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Per quanto si sia detto e si sia fatto negli ultimi anni sul cosiddetto agile way of working / new ways of working ancora molte aziende si trovano, oggi, nelle condizioni di sentirsi inadatte a declinare in modo corretto il fenomeno e il modello di lavoro ad esso correlato.
Come mai?

Proviamo a partire dall’inizio della storia.
Sono convinto che ormai molti di noi conoscano bene il noto “modello spotify” che è stato raccontato in più sedi e che è ormai consolidato all’interno della letteratura organizzativa (dal 2012 in avanti). Per chi non lo conoscesse i due video qui sotto mostrano molto bene i concetti che ne sono alla base e i cambiamenti messi in atto dalla società:

Qui la seconda parte del video:

Un modo nuovo di lavorare, quindi, fatto di flessibilità, senso di responsabilità, delega, evoluzione dei processi e degli strumenti e delle aree di interesse, un modo che consenta un’operatività più snella e più veloce e maggiormente in grado di fare fronte alle sfide sociali e organizzative che le imprese stanno vivendo.

Il modello, però a volte funziona bene e – molto più spesso – funziona molto meno bene: le organizzazioni faticano a ragionare all’esterno dei silos che le caratterizzano, la collaborazione è rallentata e la volontà di condividere informazioni, dati, strumenti non è mai al massimo. Il potenziale inespresso – che poi si traduce in un danno economico ingente – è enorme. Troppo spesso, infatti, le aziende hanno provato a scimmiottare il modello di Spotify incappando in difficoltà di ogni genere.
Perché? La spiegazione, in realtà, è molto semplice:

Le organizzazioni – come le persone che le compongono – sono tutte diverse e richiedono approcci, culture, modalità anche molto differenti di lavoro.

Per coloro che fossero interessati ad approfondire consiglio l’ottimo articolo: There Is No Spotify Model for Scaling Agile

Here is the problem – These colorful charts are now nearly 10 years old. Who knows what Spotify is actually doing today?

A Bigger Problem – The Spotify model evolved over time as a result of experimentation at Spotify. You cannot lift some or part of what Spotify did and expect it to work at your company. You need to run your own experiments, LEARN what works, and keep trying things until you optimize your organization.

An Even Bigger Problem – It isn’t the name or label of the teams that matters. The name is irrelevant. You don’t get the “Spotify Model” by renaming your teams. If you could, we’d all be using squads and tribes.

Cosa dobbiamo tenere in considerazione, quindi? Come possiamo evolvere il nostro modello organizzativo per rispondere meglio alle sfide dell’efficienza? Come rendiamo le nostre aziende maggiormente resilienti?

Una parte, a mio avviso, che spesso è stata sottovalutata all’interno delle organizzazioni e di tutti coloro che sono andati verso il modello Spotify, ma che personalmente ritengo fondamentale ai fini evolutivi è quella delle guild.

Come si legge:

Guilds are cross-cutting areas of Expertise – Guilds are the equivalent of Communities of Practice. They are not functional departments, they are volunteer-led communities based around a particular expertise.

Lavorare sulla cultura organizzativa, come sappiamo dai tempi di Schein, non è affatto facile, considerando che essa accorpa un’insieme di processi e di costrutti taciti ed espliciti sui quali è complesso lavorare e che richiedono spesso sforzi e investimenti altissimi.

La forza che le community e le guild possono avere nell’attivare processi che non sono immediatamente evidenti è enorme. La loro capacità è – infatti – quella di rappresentare il cuore delle azioni che l’azienda deve compiere per abilitare i veri scambi informali, al di là dei silos e delle barriere di sorta.

Nihil sub sole novi dunque (chi mi segue sa che me ne occupo da una decina di anni, ormai).

E’ vero, ma qualcosa fino ad oggi è mancato.

Se ancora tante aziende si stupiscono dei legami informali che le animano, se ancora vediamo lo smart working di questi giorni come una sfida nuova, se ancora siamo convinti che collaborare sia condividere uno strumento o una “faccia online” allora forse il lavoro da fare è ancora molto.

Già Wenger (1991; 2006) nel suo celebre lavoro sulle comunità di pratica ha sottolineato l’importanza, sia per le organizzazioni sia per gli individui, di cogliere quell’apprendimento inafferrabile, intangibile che rappresenta – però – il vero nucleo di conoscenze che si possiedono. Considerato in questo modo, l’apprendimento diviene un fenomeno emergente che si colloca in un orizzonte di riflessione sulle pratiche e sugli interessi soggettivi delle persone che fanno parte di comunità in cui scambi e relazioni oltreché attività concrete fanno da collante strutturale. La riflessione sulle CdP non riguarda però semplicemente l’apprendimento ma considera molto da vicino anche i cambiamenti organizzativi che sono connessi a un approccio di questo tipo. A livello molto generale possiamo considerare le tecnologie di digital collaboration – se opportunamente organizzate – come un’evoluzione del concetto di comunità di pratica teorizzato da Wenger.

In questa stessa direzione Lipari (2009) definisce la pratica come

un processo d’azione stabilizzato e al tempo stesso dinamico, ha luogo in un contesto storico-sociale determinato e coinvolge individui e gruppi nello svolgimento di attività le cui caratteristiche tecniche, operazionali e di significato si strutturano nel tempo consolidandosi in abitudini che a loro volta si fissano nella memoria collettiva, diventando tradizione e punto di riferimento per l’azione di tutti” (pp. 24-26).

