Archives For November 30, 1999

In un precedente articolo ho tracciato alcune linee guida rispetto all’introduzione dell’Intelligenza Artificiale all’interno dei contesti HR. All’interno di questo pezzo vorrei provare ad approfondire maggiormente il tema, in modo da delineare alcuni possibili use case per i professionisti del mondo HR. Gli use case presentati sono solo un’ipotesi circa alcune delle possibili applicazioni dell’AI in contesti HR. Va da sé che gli scenari possano essere molto più ampi.

«Le domande come “che cos’è la vita?” o “la vita è possibile?” non sono più questioni interessanti perché hanno avuto soluzione. La questione dell’intelligenza artificiale è la medesima, vi sono moltissime domande, questioni non risolte riguardo ad essa, ma non ha più senso porre invece la domanda se essa sia possibile»
(Daniel C. Dennett)

Partiamo da alcune evidenze: il fenomeno è assolutamente pervasivo le direzioni HR delle differenti aziende hanno visioni abbastanza allineate. Alcuni dati secondo Gartner:

  • il 76% dei responsabili HR concorda sul fatto che resterà indietro nel successo organizzativo se non adotterà e implementerà la GenAI entro 12-24 mesi.
  • Gli obiettivi più comuni per l’utilizzo della GenAI nelle HR sono il miglioramento dell’efficienza (77%), il miglioramento dell’esperienza dei dipendenti (52%) e il potenziamento del processo decisionale (43%).
  • I responsabili HR hanno preoccupazioni in merito alla privacy e alla sicurezza dei dati (77%), alla parzialità e alla discriminazione (53%) e ai problemi di conformità alle disposizioni di legge (41%).

È, quindi, un tema di forte rilevanza che richiede un interesse specifico da parte di tutti i professionisti HR. Vediamo alcuni casi d’uso applicativi che possono rappresentare un punto di svolta interessante per gli HR di tutto il mondo.


Gestione e acquisizioni dei talenti

Tra i principali benefici ritroviamo un maggiore coinvolgimento dei candidati e la possibilità di attirare e selezionare profili maggiormente in linea con l’esigenza aziendale, efficientando l’intero processo di selezione. Più nel dettaglio alcune possibili applicazioni sono:

  • Supporto nella definizione del sito web aziendale e del portale “career” per attrarre candidati.
  • Personalizzazione del testo delle campagne di recruiting.
  • Creazione e contestualizzazione degli annunci di lavoro.
  • Sintesi e trascrizione delle interviste svolte ai candidati.
  • Creazione e contestualizzazione delle lettere di offerta.
  • Creazione e personalizzazione di contenuti per il processo di onboarding.


HR Services

Un’altra dimensione che potrebbe fortemente beneficiare dal processo è quella di servizi a supporto della popolazione aziendale. Il vantaggio si traduce in maggiore produttività, migliore circolazione della conoscenza, incremento della soddisfazione e dell’engagement dei dipendenti. Più nel dettaglio:

  • Assistente virtuale HR. Per aiutare i dipendenti a risolvere i problemi HR in modo rapido e semplice
  • Riepilogo dei contenuti e delle delle richieste di servizio. A supporto anche degli agenti HR.
  • Riepilogo dei contenuti degli articoli della knowledge base (KB) per i dipendenti. Aiuta i dipendenti a trovare le informazioni di cui hanno bisogno in modo più rapido e facile.
  • Creazione di articoli della KB basati sui gap espressi dagli utenti e manifestati nelle Q&A più frequenti.
  • Aggiornamento delle risposte del personale di supporto HR.
  • Classificazione di email/documenti.


Learning

Anche la dimensione di apprendimento e di costruzione di contenuti per la formazione non è esente dall’impatto dell’HR e – anzi – può beneficiare notevolmente dalla capacità di generare contenuti innovativi e ingaggianti con costi molto bassi. Questo può portare benefici anche in termini di scalabilità, efficienza e uniformità del contenuto. Più nel dettaglio:

  • Adattamento dei contenuti di apprendimento esistenti e aggiornamento dei contenuti.
  • Sviluppo e creazione di nuovi contenuti.
  • Sintesi/riassunto del materiale per l’apprendimento.
  • Creazione di nuove immagini e animazioni.  
  • Generazione di domande per quiz/valutazioni.
  • Elaborazione dei risultati di valutazione e semplificazione – attraverso automazione – del processo di valutazione.


