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Già Wenger (1991; 2006) nel suo celebre lavoro sulle comunità di pratica ha sottolineato l’importanza, sia per le organizzazioni sia per gli individui, di cogliere quell’apprendimento inafferrabile, intangibile che rappresenta – però – il vero nucleo di conoscenze che si possiedono. Considerato in questo modo, l’apprendimento diviene un fenomeno emergente che si colloca in un orizzonte di riflessione sulle pratiche e sugli interessi soggettivi delle persone che fanno parte di comunità in cui scambi e relazioni oltreché attività concrete fanno da collante strutturale. La riflessione sulle CdP non riguarda però semplicemente l’apprendimento ma considera molto da vicino anche i cambiamenti organizzativi che sono connessi a un approccio di questo tipo. A livello molto generale possiamo considerare le tecnologie di digital collaboration – se opportunamente organizzate – come un’evoluzione del concetto di comunità di pratica teorizzato da Wenger.

In questa stessa direzione Lipari (2009) definisce la pratica come

un processo d’azione stabilizzato e al tempo stesso dinamico, ha luogo in un contesto storico-sociale determinato e coinvolge individui e gruppi nello svolgimento di attività le cui caratteristiche tecniche, operazionali e di significato si strutturano nel tempo consolidandosi in abitudini che a loro volta si fissano nella memoria collettiva, diventando tradizione e punto di riferimento per l’azione di tutti” (pp. 24-26).

A livello organizzativo le comunità di pratica rappresentano quindi un anello di congiunzione fondamentale tra la conoscenza tacita e non strutturata presente all’interno dell’impresa e la conoscenza formale, gerarchizzata e strutturata all’interno dei silos organizzativi. In questo la social collaboration si pone come veicolo ideale per: (1) portare alla luce e far emergere pratiche consolidate all’interno del modus operandi dei dipendenti, spesso inconsapevoli di quello che – effettivamente – conoscono; (2) cristallizzare la conoscenza all’interno di unità definite e organizzabili (e.g. un wiki, un forum, un’area di discussione condivisa); (3) diffondere e rendere riutilizzabile nel tempo la conoscenza acquista e formalizzata all’interno dell’impresa [1].

Il concetto di CdP non è però l’unico al quale il percorso di digitalizzazione dell’azienda fa riferimento. Un’altra dimensione importante è quella di cultura organizzativa, primariamente teorizzata da Jacques nel volume The Changing Culture of a Factory (1951) e ripresa da Schein (1990) in diversi studi. Sommariamente possiamo definire la cultura organizzativa come un insieme di assunti di base che si sono rivelati particolarmente validi tanto da essere trasmessi ed indicati come modo corretto di percepire, pensare e sentire all’interno dell’impresa. Il sapere e le conoscenze accumulate nel tempo dall’organizzazione sono poi trasmessi attraverso specifici processi di comunicazione. Secondo Schein la cultura organizzativa si compone di:

  • Artefatti: creazioni ed espressioni artistiche, tecnologie impiegate, comportamenti manifesti e linguaggio scritto e orale proprio di un’organizzazione
  • Valori: modalità operative, principi, credenze e idee, codici morali ed etici
  • Assunti di base: assunzioni implicite e inconsapevoli, modalità di percepire e di pensare, indicazioni fondamentali circa l’organizzazione.

A livello di digital transformation risulta fondamentale indagare la cultura organizzativa con un duplice scopo: (1) valutare e comprendere la prontezza individuale e dell’impresa nell’intraprendere un percorso di cambiamento organizzativo. Non necessariamente il digitale rappresenta una strada che l’impresa intende intraprendere e lanciare un progetto di questo tipo senza aver opportunamente indagato la cultura sottesa può rappresentare un rischio enorme per il successo del progetto. (2) Indagare la cultura e la prontezza dell’impresa risulta utile per identificare in anticipo eventuali possibili problemi e resistenze che potrebbero impedire l’adozione di un approccio collaborativo e indirizzarli in anticipo per poter trovare soluzioni significative.

Altre dimensioni di analisi che toccano il fenomeno della digital collaboration e che riguardano più da vicino il tema dell’employee engagement inteso come uno stato psicologico positivo dell’individuo sono rintracciabili nel percorso di evoluzione verso un modello maggiormente digitale e collaborativo. Sono molte – in questa direzione – le ricerche che hanno dimostrato gli effetti positivi che un elevato engagement dei dipendenti ha sull’intera azienda. Miglioramento dell’impegno organizzativo e alte prestazioni (Salanova, Agut e Peirò, 2005), basso assenteismo, capacità di servire meglio il cliente, migliore soddisfazione personale, riduzione del rischio di burn-out. Un migliore engagement stimolato dalle community interne di dipendenti basate sulla collaboration non solo darebbe numerosi benefici ai dipendenti, ma sarebbe in grado – in modo indiretto – di migliorare la produttività dell’impresa in una dinamica win-win.