A livello organizzativo le comunità di pratica rappresentano quindi un anello di congiunzione fondamentale tra la conoscenza tacita e non strutturata presente all’interno dell’impresa e la conoscenza formale, gerarchizzata e strutturata all’interno dei silos organizzativi. In questo la social collaboration si pone come veicolo ideale per: (1) portare alla luce e far emergere pratiche consolidate all’interno del modus operandi dei dipendenti, spesso inconsapevoli di quello che – effettivamente – conoscono; (2) cristallizzare la conoscenza all’interno di unità definite e organizzabili (e.g. un wiki, un forum, un’area di discussione condivisa); (3) diffondere e rendere riutilizzabile nel tempo la conoscenza acquista e formalizzata all’interno dell’impresa [1].

Il concetto di CdP non è però l’unico al quale il percorso di digitalizzazione dell’azienda fa riferimento. Un’altra dimensione importante è quella di cultura organizzativa, primariamente teorizzata da Jacques nel volume The Changing Culture of a Factory (1951) e ripresa da Schein (1990) in diversi studi. Sommariamente possiamo definire la cultura organizzativa come un insieme di assunti di base che si sono rivelati particolarmente validi tanto da essere trasmessi ed indicati come modo corretto di percepire, pensare e sentire all’interno dell’impresa. Il sapere e le conoscenze accumulate nel tempo dall’organizzazione sono poi trasmessi attraverso specifici processi di comunicazione. Secondo Schein la cultura organizzativa si compone di:

  • Artefatti: creazioni ed espressioni artistiche, tecnologie impiegate, comportamenti manifesti e linguaggio scritto e orale proprio di un’organizzazione
  • Valori: modalità operative, principi, credenze e idee, codici morali ed etici
  • Assunti di base: assunzioni implicite e inconsapevoli, modalità di percepire e di pensare, indicazioni fondamentali circa l’organizzazione.

A livello di digital transformation risulta fondamentale indagare la cultura organizzativa con un duplice scopo: (1) valutare e comprendere la prontezza individuale e dell’impresa nell’intraprendere un percorso di cambiamento organizzativo. Non necessariamente il digitale rappresenta una strada che l’impresa intende intraprendere e lanciare un progetto di questo tipo senza aver opportunamente indagato la cultura sottesa può rappresentare un rischio enorme per il successo del progetto. (2) Indagare la cultura e la prontezza dell’impresa risulta utile per identificare in anticipo eventuali possibili problemi e resistenze che potrebbero impedire l’adozione di un approccio collaborativo e indirizzarli in anticipo per poter trovare soluzioni significative.

Altre dimensioni di analisi che toccano il fenomeno della digital collaboration e che riguardano più da vicino il tema dell’employee engagement inteso come uno stato psicologico positivo dell’individuo sono rintracciabili nel percorso di evoluzione verso un modello maggiormente digitale e collaborativo. Sono molte – in questa direzione – le ricerche che hanno dimostrato gli effetti positivi che un elevato engagement dei dipendenti ha sull’intera azienda. Miglioramento dell’impegno organizzativo e alte prestazioni (Salanova, Agut e Peirò, 2005), basso assenteismo, capacità di servire meglio il cliente, migliore soddisfazione personale, riduzione del rischio di burn-out. Un migliore engagement stimolato dalle community interne di dipendenti basate sulla collaboration non solo darebbe numerosi benefici ai dipendenti, ma sarebbe in grado – in modo indiretto – di migliorare la produttività dell’impresa in una dinamica win-win.

A questo concetto strettamente si correla quello di clima organizzativo, un costrutto psicologico che sottolinea l’importanza di trovare un buon equilibrio tra produttività e soddisfazione personale dei dipendenti intesa anche come qualità della vita professionale condotta. Il clima organizzativo ci aiuta a porre in evidenza in che modo i processi di digital e social collaboration vadano a contribuire al rafforzamento di un clima positivo, basato su modalità di lavoro più snelle, immediate, agili e in grado di rispondere più velocemente alle sfide che sono imposte dal mercato. Il clima organizzativo influenza (ed è influenzato) da numerosi punti chiave sui quali si basano gli approcci collaborativi:

  • gerarchia e ruoli all’interno dell’azienda, contribuendo a rendere maggiormente rilevante la competenza rispetto alla posizione occupata all’interno dell’organizzazione;
  • sistemi di riconoscimento e incentivi nell’adozione di meccanismi che premino non soltanto i risultati, ma il modo attraverso cui si raggiungono, non solo l’ambito economico ma anche la reputazione personale e la visibilità interna ed esterna all’impresa;
  • responsabilità individuale: fornendo a tutti la capacità di esprimersi in prima persona e di rispondere delle proprie azioni aumentando il senso di autoefficacia complessivo e la capacità delle persone di costruirsi un network di fiducia personale;
  • motivazione delle persone: dell’employee engagement abbiamo parlato in precedenza, in questa sede basti sottolineare l’importanza e l’impatto – molto elevato – che ambienti collaborativi hanno nell’aumento della motivazione individuale delle persone che – a sua volta – gioca un ruolo decisamente significativo sul clima organizzativo
  • senso di appartenenza all’azienda: nessun uomo è un’isola e l’appartenenza a un gruppo rappresenta uno dei bisogni fondamentali dell’individuo. All’interno dell’azienda questo bisogno si esprime tramite il senso di appartenenza che può fortemente essere influenzato dalle modalità di lavoro collaborativo che consentono di socializzare esperienze (anche non necessariamente lavorative) e di mettere a fattor comune idee e progetti;
  • accesso alle informazioni: l’accesso alle informazioni viene notevolmente semplificato e il riutilizzo della conoscenza reso molto più immediato. Questo consente di ridurre i livelli di frustrazione complessiva e di migliorare l’ambiente di lavoro;
  • autonomia e coordinamento complessivi: ambienti collaborativi influiscono sul clima aziendale contribuendo alla creazione di spazi di maggiore autonomia e di coordinamento. Strumenti di questo tipo permettono – infatti – di rimanere allineati sul lavoro degli altri, di perdere meno tempo in riunioni e meeting di allineamento e di aggiornamento e di avere migliore visibilità su quanto accade all’interno dell’impresa. Tutto questo contribuisce, in maniera più o meno diretta a generare un clima aziendale più trasparente e meritocratico.