Talent & Skill

Altra dimensione che può essere arricchita dall’AI è quella che riguarda Talenti e Competenze. Nello specifico possiamo impiegare l’AI per migliorare l’employee experience delle nostre persone e per definire percorsi di carriera maggiormente in linea con le loro competenze e ambizioni. Attraverso l’accesso immediato e l’elaborazione di un numero sempre maggiore di dati siamo in grado di fornire risposte immediate e prevedere percorsi di carriera e di formazione davvero in linea con i desiderata e i bisogni dell’utente.

Più nel dettaglio:

  • Miglioramento del feedback sulle prestazioni, attraverso l’inclusione di maggiori dati e informazioni sulla performance della persona.
  • Suggerimento di obiettivi, risultati chiave e goal sulla base di strategia, prestazioni passate e altri documenti.
  • Riepilogo del feedback sulle prestazioni con la creazione di dashboard aumentate da una mole di dati molto maggiore rispetto al passato.
  • Allineamento delle competenze proposte per il lavoro specifico.
  • Raccomandazioni di carriera basate su una maggiore – e migliore – profilazione.
  • Lettura e analisi delle competenze specifiche.
  • Employee Voice: supporto nella definizione di survey e della creazione di dashboard per l’ascolto attivo del personale aziendale.
  • Workforce Planning: nella definizione e nel supporto a una migliore pianificazione in linea con le competenze espresse dal singolo.


E la dimensione umana?

Esiste un’altra dimensione da prendere in considerazione, e da non sottovalutare, il tema dell’AI, e della sua introduzione all’interno del mondo organizzativo, porta con sé – inevitabilmente – profonde rivoluzioni dei modelli di lavoro e della cultura organizzativa.

Come professionisti del mondo HR dobbiamo, quindi, essere parte attiva all’interno della rivoluzione, anche se i casi d’uso riguardano altri dipartimenti o funzioni dell’azienda.

Nello specifico, io credo, su almeno 5 dimensioni specifiche:

  1. Strategia di implementazione. L’AI ha profondi risvolti etici, sociali, culturali e organizzativi. Al tavolo di implementazione dell’AI all’interno dell’azienda, non possono mancare attori HR.
  2. Modello di governance. Per lo stesso motivo di cui sopra, è necessario che l’HR, come altre funzioni aziendali rilevanti siano coinvolte e partecipi del processo guidando e orchestrando il cambiamento in essere.
  3. Inclusion & Diversity. Come sappiamo l’AI può essere estremamente biased, ragionando su basi statistiche e predittive e reiterando modelli dominanti esistenti, non sempre funzionali. È necessario un controllo umano per garantire sia la correttezza dell’output, sia il suo allineamento con le policy di inclusione e diversity dell’azienda.
  4. Adoption & Change Management. Come per la trasformazione digitale, l’introduzione dell’AI all’interno del contesto di lavoro porta, inevitabilmente, a una modifica delle modalità di lavoro. È necessario che l’HR guidi il cambiamento supportando processo di cambiamento culturale e adozione.
  5. Learning. Come ogni tecnologia deve essere appresa, come appresi devono essere i nostri modi di relazionarci ad essa.

È una sfida che non possiamo sottovalutare, ma – ancora più importante – dobbiamo indirizzare come protagonisti del cambiamento.

Infine, molto importante risulta sottolineare la capacità di muoversi in uno scenario altamente mutevole che impone un range di sfide completamente nuove. Come afferma anche Kurzweil

«if a machine can prove indistinguishable from a human, we should award it the respect we would to a human – we should accept that it has a mind » (Kurzweil, 2012: p. 266). 

È bene comunque sottolineare che questo complesso lavoro deve essere fatto in modo attivo, partecipato e

«quest’area di competenza dev’essere costruita sperimentando ed elaborando artefatti e scenari che considerino dunque le peculiarità del contesto digitale. Solo operando in questo modo il formatore ha l’opportunità di andare oltre la semplice integrazione delle nuove possibilità nei quadri operativi del passato» (Cattaneo & Rivoltella, 2010: p. 33).

«The development of full artificial intelligence could spell the end of the human race. Once humans develop artificial intelligence, it will take off on its own and redesign itself at an ever-increasing rate. Humans, who are limited by slow biological evolution, couldn’t compete and would be superseded».

Senza condividere in toto la visione apocalittica di Stephen Hawking sul futuro dell’umanità e del suo rapporto con l’intelligenza artificiale, è comunque giunto il momento per noi professionisti del mondo HR e per tutti coloro che si occupano di trasformazione e di analizzare i grandi cambiamenti che hanno attraversato – e che tutt’ora attraversano – l’umanità, di chiederci come intendiamo impiegare questo potentissimo strumento.

La trasformazione di cui stiamo parlando è paragonabile, se non superiore, a quella della digitalizzazione che abbiamo vissuto negli scorsi anni.