A questo concetto strettamente si correla quello di clima organizzativo, un costrutto psicologico che sottolinea l’importanza di trovare un buon equilibrio tra produttività e soddisfazione personale dei dipendenti intesa anche come qualità della vita professionale condotta. Il clima organizzativo ci aiuta a porre in evidenza in che modo i processi di digital e social collaboration vadano a contribuire al rafforzamento di un clima positivo, basato su modalità di lavoro più snelle, immediate, agili e in grado di rispondere più velocemente alle sfide che sono imposte dal mercato. Il clima organizzativo influenza (ed è influenzato) da numerosi punti chiave sui quali si basano gli approcci collaborativi:

  • gerarchia e ruoli all’interno dell’azienda, contribuendo a rendere maggiormente rilevante la competenza rispetto alla posizione occupata all’interno dell’organizzazione;
  • sistemi di riconoscimento e incentivi nell’adozione di meccanismi che premino non soltanto i risultati, ma il modo attraverso cui si raggiungono, non solo l’ambito economico ma anche la reputazione personale e la visibilità interna ed esterna all’impresa;
  • responsabilità individuale: fornendo a tutti la capacità di esprimersi in prima persona e di rispondere delle proprie azioni aumentando il senso di autoefficacia complessivo e la capacità delle persone di costruirsi un network di fiducia personale;
  • motivazione delle persone: dell’employee engagement abbiamo parlato in precedenza, in questa sede basti sottolineare l’importanza e l’impatto – molto elevato – che ambienti collaborativi hanno nell’aumento della motivazione individuale delle persone che – a sua volta – gioca un ruolo decisamente significativo sul clima organizzativo
  • senso di appartenenza all’azienda: nessun uomo è un’isola e l’appartenenza a un gruppo rappresenta uno dei bisogni fondamentali dell’individuo. All’interno dell’azienda questo bisogno si esprime tramite il senso di appartenenza che può fortemente essere influenzato dalle modalità di lavoro collaborativo che consentono di socializzare esperienze (anche non necessariamente lavorative) e di mettere a fattor comune idee e progetti;
  • accesso alle informazioni: l’accesso alle informazioni viene notevolmente semplificato e il riutilizzo della conoscenza reso molto più immediato. Questo consente di ridurre i livelli di frustrazione complessiva e di migliorare l’ambiente di lavoro;
  • autonomia e coordinamento complessivi: ambienti collaborativi influiscono sul clima aziendale contribuendo alla creazione di spazi di maggiore autonomia e di coordinamento. Strumenti di questo tipo permettono – infatti – di rimanere allineati sul lavoro degli altri, di perdere meno tempo in riunioni e meeting di allineamento e di aggiornamento e di avere migliore visibilità su quanto accade all’interno dell’impresa. Tutto questo contribuisce, in maniera più o meno diretta a generare un clima aziendale più trasparente e meritocratico.

Un’ulteriore riflessione che si collega fortemente alla dimensione psicologica può essere fatta prendendo in considerazione direttamente lo strumento tecnologico che rende possibile l’introduzione di ambienti collaborativi nell’organizzazione. Le piattaforme digitali che entrano in gioco all’interno dei processi di definizione di social e digital collaboration, rappresentano di fatto dei medium. Riva (2008) rileva come i nuovi media portino sempre con sé quattro caratteristiche peculiari legate – appunto – al passaggio da un’informazione analogica a una digitale. Queste caratteristiche sono:

  • Modularità: riguarda la possibilità di scomporre il contenuto in una serie di elementi discreti (detti appunto moduli) ed è il coronamento della separazione tra i contenuti e il supporto fisico del medium.
  • Interattività: la possibilità di fruire il contenuto mediante la navigazione tra una serie di nodi che sono collegati tra loro.
  • Automazione: la possibilità di svolgere azioni in automatico, senza che l’utente ne sia necessariamente consapevole.
  • Variabilità: la possibilità che i nuovi media possiedono di essere riutilizzati e impiegati in modi differenti, producendo più versioni dello stesso oggetto.