Un’ulteriore riflessione che si collega fortemente alla dimensione psicologica può essere fatta prendendo in considerazione direttamente lo strumento tecnologico che rende possibile l’introduzione di ambienti collaborativi nell’organizzazione. Le piattaforme digitali che entrano in gioco all’interno dei processi di definizione di social e digital collaboration, rappresentano di fatto dei medium. Riva (2008) rileva come i nuovi media portino sempre con sé quattro caratteristiche peculiari legate – appunto – al passaggio da un’informazione analogica a una digitale. Queste caratteristiche sono:

  • Modularità: riguarda la possibilità di scomporre il contenuto in una serie di elementi discreti (detti appunto moduli) ed è il coronamento della separazione tra i contenuti e il supporto fisico del medium.
  • Interattività: la possibilità di fruire il contenuto mediante la navigazione tra una serie di nodi che sono collegati tra loro.
  • Automazione: la possibilità di svolgere azioni in automatico, senza che l’utente ne sia necessariamente consapevole.
  • Variabilità: la possibilità che i nuovi media possiedono di essere riutilizzati e impiegati in modi differenti, producendo più versioni dello stesso oggetto.

L’introduzione di un medium all’interno di una cultura non implica una semplice rivoluzione tecnologica, ma, come sostenuto anche da Mantovani (1995) una vera e propria riconfigurazione delle opportunità di mediazione culturale a disposizione dei soggetti. Ancora una volta, e casomai ce ne fosse ancora bisogno, viene sottolineata l’importanza che la cultura gioca all’interno di processi di trasformazione di questo tipo. L’introduzione di un medium all’interno della situazione esperita dai soggetti – infatti – li impone e li obbliga ad adattarsi al cambiamento. Sempre Mantovani (1998) riprende l’interessante metafora del bastone del cieco elaborata da Gregory Bateson nel 1972 all’interno del suo celebre volume Verso un’ecologia della mente: il bastone di Bateson (il medium dei giorni nostri)

è una protesi che filtra l’informazione disponibile e rende accessibili solo determinate esperienze. Tutti noi siamo cechi, in un certo senso, ed esploriamo la realtà con l’aiuto di strumenti, gli artefatti, attraverso cui conosciamo le cose e agiamo nel mondo” (Mantovani, 1998 pp. 121-122).

In questo senso le piattaforme digitali di social collaboration possono essere lette non solo come un medium, ma come un’affordance in grado di fornire all’utente una vasta serie di potenzialità esplorabili che prima non erano nemmeno ipotizzabili.

Un altro concetto fondamentale per la comprensione dell’esperienza e di come questa viene modificata dai media digitali è quello di interfaccia. L’interfaccia può essere definita come

l’insieme di caratteristiche del medium che si pone in mezzo tra i diversi utenti consentendogli di raggiungere la propria intenzione” (Riva, 2008).

Ll’interfaccia assume una dimensione fondamentale e richiede una riflessione specifica non solo perché responsabile di come – effettivamente – è costruita l’intera esperienza, ma anche perché in grado di inibire o facilitare l’attuazione delle intenzioni all’interno del medium stesso [2]. L’interfaccia ha poi una funzione anche sulle informazioni che l’utente desidera fruire, attraverso la loro presentazione – infatti – guida l’utente nella scelta di ciò che deve essere colto dalla sua attenzione orientando la lettura della realtà che lo circonda. Riva (2008) rileva come – poi – l’interfaccia nei media digitali assuma caratteristiche specifiche che la portano a separarsi dal medium stesso e a porsi come una sorta di meta-medium, essendo caratterizzata da dimensioni fisiche, simboliche e pragmatiche proprie.

In sintesi si può dire che l’interfaccia all’interno dell’universo dei media digitali ricopra tre ruoli fondamentali:

  1. Rappresenta le caratteristiche del medium attraverso un modello.
  2. Rende “visibili” gli oggetti digitali contenuti al suo interno.
  3. Facilita l’uso mediante un’opera di filtro e selezione degli stimoli e dei contenuti.

Gli ambienti digitali possono essere, poi, analizzati alla luce della teoria dell’inter-azione situata che consente di comprendere meglio come i processi comunicativi e relazionali siano influenzati dall’essere all’interno di una situazione “aumentata” dai media.

Cercando di riassumere i concetti alla base di questa teoria, Riva (2008) chiarifica le dimensioni fondamentali che entrano in gioco durante una comunicazione mediata.

  • Intenzione: ogni comportamento è espressione di una complessa rete intenzionale organizzata su più livelli e messa in atto mediante una pluralità di canali, questa definizione è un’integrazione delle posizioni di Anolli (2006) e Pacherie (2008) con quelle della pragmatica della comunicazione (Watzlawick, Beavin e Jackson 1971). Le intenzioni sono una struttura dinamica organizzata su più livelli, questa si sviluppa gerarchicamente secondo tre fasi specifiche:
    • le intenzioni motorie (prensione, contrazione…): sono innate e la loro soddisfazione è data dall’azione stessa, l’oggetto di queste intenzioni è sempre il “semplice” movimento del corpo;
    • le intenzioni prossimali: nascono come combinazione di diverse intenzioni motorie dirette verso un oggetto del mondo presente, la loro soddisfazione dipende dal rapporto tra il contenuto intenzionale (prendere la macchina fotografica) e l’oggetto del mondo reale a cui è diretto (la macchina fotografica);
    • le intenzioni distali: sono composte da una catena d’intenzioni motorie e prossimali dirette verso un oggetto che può non far parte del mondo reale ma dell’universo del possibile.