Qualche numero per chi non fosse ancora convinto?

  • Il mercato globale dell’AI dovrebbe raggiungere 1,58 trilioni di dollari entro il 2028. (MarketsandMarkets, 2023)
  • Il numero di posti di lavoro legati all’AI negli Stati Uniti dovrebbe crescere del 31% tra il 2020 e il 2030. (US Bureau of Labor Statistics, 2021)
  • Il 61% degli intervistati a un recente rapporto di Deloitte Insights afferma che l’AI trasformerà sostanzialmente il proprio settore nei prossimi 3-5 anni.
  • L’adozione dell’AI è significativa su base per organizzazione, con il 53% degli intervistati che ha speso più di 20 milioni di dollari nell’ultimo anno in tecnologia e talenti AI.
  • L’83% delle aziende partecipanti al sondaggio di Deloitte sull’adozione dell’AI nel settore manifatturiero ritiene che l’AI sarà una tecnologia fondamentale per guidare la crescita e l’innovazione.
  • Il 92% degli intervistati al sondaggio di Deloitte sullo stato dell’AI nelle imprese 2022 si è fissato l’obiettivo di diventare leader di settore o di mercato nell’AI entro i prossimi tre anni.

Dai dati sopra riportati risulta, quindi evidente, l’importanza e la magnitudo del fenomeno. Una riflessione non è più rimandabile.

In un interessante articolo Josh Bersin (https://joshbersin.com/2023/09/the-role-of-generative-ai-in-hr-is-now-becoming-clear/) ha messo in evidenza alcune delle applicazioni dell’intelligenza artificiale generativa che si possono immaginare per l’HR.

Quali sono?

  • Talent Intelligence for Recruiting, Mobility, Development, Pay Equity. La gestione dei talenti è un tema sempre più complesso all’interno delle organizzazione, tematiche legate allo strategic worforce planning e alla capacità di definire le migliori persone per i compiti adatti è una sfida complessa e articolata che richiede uno sforzo congiunto di tecnologia, sistemi HR e processi di gestione delle risorse di maggior valore all’interno dell’organizzazione.
  • Employee Apps: Il secondo spazio in crescita è quello dei “chatbot intelligenti per i dipendenti”, che riuniscono documenti, materiali di supporto e sistemi transazionali in un’esperienza facile da usare.
  • Employee training, learning e content production: il settore della formazione dei dipendenti, che vale 350 miliardi di dollari, è uno di quelli che maggiormente potrebbe beneficiare dall’AI generativa. Negli ultimi mesi abbiamo visto strumenti che generano formazione da documenti, creano automaticamente quiz e trasformano i contenuti esistenti in un “assistente didattico”.
  • Employee Development and Growth Apps: Si tratta del vasto nuovo campo di strumenti e piattaforme che aiutano i dipendenti a progredire nelle loro carriere. Grazie alle piattaforme di Talent Intelligence, ora abbiamo “percorsi di carriera” generati dall’AI. Questi sistemi analizzano le tue competenze e la tua esperienza e ti mostrano (graficamente) tutte le opzioni che hai per crescere, tutte basate sull’esperienza di milioni di altre persone.
  • Performance Management and Operational Improvement: tema complesso, che apre dimensioni filosofiche profonde sintetizzate dalla domanda: preferireste essere valutati da un computer o da una persona? In questo sicuramente l’AI può fornire un contributo di arricchimento alle dimensioni valutative classiche e aggiungere la possibilità di elaborare un numero elevato di dati in un tempo molto breve.
  • Retention, Hybrid-Work, Wellbeing, Engagement Analysis: anche in questo caso è un tema di dati e della capacità – molto limitata come esseri umani – che abbiamo di leggere in maniera completa un contesto o una situazione. L’AI e i sistemi automatizzati possono aiutarci nell’elaborazione di una enorme mole di dati che ci aiutino a comprendere come davvero stanno le nostre persone.

A queste dimensioni identificate da Bersin, a mio avviso, se ne possono aggiungere di ulteriori, nello specifico:

  • People Analytics: nel supporto alla definizione di modelli integrati che forniscano viste di dettaglio ai nostri dipendenti e ai team leader e che aiutino a sfruttare – finalmente – il potere dei dati per la gestione delle complessità organizzative. Se in passato la sfida poteva essere l’accesso al dato, oggi, in un moltiplicarsi di istanze, si rende necessario sapere in che modo sfruttare adeguatamente i dati, per trasformarli in insight e azioni concrete.
  • Employee Experience: alzi la mano chi, negli ultimi anni – e nella sua vita professionale – ha avuto una employee experience (dal momento in cui è entrato in azienda al momento in cui è uscito) senza intoppi e senza problemi. Il contributo dell’AI può rendere maggiormente fluido l’intero processo e agire come un vero e proprio “buddy” nell’accompagnare le fasi più delicate dei diversi processi (e.g. nel momento dell’onboarding) e dell’intera esperienza.