L’introduzione di un medium all’interno di una cultura non implica una semplice rivoluzione tecnologica, ma, come sostenuto anche da Mantovani (1995) una vera e propria riconfigurazione delle opportunità di mediazione culturale a disposizione dei soggetti. Ancora una volta, e casomai ce ne fosse ancora bisogno, viene sottolineata l’importanza che la cultura gioca all’interno di processi di trasformazione di questo tipo. L’introduzione di un medium all’interno della situazione esperita dai soggetti – infatti – li impone e li obbliga ad adattarsi al cambiamento. Sempre Mantovani (1998) riprende l’interessante metafora del bastone del cieco elaborata da Gregory Bateson nel 1972 all’interno del suo celebre volume Verso un’ecologia della mente: il bastone di Bateson (il medium dei giorni nostri)

è una protesi che filtra l’informazione disponibile e rende accessibili solo determinate esperienze. Tutti noi siamo cechi, in un certo senso, ed esploriamo la realtà con l’aiuto di strumenti, gli artefatti, attraverso cui conosciamo le cose e agiamo nel mondo” (Mantovani, 1998 pp. 121-122).

In questo senso le piattaforme digitali di social collaboration possono essere lette non solo come un medium, ma come un’affordance in grado di fornire all’utente una vasta serie di potenzialità esplorabili che prima non erano nemmeno ipotizzabili.

Un altro concetto fondamentale per la comprensione dell’esperienza e di come questa viene modificata dai media digitali è quello di interfaccia. L’interfaccia può essere definita come

l’insieme di caratteristiche del medium che si pone in mezzo tra i diversi utenti consentendogli di raggiungere la propria intenzione” (Riva, 2008).

Ll’interfaccia assume una dimensione fondamentale e richiede una riflessione specifica non solo perché responsabile di come – effettivamente – è costruita l’intera esperienza, ma anche perché in grado di inibire o facilitare l’attuazione delle intenzioni all’interno del medium stesso [2]. L’interfaccia ha poi una funzione anche sulle informazioni che l’utente desidera fruire, attraverso la loro presentazione – infatti – guida l’utente nella scelta di ciò che deve essere colto dalla sua attenzione orientando la lettura della realtà che lo circonda. Riva (2008) rileva come – poi – l’interfaccia nei media digitali assuma caratteristiche specifiche che la portano a separarsi dal medium stesso e a porsi come una sorta di meta-medium, essendo caratterizzata da dimensioni fisiche, simboliche e pragmatiche proprie.

In sintesi si può dire che l’interfaccia all’interno dell’universo dei media digitali ricopra tre ruoli fondamentali:

  1. Rappresenta le caratteristiche del medium attraverso un modello.
  2. Rende “visibili” gli oggetti digitali contenuti al suo interno.
  3. Facilita l’uso mediante un’opera di filtro e selezione degli stimoli e dei contenuti.

Gli ambienti digitali possono essere, poi, analizzati alla luce della teoria dell’inter-azione situata che consente di comprendere meglio come i processi comunicativi e relazionali siano influenzati dall’essere all’interno di una situazione “aumentata” dai media.

Cercando di riassumere i concetti alla base di questa teoria, Riva (2008) chiarifica le dimensioni fondamentali che entrano in gioco durante una comunicazione mediata.

  • Intenzione: ogni comportamento è espressione di una complessa rete intenzionale organizzata su più livelli e messa in atto mediante una pluralità di canali, questa definizione è un’integrazione delle posizioni di Anolli (2006) e Pacherie (2008) con quelle della pragmatica della comunicazione (Watzlawick, Beavin e Jackson 1971). Le intenzioni sono una struttura dinamica organizzata su più livelli, questa si sviluppa gerarchicamente secondo tre fasi specifiche:
    • le intenzioni motorie (prensione, contrazione…): sono innate e la loro soddisfazione è data dall’azione stessa, l’oggetto di queste intenzioni è sempre il “semplice” movimento del corpo;
    • le intenzioni prossimali: nascono come combinazione di diverse intenzioni motorie dirette verso un oggetto del mondo presente, la loro soddisfazione dipende dal rapporto tra il contenuto intenzionale (prendere la macchina fotografica) e l’oggetto del mondo reale a cui è diretto (la macchina fotografica);
    • le intenzioni distali: sono composte da una catena d’intenzioni motorie e prossimali dirette verso un oggetto che può non far parte del mondo reale ma dell’universo del possibile.

La soddisfazione delle intenzioni motorie e prossimali riguarda sempre il rapporto tra il soggetto, il corpo e il mondo degli oggetti. La verifica delle intenzioni distali – invece – è sempre “situata”, in riferimento al rapporto tra il soggetto, le sue rappresentazioni e i suoi mondi possibili.