La soddisfazione delle intenzioni motorie e prossimali riguarda sempre il rapporto tra il soggetto, il corpo e il mondo degli oggetti. La verifica delle intenzioni distali – invece – è sempre “situata”, in riferimento al rapporto tra il soggetto, le sue rappresentazioni e i suoi mondi possibili.

Accanto al concetto d’intenzione e del suo ruolo specifico nell’esperienza del soggetto, la teoria dell’inter-azione situata richiede l’ingresso in gioco di altri concetti ugualmente importanti, questi assunti riguardano la capacità di cogliere gli stimoli provenienti dall’ambiente (affordance) e la sensazione che sperimenta il soggetto (presenza e presenza sociale). Con il termine affordance s’intende l’opportunità di azione offerta dall’ambiente all’utente, una sorta d’invito – cioè – che l’ambiente rivolge a essere usato in un determinato modo . Le affordance si suddividono in due categorie:

  • Dirette: se sono il risultato di un flusso d’informazione. Sono stabili e non si modificano se non cambiando le proprietà fisiche dell’oggetto
  • Mediate: risultato di un’interpretazione che il soggetto attribuisce all’ambiente; a caratterizzare questo tipo di affordance è invece la sua relatività, infatti, è il risultato sia del significato attribuito all’oggetto, sia dell’analisi del contesto

L’affordance ha quindi carattere dinamico ed è il risultato di un’interpretazione di ciò che l’utente è in grado di cogliere dall’ambiente e non solo di ciò che l’ambiente (reale o digitale) è in grado di offrirgli.

Ma cosa ne è dell’esperienza del soggetto?  Quali sensazioni è possibile sperimentare all’interno di un ambiente digitale? Per rispondere a queste domande è possibile introdurre due concetti che forniscono una dimensione chiara di dove si collochi l’esperienza del soggetto all’interno di situazioni in cui entrano in gioco i media digitali.

  • Presenza: con questo termine s’intende la sensazione di “essere” all’interno di un ambiente fisico o digitale, che risulta dalla capacità/possibilità di attuare le proprie intenzioni (Riva, 2008: p. 127). Si divide, anch’essa, in tre livelli fondamentali:
    • protopresenza: ovvero, la capacità di attuazione delle intenzioni motorie attraverso il solo movimento del corpo;
    • presenza nucleare: la capacità – cioè – di attuazione delle intenzioni prossimali attraverso l’identificazione delle affordance dirette;
    • presenza estesa: capacità di attuazione delle intenzioni distali, attraverso l’identificazione delle affordance mediate.
  • Presenza sociale: la sensazione di “essere con altri da Sé” all’interno di un ambiente fisico o digitale, che risulta dalla capacità/possibilità di comprendere le intenzioni degli altri (Riva, 2008: p. 49). Anche in questo caso si possono distinguere tre differenti livelli:
    • proto-presenza sociale: la capacità di riconoscimento delle intenzioni motorie, che permettono al Sé di riconoscere un Altro intenzionale;
    • presenza sociale oggettuale: la capacità di riconoscimento delle intenzioni motorie e prossimali che consente al Sé di riconoscere un Altro la cui intenzione è rivolta verso di lui;
    • presenza sociale empatica: la capacità di riconoscimento delle intenzioni motorie, prossimali e distali, che consente al Sé di riconoscere un Altro le cui intenzioni corrispondano a quelle del Sé.

La teoria dell’inter-azione situata, quindi,

suppone che la coerenza dell’azione non sia spiegata adeguatamente da schemi cognitivi preconcetti, né da norme sociali istituzionali. Piuttosto, l’organizzazione dell’azione situata è una priorità emergente delle interazioni momento per momento degli attori” (Riva, 2008: p. 90).

Essere presenti all’interno di una specifica situazione riveste un ruolo importantissimo per l’apprendimento e per i processi di conoscenza ad esso legati: l’essere umano è tale in quanto immerso sempre in una situazione, in un ambiente che ne determina i confini e le possibilità. La situazione formativa e l’esperienza di apprendimento che ne deriva (sia essa auto-diretta dal soggetto o etero-diretta) è sempre la combinazione di più elementi che concorrono a determinare uno “sfondo” specifico (tempi, modalità, azioni, vincoli, relazioni…) all’interno del quale si muovono i soggetti (Reggio, 2003). A livello organizzativo questo legame si esplica molto bene nella relazione tra gestione della conoscenza e piattaforme collaborative e/o di apprendimento digitale.

Più in generale, sul duplice rapporto e influenza tra media (canali digitali e non) e cultura, esperienza del soggetto è stato scritto parecchio. Tra le posizioni maggiormente interessanti e in linea con la riflessione presentata all’interno di questo lavoro vi è sicuramente quella di Huges, che afferma:

un sistema tecnologico può essere la causa o l’effetto: può influenzare la società o essere influenzato da essa. Man mano che crescono e diventano più complessi, i sistemi tendono più a influenzare che a essere influenzati. Per questo motivo, il momento dei sistemi tecnologici è un concetto che può essere collocato a metà strada tra i poli del determinismo tecnologico e del costruttivismo sociale” (Hughes, 1994: pp. 103-104).