Il paniere di casi d’uso potrebbe ampliarsi ancora se consideriamo le intersezioni del mondo Human Capital con quello della comunicazione interna, del marketing e dell’innovazione collaborativa.

È per questo che, come Deloitte abbiamo fatto di più: creando un repository che include oltre 60 use case legati al mondo dell’Artificial Intelligence per chiarire i termini in gioco e capire meglio in che modo possa essere applicata all’interno dei nostri processi di lavoro e per portare effettivo valore alle organizzazioni. Maggiori informazioni qui: https://www2.deloitte.com/us/en/pages/consulting/articles/gen-ai-use-cases.html

Esiste poi un ulteriore aspetto che chi si occupa di HR e di processi di trasformazione dovrebbe guardare che è quello legato all’etica e alle conseguenze dell’applicazione di questi scenari al mondo del lavoro.

È un tema che ci riguarda tutti da vicino, perché la tecnica, la tecnologia, non sono neutrali e gli impatti etici e filosofici sono tutt’altro che scontati.  

«dire che la tecnologia non è del tutto neutrale – che, cioè, essa ha delle proprie finalità intrinseche, o che viene a imporre dei propri particolari valori – significa soltanto riconoscere il fatto che, come parte della nostra cultura, essa influisce sulla nostra crescita e sul nostro comportamento. Gli esseri umani hanno sempre posseduto qualche forma di tecnologia, la quale a sua volta ha influenzato la natura e la direzione del loro sviluppo. Questo processo non può essere fermato, e questa relazione non avrà mai termine: possiamo soltanto comprenderla e, speriamo, indirizzarla verso scopi degni [dell’umanità]» (Kranzberg e Pursell, 1967, p. 11).

È, dunque, necessaria una profonda riflessione all’interno dei nostri processi di lavoro, di educazione e all’interno delle modalità con le quali stiamo immaginando la società del futuro per indirizzare in modo corretto questo cambiamento.

P.S.

Sì, questo articolo è stato scritto con il supporto dell’AI.

Chi se ne occupa – o anche i semplici interessati – sanno che cambiare la cultura di un’organizzazione non è cosa semplice. Trasformare il modo di lavorare, di parlare, di relazionarsi con i colleghi è un processo che può richiedere mesi e anni di intenso lavoro che si possono, spesso, tradurre in un fallimento.

Ne ha parlato già Edgar Schein e non è certo cosa nuova:

La cultura è importante perché è un insieme di forze potenti, nascoste e spesso inconsce, che determinano il nostro comportamento individuale e collettivo, i modi della percezione, lo schema del pensiero e i valori. La cultura organizzativa in particolare è importante perché gli elementi culturali determinano strategie, obiettivi e modi di agire. I valori e lo schema di pensiero di leader e dirigenti sono in parte determinati dal loro bagaglio culturale e dalle loro esperienze comuni. Se si vuole rendere una organizzazione più efficiente ed efficace, allora si deve comprendere il ruolo giocato dalla cultura nella vita organizzativa.

Esistono, però, dei casi eccezionali, unici nell’esperienza delle persone che consentono di cambiare radicalmente il proprio sistema di valori e il proprio modello di agito. Si tratta delle Esperienze Trasformative, mi sono imbattuto di recente in questo concetto grazie all’amico e collega Andrea Gaggioli (Docente di Psicologia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano) che le illustra molto bene all’interno di un paper che potete trovare qui.

Vengono definite tre caratteristiche delle esperienze trasformative:

  1. Si tratta di un cambiamento profondo del modo in cui percepiamo il nostro self-world, il nostro mondo interiore. Il cambiamento avviene in maniera repentina, quasi immediata e si distingue da tutte le altre manifestazioni psicologiche dell’individuo
  2. L’esperienza trasformativa ha sia una dimensione epistemica sia personale: non cambia solo quello che sappiamo, ma cambia anche in modo profondo il modo attraverso il quale facciamo esperienza di noi stessi
  3. Infine, un’esperienza di questo tipo, può essere considerata come un fenomeno emergente delle dinamiche che si auto organizzano

La letteratura, da Maslow a Miller, da James a C’De Baca, documenta ampiamente quei momenti nella vita di un uomo in cui si creano le condizione per fare esperienza di un salto quantico dal punto di vista psicologico. Un momento “a-ha” che ci permette di fare esperienza di sensazioni e di emozioni uniche che rendono la persona in grado immediatamente di comprendere che qualcosa è successo e che qualcosa è cambiato. Come si legge:

