propensity to sharing and collaboration and the calling into question of formal roles. The communication, sharing and engagement of stakeholders in the process, especially if the approach is new within the company, are key to the initiative’s success and adoption.
  • Balance quality and level of engagement. Quality of ideas and level of engagement (e.g. number of people who actively participate) are two often conflicting objectives. We therefore need to know how to balance these two aspects in the various phases of maturity of the initiative, initially favouring engagement and introducing metrics to assess the quality of contributions once a certain consistency and stability has been reached in the community.
  • Exploit online and offline communication. As visually engaging and refined as it may be, online communication alone (email, launch videos, ….) still shows its limits. The best initiatives always mix online and offline elements in communication, especially when specific populations have to be involved in the initiative.
  • Being transparent in the assessment process. One of the weak points of the idea box approach is its lack of feedback in the assessment process. On open and social platforms, every remark, every feedback (e.g. a critical comment from an expert indicating the weak points of an idea) can be both the mainspring that makes the idea itself evolve and a moment of personal “formation” and formation for the community as a whole.
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Finally, a few points for attention:

  • Only concentrating on the “numbers”. Modern platforms offer very refined and punctual analysis and reporting mechanisms. It is however important to avoid concentrating too much on the numbers alone (e.g. ideas, votes, comments posted, …), because the real value is in the interactions between people and the connections they generate. Different cultural backgrounds produce creativity and innovation. Favouring and appreciating different opinions, identities and perspectives therefore generates a greater level of innovation. Although it is possible to measure these dynamics, a linear relationship does not always exist with real added value. The phrase “Not everything that counts can be counted” is therefore valid.
  • Lowering the guard on community management. The promise to involve employees in an open, collaborative process of research and development of new ideas is certainly compelling. However, once the initial novelty and interest period has worn off, the community’s activity must be supported by constant specific communication and engagement initiatives. Be careful not to overestimate the impact of gamification dynamics which, alone, cannot increase and sustain the participation and involvement of users.
  • Sidelining usability and graphic aspects. The consumerisation of IT cannot be ignored. Users, whatever their profile or role, will definitely pay attention to aspects that are easy to use and access. It is therefore better to spend a bit of time making the user experience easy and pleasant.
  • Not involving sponsors/executives in the process. Innovation within large organizations is often thwarted by the presence of inflexibility, a uniform company culture, and communication flows that are too formalised. Executives therefore have the fundamental role of facilitating and accelerating the various phases of the innovation process and, ultimately, realising the ideas. Having finally stressed the aspects of change, the involvement of senior figures is important to lead (in terms of leadership) the cultural and – where possible – organizational change.