In questa stessa direzione si collocano anche le riflessioni del più recente modello bi-circolare bi-direzionale sviluppato da Antonietti & Colombo (2008) inizialmente introdotto per spiegare il rapporto tra studenti e Computer Supported Learning Tools (CSLT), ma il cui impianto si presta molto bene a descrivere il rapporto tra nuove pratiche, rappresentazioni mentali degli utilizzatori e media digitali in generale. Tale modello consente di tenere in considerazione come le rappresentazioni e le credenze (implicite o esplicite) delle persone circa il mezzo che utilizzano, influenzino concretamente i processi che sono attuati; al contempo, sottolinea anche le dinamiche bi-direzionali esercitate dal medium o dall’uso sull’utente e viceversa. La novità e insieme il pregio di questo modello è di porre l’accento su una dimensione spesso non considerata nelle ricerche che è quella relativa alle credenze implicite delle persone riguardo ad un determinato oggetto (tecnologia), sottolineandone il ruolo fondamentale sia nell’accettazione sia nell’utilizzo del nuovo strumento

Provando, quindi, a tracciare una sintesi di quanto espresso in queste prime pagine possiamo sostenere come l’influenza tra tecnologia, media ed esperienza umana sia una storia costellata da rapporti circolari e da feedback retroattivi più che da nessi di causalità lineare. L’analisi del rapporto tra uomo e tecnologia deve dunque – come sostenuto anche da Watzlawick (1976) – integrare le differenti prospettive al fine di allargare il più possibile l’orizzonte di comprensione.

A titolo conclusivo di questa breve rassegna, risulta quindi evidente il contributo fattivo che la psicologia della comunicazione può fornire nella comprensione dei contesti digitali e in particolar modo nel supportare il percorso di transizione dalle organizzazioni tradizionali a modelli maggiormente flessibili e agili basati sulla collaborazione e su una dimensione maggiormente umana, culturale e centrata sulla qualità dell’esperienza che viene percepita. In questo senso la psicologia della comunicazione può rappresentare sia il veicolo per comprendere al meglio i vari termini in gioco sia per supportare un cambiamento che sia più semplice ed efficace.

Bibliografia e riferimenti consultati

Anolli L. (2006), Fondamenti di psicologia della comunicazione, Il Mulino: Bologna

Antonietti A., Colombo B., (2008), Computer-supported learning tools: a bi-circular bi-directional framework, New Ideas in Psychology, 26, pp. 120-142

Hughes T.P. (1994), Technological momentum, in Smith M.R. e Leo M. (a cura di), Does technology drive history? The dilemma of technological determinism, MIT press: Cambridge, pp. 101-114

Lave’ J., Wenger E. (1991), Situated Learning: Legitimate Peripheral Participation, Cambridge University Press: Cambridge

Lipari D. (2009), La “comunità di pratica” come contesto di apprendimento. Personale e Lavoro, n. 509 pp. 24-26

Riva G. (2008), Psicologia dei nuovi media, Il Mulino: Bologna

Salanova M., Agut S., Peiro’ J. M. (2005), Linking Organizational Resources and Work Engagement to Employee Performance and Customer Loyalty: The Mediation of Service Climate. Journal of Applied Psychology, Vol 90(6)

Schein E. (1990), Cultura d’azienda e leadership, Guerini e Associati: Milano

Watzlawick P., Beavin J.H., Jackson D.D.  (1976), Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio: Roma

Wenger E. (2006), Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità, Raffaello Cortina Editore: Milano


[1] Su questo tema risulta estremamente significativa la citazione di Lew Platt sul sistema di knowledge management di HP, la famosa azienda produttrice di PC: “If only HP knew what HP knows, we would be three times more productive”. Per maggiori informazioni e una trattazione più approfondita del tema knowledge management all’interno di HP si rimanda a https://www.researchgate.net/publication/235269396_If_only_HP_knew_what_HP_knows_The_roots_of_knowledge_management_at_Hewlett-Packard

[2] Sull’importanza dell’interfaccia e della user experience all’interno di portali digitali di collaboration, intranet e – più in generale – di siti web è stato scritto parecchio. Tra i report e le fonti degne di nota si segnala, per approfondimenti, il lavoro che – ogni anno – Nielsen Group rilascia sulle Intranet: https://www.nngroup.com/reports/intranet-design-annual/

Questo recente articolo di McKinsey circa i bias che affliggono la presa di decisione nelle organizzazioni ben si presta a sottolineare uno dei punti chiave nella definizione di una strategia organizzativa che sia funzionale e adatta ai nostri obiettivi di business.

Che le persone non sappiano prendere una decisione, o che quantomeno, facciano estremamente fatica a essere dei decisori razionali ci viene confermato dalla psicologia cognitiva. Famosi in questo senso sono gli esperimenti condotti da Kahneman e Tversky (tra gli altri):

Dopo aver selezionato due gruppi di candidati, Tversky e Kahneman hanno posto il seguente problema chiedendo ai partecipanti cosa avrebbero fatto se la scelta fosse dipesa da loro: negli Stati Uniti sta per giungere una nuova malattia proveniente dall’Asia, sono a rischio le vite di 600 persone; al primo gruppo è stato proposto quanto segue:

  • Programma A: 200 persone si salvano
  • Programma B: 1/3 di probabilità di salvare tutti, 2/3 di probabilità di non salvare nessuno

I programmi per il secondo gruppo erano invece i seguenti:

  • Programma C: 400 persone muoiono
  • Programma D: 1/3 di probabilità che nessuno muoia, 2/3 di probabilità che muoiano tutti

Da un punto di vista di contenuto i programmi A e B sono del tutto equivalenti rispettivamente ai programmi C e D, eppure le risposte dei due gruppi sono state profondamente diverse. Nel primo gruppo è stato scelto il programma A nel 72% dei casi e il programma B nel restante 28%; nel secondo gruppo la scelta prioritaria (78%) è caduta sul programma D mentre il programma C è stato preferito solo nel restante 22% dei casi.

È evidente che al primo gruppo di candidati è stato sottoposto un messaggio in cui prevalevano elementi positivi, mentre il secondo gruppo è stato esposto a contenuti negativi. Si può notare che nel primo caso i candidati si sono orientati verso una risposta di tipo certo, nel secondo caso la polarizzazione delle risposte è invece avvenuta intorno alla soluzione di tipo probabilistico.

Si tratta di un classico esempio di come il “framing”, il modo – cioè – in cui viene presentato un problema, influenza il nostro modo di rispondere e di fornire una soluzione. 