These are “a-ha” experiences in which the person comes to a new realization, a new way of thinking or understanding. Insightful transformations grow out of life experiences, in that they tend to follow personal development. In contrast, mystical quantum changes – or epiphanies – have no continuity with “ordinary” reality and are characterized by a sense of being acting upon by an outside force. The person knows immediately that something major has happened, and that life will never be the same again

Per loro stessa caratteristica e specificità le esperienze trasformative non possono essere pre-costruite o fabbricate, richiedono un coinvolgimento profondo del singolo e le condizioni adatte perché una ristrutturazione abbia luogo.
All’interno di questo scenario è, però, possibile costruire le condizioni e l’ambiente all’interno del quale l’esperienza può essere invitata e può avvenire.

Cosa possiamo e dobbiamo fare dunque? In realtà il ripensamento delle logiche organizzative e con al centro le persone non deve necessariamente divenire una ricerca spasmodica di un modello di lavoro nuovo o una realizzazione whatever it takes di un’esperienza trasformativa. Come sottolinea anche Gaggioli:

The final aim of transformative design, as I see it, should not be confused with the idea of “engineering self-realization”. Rather, I hold that the objective of this endeavour should be to explore new possible technological means of supporting human beings’ natural tendency towards self-actualization and self-transcendence. As Haney (Haney, 2006) beautifully puts it: “each person must choose for him or herself between the technological extension of physical experience through mind, body and world on the one hand, and the natural powers of human consciousness on the other as a means to realize their ultimate vision”

Già il riuscire a rendere la tecnologia qualcosa di invisibile e qualcosa in grado di facilitare la naturale espressione delle persone sarebbe un notevole successo.

Il MIT, in collaborazione con Deloitte Digital, ha recentemente pubblicato uno studio sulla maturità digitale (lo trovate qui se siete interessati all’approfondimento: http://sloanreview.mit.edu/projects/achieving-digital-maturity/) che fornisce molte utili indicazioni sull’andamento del mercato digitale nel mondo.

Cerchiamo di vedere insieme alcuni dei messaggi chiave che emergono dal report:

  • Implementare cambiamenti endemici, estesi e cross funzione; sviluppare i propri processi interni; far crescere i dipendenti; valorizzare il workplace aziendale come spazio per favorire l’innovazione; far crescere e sostenere una cultura digitale. Sono questi alcuni dei punti su cui il 70% delle organizzazioni concordano di voler investire nel prossimo futuro. E’ importante – per coloro che intendono avere successo – considerare gli impatti organizzativi e culturali che sono imposti dalla trasformazione digitale e che spesso sono scarsamente presi in considerazione.
  • Giocare sul sul lungo periodo. La trasformazione digitale non è una corsa sui 100mt, ma una maratona. Pianificare sul lungo periodo all’interno di roadmap che siano il più possibile inclusive sia dei processi digitali sia di quelli core dell’azienda è un passaggio cruciale dell’evoluzione.
  • Ragionare in ottica di pilot e poi estendere e scalare all’intera organizzazione. E’ importante partire da piccoli casi di successo e pilot applicati anche a una singola area aziendale, tuttavia: è importante fare in modo di estendere queste esperienze all’intero contesto aziendale per fare in modo che non si tratti solo di “mosche bianche” o esperienze poco significative.
  • Diventare magneti per i talenti. Come abbiamo visto anche in una precedente intervista pubblicata su questo canale, il fattore umano è cruciale in questo tipo di trasformazione. E’ un concetto ormai acquisito che dovrebbe essere compreso e applicato da tutti, ma che – purtroppo – in molto organizzazioni resta ancora al palo.
  • Assicurarsi la visione e l’ingaggio della leadership, come motore per abilitare l’innovazione e la trasformazione. Più e più volte abbiamo visto in questa sede l’importanza di trasformare l’azienda coinvolgendone il vertice e lavorando su modalità di integrazione con la leadership che consentano un allineamento dei vertici e la capacità di lavorare sull’ambizione dell’azienda.

Ma più nel dettaglio: come siamo messi e cosa dobbiamo fare per evolverci?

Digital Maturity

Breaking down functional silos and focusing on cross-functional collaboration is considered crucial to success in digital environments. More than 70% of digitally maturing businesses are using cross-functional teams to organize work and charging them with implementing digital business priorities. This compares to less than 30% for early-stage organizations. In addition, respondents from digitally maturing companies are far less likely to say that organizational structures are a barrier to successful digital business.