Le organizzazioni, in questo senso, essendo composte da persone e da esseri umani – con i loro pregi e difetti – non sono esenti da questo tipo di problematiche.

Bias organizational

Come persone, all’interno delle organizzazioni di cui facciamo parte, e all’esterno di esse, siamo costantemente coinvolti in bias che ci fanno credere di: essere più competenti di quello che in realtà siamo, sottostimare la possibilità di fallire, sottostimare i nostri difetti e punti deboli, essere non soggetti agli errori che commettono gli altri…
Alcuni di questi errori all’interno della definizione di una strategia di business di un’azienda possono portare a vere e proprie crisi “esistenziali” che minano i presupposti stessi dell’organizzazione.

L’ottima ruota dei bias cognitivi mostra in modo semplice ed efficace l’enorme quantità di errori alla quale siamo soggetti quotidianamente

Cognitive Biases

Uno scenario tutt’altro che roseo che mostra quanto difficile sia realizzare strategie consapevoli che coinvolgano livelli di decisione differente.

Ma come possiamo muoverci in un contesto di questo genere? Come possiamo fare in modo che all’interno delle organizzazioni non si innestino questi meccanismi che ci portano – inevitabilmente – ad essere dei terribili decisori?

McKinsey consiglia alcuni punti chiave da tenere presente:

  • Diffondere una cultura basata sul dialogo e sul confronto. Il “non essere d’accordo” ha un valore fondamentale: in termini psicologici il group-think rappresenta uno dei rischi maggiori nella presa di decisione
  • Aumentare la propria consapevolezza e utilizzare meccanismi meta-cognitivi per analizzare i propri processi decisionali, sia nelle organizzazioni sia all’esterno di esse
  • Ingegnerizzare – per quanto possibile – la presa di decisione attraverso tool e strumenti che possano aiutarci a comprendere in che modo commettiamo errori

Come si legge anche in chiusura dell’articolo:

Companies can’t afford to ignore the human factor in the making of strategic decisions. They can greatly improve their chances of making good ones by becoming more aware of the way cognitive biases can mislead them, by reviewing their decision-making processes, and by establishing a culture of constructive debate.

Il grosso del lavoro da fare è dunque su se stessi: diventare migliori decisori, aumentare la propria consapevolezza sul funzionamento di questi processi ci aiuterebbe a diventare non solo dipendenti migliori ma anche persone maggiormente consapevoli e in grado di risolvere problemi e di pensare in modo strategico.

Tempo libero, lavoro e processi produttivi sono stati spesso – e a ragione – considerati come concetti opposti e difficilmente conciliabili. Ma siamo proprio sicuri che sia così? Siamo sicuri che l’organizzazione del futuro possa davvero distinguere due momenti completamente differenti nella vita di ognuno di noi?

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Le riflessioni su questo tema ci portano a considerare alcuni post passati in cui abbiamo affrontato – per esempio – il ruolo della Gamification sui processi di business e di come il gioco e le dinamiche ludiche potessero essere utilizzate per migliorare i processi produttivi di un’azienda o la relazione con i propri clienti. Il tutto raccolto nell’aforisma che vede l’opposto del gioco non nel lavoro ma nella depressione (Maggiori informazioni: http://www.sociallearning.it/ancora-su-giochi-videogiochi-gamification-e-p).
O ancora si è riflettuto di come il vero lavoro non avvenga sul posto di lavoro e di come le persone siano più produttive in ambienti che ricalcano le loro abitazioni (basti pensare in questo senso alle sedi di lavoro di colossi come Facebook o Google) – http://www.sociallearning.it/come-mai-non-si-lavora-sul-posto-di-lavoro-wh

Ecco un bel video del TED sull’argomento:

Si tratta della storia di uno studio di designer che ogni 7 anni di lavoro chiude per un intero anno per dedicarsi a del tempo libero. Nel racconto si narra come il periodo di riposo “forzato” aiuta a riprendere con maggiore efficacia, con più serenità e rende l’intera organizzazione più efficiente, efficace e reattiva agli stimoli provenienti dall’esterno.
Ed ecco un altro video dei soliti due ingegneri di Google che raccontano il loro lavoro come un “hobby” in cui elementi di divertimento e ludici si mescolano agli impegni di tutti i giorni. Raggiungere il massimo della prestazione – per loro – è molto semplice: sono immersi in un ambiente stimolante, si confrontano con i massimi esperti al mondo, sanno di potersi svagare e rilassare in qualunque momento, si sentono a casa…

Sono dell’idea che le organizzazioni del domani e i processi di lavoro saranno strutturati in maniera sempre più simile a qunto visto nei video e sempre meno a come sono oggi.
Lo scoglio – inutile dirlo ormai – è sempre più culturale.

Chiudo con una bella citazione di Joseph Conrad:

Il lavoro non mi piace – non piace a nessuno – ma mi piace quello che c’è nel lavoro: la possibilità di trovare se stessi. La propria realtà – per se stesso, non per gli altri – ciò che nessun altro potrà mai conoscere.

Chi si occupa di organizzazioni conosce sicuramente il termine “Kaizen” che deriva da una concezione orientale di miglioramento continuo del proprio operato (precisiamo però che prima ancora di essere applicato alla filosofia organizzativa deriva dallo Zen e dai principi classici della filosofia orientale). E chi segue questo blog sa bene che amo prendere concetti della filosofia orientale per applicarli al mondo lavorativo.

Ma che cos’è il Kaizen esattamente?
Come si legge su Wikipedia:

Il Kaizen è una metodologia giapponese di miglioramento continuo, passo a passo, che coinvolge l’intera struttura aziendale. Il termine Kaizen, infatti, è la composizione di due termini giapponesi: KAI (cambiamento) e ZEN (meglio). Il kaizen si connette con concetti come il Total Quality Management (TQM – Gestione della qualità totale), il Just In Time (JIT – abbattimento delle scorte), il kanban (metodo per la reintegrazione costante delle materie prime e dei semilavorati).

Il kaizen, presentato inizialmente dalla Toyota e applicato sempre più in tutto il mondo, si basa sul principio che detta le fondamenta di questa ‘filosofia’: “L’energia viene dal basso”, ovvero sulla comprensione che il risultato in un’impresa non viene raggiunto dal management, ma dal lavoro diretto sul prodotto. Il management assume dunque una nuova funzione, non tanto legato alla gestione gerarchica quanto al supporto dei diretti coinvolti nella produzione.

Al di là del concetto in sé che è stato applicato al processo della catena di montaggio ciò che penso sia interessante sottolineare è la filosofia che sta alla base dell’approccio. Innovare in modo continuo, programmato e non programmato rappresenta la chiave per lo sviluppo di organizzazioni competitive e in grado di evolversi in modo dinamico adattandosi al futuro e al presente.
Ecco un video molto divertente e interessante di come viene gestita l’innovazione e l’approvazione di nuove idee all’interno di Google.

Compagnie come Google, Apple, Starbucks e altri grandi brand che sappiamo essere riconosciuti come esempi mondiali di leader dell’innovazione hanno giocato questa carta come una delle fondamentali nella determinazione del proprio profilo che ormai è divenuto quasi sinonimo della stessa parola innovazione.
Le azioni della Apple sono in crescita costante da anni ormai – con piccole parentesi negative in corrispondenza dei problemi di salute di Jobs – perchè le persone sono convinte che Apple continuerà a innovare e a offrire prodotti sempre migliori.

Innovazione però, intesa non solo come miglioramento costante del prodotto ma anche come forza motrice in grado di aprire nuovi mercati e nuove ispirazioni per l’organizzazione, un’innovazione – come si dice in gergo – Disruptive.
Ecco un video di Luke Williams (Frog Design) proprio sulla Disruptive Innovation preso dal Frontiers of Interaction dell’anno scorso (2010):

In chiusura mi piace ricordare anche un altro termine molto interessante della Filosofia Zen e della cultura orientale, che spesso si ritrova anche nelle arte marziali tradizionali e che credo che le organizzazioni del futuro, i manager e tutti coloro che intendono rapportarsi al Social Business largamente inteso debbano tenere presente.

Shoshin è la pronuncia in giapponese dei caratteri cinesi a loro volta resa in lingua cinese dei termini sanscriti nava-yna-sa prasthita e anche prathama-citta che indicano la mente del novizio buddhista, ovvero la mente che ‘decide’ di iniziare la pratica religiosa buddhista.

In particolare, nel Buddhismo Zen viene inteso come “Mente del principiante” riferendosi al possedere un atteggiamento di apertura, determinazione, passione e assenza di preconcetti quando si studia una materia, anche quando si studia ad un livello avanzato, proprio come farebbe un principiante. Il termine è anche utilizzato nelle arti marziali giapponesi.

Questa termine fu spesso utilizzato dal maestro buddhista giapponese di scuola Soto Zen, Shunryu Suzuki (1904-1971) e posto a titolo di una sua opera, largamente diffusa in Occidente, Zen Mind, Beginner’s Mind, che riflette il suo tipico insegnamento sulla pratica Zen: «Nella mente del principiante vi sono molte possibilità, nella mente dell’esperto solo alcune.»

In un interessante speech tenuto al TEDx di Tokyo nel 2011, Garr Reynolds, l’autore di Presentation Zen (http://www.presentationzen.com/presentationzen/2011/06/be-like-the-bamboo.html) ha illustrato a un’affascinata platea 10 lezioni che ha imparato dalla natura, nello specifico dalla pianta di bamboo.
Ecco il video del suo intervento:

Qui il summary preso dal suo blog ufficiale:

(1) Remember: What looks weak is strong
The body of  even the largest type of  bamboo is not large compared to the other much larger trees in the forest. But the plants endure cold winters and extremely hot summers and are some times the only trees left standing in the aftermath of a storm. Remember the words of a great Jedi Master: “Size matters not. Look at me. Judge me by my size do you?” We must be careful not to underestimate others or ourselves based only on old notions of what is weak and what is strong. You do not have to be big and imposing to be strong. You may not be from the biggest company or the product of the most famous school, but like the bamboo, stand tall, believe in your own strengths, and know that you are as strong as you need to be. Remember too that there is strength in the light, in openness and transparency. There is strength in kindness, compassion, and cooperation. (2) Bend but don’t break.
One of the most impressive things about the bamboo is how it sways with the breeze. This gentle swaying movement is a symbol of humility. The foundation of the bamboo is solid, yet it moves and sways harmoniously with the wind, never fighting against it. In time, even the strongest wind tires itself out, but the bamboo remains standing tall and still. A bend-but-don’t-break or go-with-the-natural-flow attitude is one of the secrets for success whether we’re talking about bamboo trees, answering tough questions in a Q&A session, or just dealing with the everyday vagaries of life.

 

(3) Be deeply rooted yet flexible
The bamboo is remarkable for its incredible flexibility. This flexibility is made possible in part due to the bamboo’s complex root structure which is said to make the ground around a bamboo forest very stable. Roots are important, yet in an increasingly mobile world many individuals and families do not take the time or effort to establish roots in their own communities. The challenge, then, for many of us is to remain the mobile, flexible, international travelers and busy professionals that we are while at the same time making the effort and taking the time to become involved and deeply rooted in the local community right outside our door.

 

(4) Slow down your busy mind
We have far more information available than ever before and most of us live at a very fast pace. Even if most of our work life is on-line, life itself can seem quite hectic, and at times chaotic. Often it is difficult to see the signal through all the noise. In this kind of environment, it seems all the more important to take the time to slow down, to calm your busy mind so that you may see things more clearly.