Il ruolo della collaboration diviene fondamentale e di importanza cruciale per coloro che sono posti al livello estremo della maturità digitale.

Il 77% delle aziende digitalmente mature considerando la collaborazione e l’abbattimento di silos interni come uno dei driver fondamentali della crescita e una delle chiavi di volta dell’intera strategia digitale. A pensarla in questo modo sono solo il 34% delle organizzazioni che affrontano in questo momento il passaggio al digitale.

Corporate cultures shift with the transition from siloed operations to cross-functional teamwork. Shared goals and incentives that make cross-functional teaming effective also influence employee mindsets by exposing them to new ways of engaging each other.

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E’ fondamentale che l’azienda abbia alle spalle la giusta spinta e la giusta energia per fare le cose. Infatti, non solo da parte dei livelli più alti ci deve essere un forte committment rispetto ai temi della trasformazione e del cambiamento, ma le persone devono essere parte – insostituibile – del processo. E’ quindi necessario comprendere che a guidare deve essere l’ambizione e la motivazione che si sposta verso uno scenario più ampio. I dipendenti dell’organizzazione devono essere guidati verso il cambiamento ma deve esserci una forte comprensione dei benefici della trasformazione digitale a guidare i nuovi processi in atto.

Digital initiatives are two to three times as likely to be successful if there is sufficient commitment behind them. For example, 75% of respondents whose organizations commit sufficient time, energy, and resources to digital endeavors say these efforts are successful. Only about one-third of those who don’t make that commitment report the same results. More than 70% of organizations that provide their employees with the opportunity to thrive and whose leaders have sufficient vision to lead digital efforts say their initiatives are successful. On the part of organizations that don’t, fewer than 25% can make the same claim.

E’ anche importante ricordare che i processi dei quali stiamo parlando e che sono ben descritti nell’articolo, sono processi in costante evoluzione e cambiamento e che far parte di una organizzazione che mette il digitale al centro significa far parte di un organismo in costante evoluzione che richiede non solo competenze, tecnologie e culture nuove, ma richiede – in primo luogo e come asset più importante – la capacità di mettersi in discussione e di lavorare in un contesto fluido che richiede cambi repentini e differenze anche molto grosse rispetto al modo in cui siamo abituati a lavorare.

Achieving digital maturity is an ongoing process; technology shifts and advancements, new business models, and changing market demands will continue to push companies to evolve and grow. It’s a process that takes time but can increase the likelihood that an organization will survive and thrive. Leaders in digitally maturing organizations understand that they have to take a long view, since the end points of digital change are continually being updated. Businesses have to craft strategies that account for what is on the horizon and make the objectives real through technology and business innovations.

Da qualche tempo ho il piacere di collaborare con TAGInnovation School (https://innovationschool.talentgarden.org/) una delle realtà maggiormente significative e valide a livello italiano sulla formazione in ambito digitale.

TAG Innovation School non è solo un’eccezionale punto di ritrovo per la formazione digitale nel nostro paese, ma rappresenta un vero e proprio hub per la ricerca e la condivisione di informazioni che riguardano questo mondo.
E’ su questa scia che è stato recentemente pubblicato il primo rapporto sullo stato della Digital Transformation nelle PMI italiane (2017). Si tratta di una ricerca estremamente interessante che mette in luce in che modo i trend digitali stiano effettivamente modellando il mondo che ci circonda e il nostro modo di fare impresa in Italia. Molti sono i dati raccolti dalle oltre 500 aziende che sono state intervistate e ad emergere è un quadro di rilievo davvero interessante

Vi consiglio la lettura completa della ricerca, che potete scaricare gratuitamente qui. Cerchiamo però di vedere insieme quali siano i punti principali che sono emersi dall’indagine.

Le PMI italiane si trovano di fronte a un bivio fondamentale: continuare con le soluzioni che hanno funzionato fino a ieri in modo apparentemente efficace ma che rischiano di non sopravvivere alla trasformazione in atto, oppure abbracciare finalmente il cambiamento e permettere al proprio business di svilupparsi, evolversi e internazionalizzarsi con l’aiuto dell’innovazione digitale.

Per prima cosa l’impatto del digitale in Italia.

La digitalizzazione – nella percezione delle oltre 500 aziende intervistate – sembra essere un driver fondamentale di trasformazione per garantirsi: (1) aumento della produttività dell’impresa; (2) riduzione dei costi e (3) aumento del fatturato.