 

(5) Be always ready
As the great Aikido master Kensho Furuya says in Kodo: Ancient Ways, “The warrior, like bamboo, is ever ready for action.” In presentation or other professional activities too, through training and practice we can develop in our own way a state of being ever ready. Through study and practice we can at least do our best to be ready for any situation.

 

(6) Find wisdom in emptiness
It is said that in order to learn, the first step is to empty ourselves of our preconceived notions. One can not fill a cup which is already full. The hollow insides of the bamboo reminds us that we are often too full of ourselves and our own conclusions; we have no space for anything else. In order to receive knowledge and wisdom from both nature and people, we have to be open to that which is new and different. When you empty your mind of your prejudices and pride and fear, you become open to the possibilities.

 

(7) Commit yourself to growth & renewal
Bamboo are among the fastest-growing plants in the world. It does not matter who you are — or where you are — today, you have amazing potential for growth. We usually speak of Kaizen or continuous improvement that is more steady and incremental, where big leaps and bounds are not necessary. Yet even with a commitment to continuous learning and improvement, our growth — like the growth of the bamboo — can be quite remarkable when we look back at what or where we used to be. You may at times become discouraged and feel that you are not improving at all. Do not be discouraged by what you perceive as your lack of growth or improvement. If you have not given up, then you are growing, you just may not see it until much later. How fast or how slow is not our main concern, only that we’re moving forward.

 

(8) Express usefulness through simplicity
Aikido master Kensho Furuya says that “The bamboo in its simplicity expresses its usefulness. Man should do the same.” Indeed, we spend a lot of our time trying to show how smart we are, perhaps to convince others — and ourselves — that we are worthy of their attention and praise. Often we complicate the simple to impress and we fail to simplify the complex out of fear that others may know what we know. Life and work are complicated enough without our interjecting the superfluous. If we could lose our fear, perhaps we could be more creative and find simpler solutions to even complex problems that ultimately provide the greatest usefulness for our audiences, customers, patients, or students.

 

(9) Unleash your power to spring back
Bamboo is a symbol of good luck and one of the symbols of the New Year celebrations in Japan. The important image of snow-covered bamboo represents the ability to spring back after experiencing adversity. In winter the heavy snow bends the bamboo back and back until one day the snow becomes too heavy, begins to fall, and the bamboo snaps back up tall again, brushing aside all the snow. The bamboo endured the heavy burden of the snow, but in the end it had to power to spring back as if to say “I will not be defeated.”

 

(10) Smile, laugh, play
The Kanji (Chinese character) for smile or laugh is ??????. At the top of this character are two small symbols for bamboo (??? or take). It is said that bamboo has a strong association with laughter, perhaps because of the sound that the bamboo leaves make on a windy day. If you use your imagination I guess it does sound a bit like the forest laughing; it is a soothing sound. Bamboo itself also has a connection with playfulness as it has been used for generations in traditional Japanese kite making and in arts and crafts such as traditional doll making. We have known
intuitively for generations of the importance of smiling, laughing, and playing, now modern science shows evidence that these elements play a real and important role in one’s mental and physical health as well.

E le slide utilizzate:

Ma che cosa c’entra tutto questo con il Social Business? Con il Social Learning? Con i temi di questo blog e – più in generale – con l’organizzazione del futuro?
A mio avviso, c’entra – eccome.

Credo che la lezione di Garr non sia da applicarsi solamente alla nostra vita ma possa essere – senza troppo problemi – adattata anche al nostro modo di lavorare e, nello specifico, all’organizzazione del futuro.
Non è un caso che grandi scrittori e analisti organizzativi del presente e del passato (Capra, Schein, Bauman, Weick, Senge, Varela…) hanno tutti avvicinato le organizzazioni ai sistemi viventi notando – appunto – come le aziende maggiormente resilienti, innovative, adattive, in continua ridefinizione e in grado di sopravvivere meglio al mercato e alle difficoltà poste dall’esterno siano quelle che rispondono a quei concetti che Garr ha messo in evidenza.

Le organizzazioni del futuro sono quindi quelle in grado di reagire dinamicamente in modo anche imprevedibile, comportandosi come i sistemi viventi che per loro stessa natura sono in continua evoluzione e ridefinizione. Niente di nuovo sotto il sole per molti, ma credo che nel nostro paese questi concetti rimangano ancora molto aleatori e difficilmente applicabili, non per mancanza di inventiva o di voglia di fare ma credo più che altro per comprensione e cultura. Immersi in uno schema ancora rigidamente separatista che vede l’organizzazione come un qualcosa di completamente staccato dall’ecosistema in cui è immersa.
Non dimentichiamoci che tra i principi del Social Business ritornano proprio questi concetti.
Come Emanuele Quintarelli aveva scritto in un vecchio ma interessantissimo post sulla definizione di Social Business (http://www.socialenterprise.it/index.php/2010/11/18/verso-il-social-business/) ciò che viene a prendere di senso in questo nuovo modello è la tradizionale separazione manichea tra dentro e fuori l’organizzazione, un’azienda che è maggiormente reattiva e che si mette al servizio delle persone quindi, che segue il flusso. Esattamente come il bamboo.

Si tratta prima di tutto di ridefinire se stessi e cambiare le prorpie modalità e le proprie regole, si tratta, in una parola: di evolversi.

Per concludere, sempre rimanendo in tema di cultura orientale e giapponese nello specifico, forse non tutti sanno che la parola “Crisi” in Giappone è espressa con un ideogramma che ha la duplice valenza di “pericolo” e “opportunità”: forse una delle lezioni più interessanti per il mondo del lavoro del domani può arrivare proprio da un’umile pianta.