Un altro dato davvero interessante che emerge dall’analisi riguarda la definizione che le persone intervistate tendono a dare di “Digital Transformation” sembra chiaro a tutti (78%) che si tratta di un processo completo di ridefinizione dei modelli di business. Ancora una volta – casomai ce ne fosse ancora bisogno – si sottolinea quindi l’importanza che la trasformazione digitale sta avendo nella definizione di un modello di lavoro completamente nuovo e in soluzione di continuità con quanto è stato fatto (e visto) in passato. E’ un ripensamento totale dei modelli e delle strategie di lavoro che fino a qualche hanno fa hanno accompagnato il nostro modo di fare business.

A livello complessivo possiamo affermare che le aree di impatto della digitalizzazione sulle aziende italiane sono ancora in gran parte da esplorare e – solo in parte – hanno già capitalizzato i risultati di un cambiamento strutturale che questi modelli impongono. Più nel dettaglio:

  • Marketing: c’è ancora un accostamento del marketing a una dimensione troppo legata al mondo del web e al sito web in generale, quando sappiamo perfettamente che lo spazio di manovra in questo ambito è enorme. Non solo marketing comunque: chi segue questo blog sa che l’investimento sui processi esterni è sempre stato uno dei principali ma è anche richiesta – ormai – una presa di posizione seria che riguardi una completa trasformazione dei processi interni.
  • Vendite e customer care: il reparto commerciale e quello di assistenza clienti sono un nodo fondamentale. Negli ultimi anni non sono poche le aziende che si sono distinte per progetti di social CRM che hanno coinvolto proprio questo ambito di intervento. Le PMI italiane sono ancora indietro nell’integrazione via social media (solo il 25%) di questo tipo di servizi
  • Gestione delle risorse umane: nihil sub sole novi in questo settore. La digitalizzazione è ancora in stato embrionale e non è un caso che il 29% delle PMI non abbia introdotto nessun meccanismo di innovazione su questo versante dell’azienda. Per maggiori riferimenti su questo settore vi consiglio anche di dare un’occhiata ad un altro articolo scritto di recente che mostra come a livello globale il trend sia il medesimo: la funzione HR non è tra quelle maggiormente supportive dal punto di vista del cambiamento digitale.
  • Ciclo produttivo: nel 46% dei casi la digitalizzazione ha impattato il settore di Ricerca & Sviluppo. E’ solo nel 40% dei casi che ha raggiunto la produzione, altre aree di fase di creazione di un prodotto o di un servizio sono toccate solo a livello marginale. E’ in questa direzione che devono concentrarsi gli sforzi di evoluzione verso una maggiore socializzazione dei processi di business
  • IT e infrastrutture tecnologiche: la tendenza a sovrapporre questo dipartimento con l’intera trasformazione digitale è in parte confermata. Il 61% delle aziende utilizza tecnologie in cloud, il 43% ha implementato una intranet e oltre il 70% si appoggia a un server remoto.

Queste risposte mostrano una buona sensibilità da parte delle PMI rispetto ai temi della trasformazione digitale, dal momento che il ruolo del Digital Officer è quello di coordinare tutte le iniziative innovative in azienda e promuovere una cultura del cambiamento che tocchi gli aspetti strategici, organizzativi e umani.

 

Nulla racconta la situazione italiana meglio delle parole di Alessandro Rimassa (direttore e cofondatore della TAG Innovation School):

È opportuno sottolineare questo concetto per spiegare che la Digital Transformation è trasformazione a livello di modelli di business, di organizzazione e processi, di cultura, di modalità di produzione. La tecnologia abilita il cambiamento, ma il cambiamento non è tecnologia fine a se stessa e la Digital Transformation non coincide con il digital marketing, due concetti che a leggere i dati non sono ancora chiari. Sembrano dettagli, ma dare importanza alle parole è fondamentale per capire la portata della rivoluzione che stiamo vivendo: la necessità di cambiamento culturale, sottolineata dal 65% degli intervistati, è un buon punto di partenza (ma attenzione: un’azienda su tre non sente ancora il bisogno di uno shift che è invece urgente) e si somma alla necessità di assumere un Digital Officer, già percepita da un terzo delle aziende

La strada da fare quindi è ancora tanta, ma arrivano alcuni positivi segnali da parte di chi ha già iniziato con successo il percorso di trasformazione e di cambiamento verso il digitale. In questo senso, risulta importante confermare la direzione e lavorare maggiormente su una dimensione pervasiva di trasformazione digitale che riguardi a 360° i meccanismi che coinvolgono le imprese italiane, cambiare dal punto di vista della cultura, del marketing, dei processi interni e dei percorsi di carriera.

Un’azienda davvero digitale è un’azienda che è stata in grado di vincere inerzie e paure e ripensare completamente se stessa proiettandosi verso le sfide del prossimo – immediato – futuro.

Questo recente articolo di McKinsey circa i bias che affliggono la presa di decisione nelle organizzazioni ben si presta a sottolineare uno dei punti chiave nella definizione di una strategia organizzativa che sia funzionale e adatta ai nostri obiettivi di business.

Che le persone non sappiano prendere una decisione, o che quantomeno, facciano estremamente fatica a essere dei decisori razionali ci viene confermato dalla psicologia cognitiva. Famosi in questo senso sono gli esperimenti condotti da Kahneman e Tversky (tra gli altri):

Dopo aver selezionato due gruppi di candidati, Tversky e Kahneman hanno posto il seguente problema chiedendo ai partecipanti cosa avrebbero fatto se la scelta fosse dipesa da loro: negli Stati Uniti sta per giungere una nuova malattia proveniente dall’Asia, sono a rischio le vite di 600 persone; al primo gruppo è stato proposto quanto segue:

  • Programma A: 200 persone si salvano
  • Programma B: 1/3 di probabilità di salvare tutti, 2/3 di probabilità di non salvare nessuno

I programmi per il secondo gruppo erano invece i seguenti:

  • Programma C: 400 persone muoiono
  • Programma D: 1/3 di probabilità che nessuno muoia, 2/3 di probabilità che muoiano tutti

Da un punto di vista di contenuto i programmi A e B sono del tutto equivalenti rispettivamente ai programmi C e D, eppure le risposte dei due gruppi sono state profondamente diverse. Nel primo gruppo è stato scelto il programma A nel 72% dei casi e il programma B nel restante 28%; nel secondo gruppo la scelta prioritaria (78%) è caduta sul programma D mentre il programma C è stato preferito solo nel restante 22% dei casi.

È evidente che al primo gruppo di candidati è stato sottoposto un messaggio in cui prevalevano elementi positivi, mentre il secondo gruppo è stato esposto a contenuti negativi. Si può notare che nel primo caso i candidati si sono orientati verso una risposta di tipo certo, nel secondo caso la polarizzazione delle risposte è invece avvenuta intorno alla soluzione di tipo probabilistico.

Si tratta di un classico esempio di come il “framing”, il modo – cioè – in cui viene presentato un problema, influenza il nostro modo di rispondere e di fornire una soluzione. 

Le organizzazioni, in questo senso, essendo composte da persone e da esseri umani – con i loro pregi e difetti – non sono esenti da questo tipo di problematiche.

Bias organizational

Come persone, all’interno delle organizzazioni di cui facciamo parte, e all’esterno di esse, siamo costantemente coinvolti in bias che ci fanno credere di: essere più competenti di quello che in realtà siamo, sottostimare la possibilità di fallire, sottostimare i nostri difetti e punti deboli, essere non soggetti agli errori che commettono gli altri…
Alcuni di questi errori all’interno della definizione di una strategia di business di un’azienda possono portare a vere e proprie crisi “esistenziali” che minano i presupposti stessi dell’organizzazione.

L’ottima ruota dei bias cognitivi mostra in modo semplice ed efficace l’enorme quantità di errori alla quale siamo soggetti quotidianamente

Cognitive Biases

Uno scenario tutt’altro che roseo che mostra quanto difficile sia realizzare strategie consapevoli che coinvolgano livelli di decisione differente.

Ma come possiamo muoverci in un contesto di questo genere? Come possiamo fare in modo che all’interno delle organizzazioni non si innestino questi meccanismi che ci portano – inevitabilmente – ad essere dei terribili decisori?

McKinsey consiglia alcuni punti chiave da tenere presente:

  • Diffondere una cultura basata sul dialogo e sul confronto. Il “non essere d’accordo” ha un valore fondamentale: in termini psicologici il group-think rappresenta uno dei rischi maggiori nella presa di decisione
  • Aumentare la propria consapevolezza e utilizzare meccanismi meta-cognitivi per analizzare i propri processi decisionali, sia nelle organizzazioni sia all’esterno di esse
  • Ingegnerizzare – per quanto possibile – la presa di decisione attraverso tool e strumenti che possano aiutarci a comprendere in che modo commettiamo errori

Come si legge anche in chiusura dell’articolo:

Companies can’t afford to ignore the human factor in the making of strategic decisions. They can greatly improve their chances of making good ones by becoming more aware of the way cognitive biases can mislead them, by reviewing their decision-making processes, and by establishing a culture of constructive debate.

Il grosso del lavoro da fare è dunque su se stessi: diventare migliori decisori, aumentare la propria consapevolezza sul funzionamento di questi processi ci aiuterebbe a diventare non solo dipendenti migliori ma anche persone maggiormente consapevoli e in grado di risolvere problemi e di pensare in modo strategico.