Accanto al concetto d’intenzione e del suo ruolo specifico nell’esperienza del soggetto, la teoria dell’inter-azione situata richiede l’ingresso in gioco di altri concetti ugualmente importanti, questi assunti riguardano la capacità di cogliere gli stimoli provenienti dall’ambiente (affordance) e la sensazione che sperimenta il soggetto (presenza e presenza sociale). Con il termine affordance s’intende l’opportunità di azione offerta dall’ambiente all’utente, una sorta d’invito – cioè – che l’ambiente rivolge a essere usato in un determinato modo . Le affordance si suddividono in due categorie:

  • Dirette: se sono il risultato di un flusso d’informazione. Sono stabili e non si modificano se non cambiando le proprietà fisiche dell’oggetto
  • Mediate: risultato di un’interpretazione che il soggetto attribuisce all’ambiente; a caratterizzare questo tipo di affordance è invece la sua relatività, infatti, è il risultato sia del significato attribuito all’oggetto, sia dell’analisi del contesto

L’affordance ha quindi carattere dinamico ed è il risultato di un’interpretazione di ciò che l’utente è in grado di cogliere dall’ambiente e non solo di ciò che l’ambiente (reale o digitale) è in grado di offrirgli.

Ma cosa ne è dell’esperienza del soggetto?  Quali sensazioni è possibile sperimentare all’interno di un ambiente digitale? Per rispondere a queste domande è possibile introdurre due concetti che forniscono una dimensione chiara di dove si collochi l’esperienza del soggetto all’interno di situazioni in cui entrano in gioco i media digitali.

  • Presenza: con questo termine s’intende la sensazione di “essere” all’interno di un ambiente fisico o digitale, che risulta dalla capacità/possibilità di attuare le proprie intenzioni (Riva, 2008: p. 127). Si divide, anch’essa, in tre livelli fondamentali:
    • protopresenza: ovvero, la capacità di attuazione delle intenzioni motorie attraverso il solo movimento del corpo;
    • presenza nucleare: la capacità – cioè – di attuazione delle intenzioni prossimali attraverso l’identificazione delle affordance dirette;
    • presenza estesa: capacità di attuazione delle intenzioni distali, attraverso l’identificazione delle affordance mediate.
  • Presenza sociale: la sensazione di “essere con altri da Sé” all’interno di un ambiente fisico o digitale, che risulta dalla capacità/possibilità di comprendere le intenzioni degli altri (Riva, 2008: p. 49). Anche in questo caso si possono distinguere tre differenti livelli:
    • proto-presenza sociale: la capacità di riconoscimento delle intenzioni motorie, che permettono al Sé di riconoscere un Altro intenzionale;
    • presenza sociale oggettuale: la capacità di riconoscimento delle intenzioni motorie e prossimali che consente al Sé di riconoscere un Altro la cui intenzione è rivolta verso di lui;
    • presenza sociale empatica: la capacità di riconoscimento delle intenzioni motorie, prossimali e distali, che consente al Sé di riconoscere un Altro le cui intenzioni corrispondano a quelle del Sé.

La teoria dell’inter-azione situata, quindi,

suppone che la coerenza dell’azione non sia spiegata adeguatamente da schemi cognitivi preconcetti, né da norme sociali istituzionali. Piuttosto, l’organizzazione dell’azione situata è una priorità emergente delle interazioni momento per momento degli attori” (Riva, 2008: p. 90).

Essere presenti all’interno di una specifica situazione riveste un ruolo importantissimo per l’apprendimento e per i processi di conoscenza ad esso legati: l’essere umano è tale in quanto immerso sempre in una situazione, in un ambiente che ne determina i confini e le possibilità. La situazione formativa e l’esperienza di apprendimento che ne deriva (sia essa auto-diretta dal soggetto o etero-diretta) è sempre la combinazione di più elementi che concorrono a determinare uno “sfondo” specifico (tempi, modalità, azioni, vincoli, relazioni…) all’interno del quale si muovono i soggetti (Reggio, 2003). A livello organizzativo questo legame si esplica molto bene nella relazione tra gestione della conoscenza e piattaforme collaborative e/o di apprendimento digitale.

Più in generale, sul duplice rapporto e influenza tra media (canali digitali e non) e cultura, esperienza del soggetto è stato scritto parecchio. Tra le posizioni maggiormente interessanti e in linea con la riflessione presentata all’interno di questo lavoro vi è sicuramente quella di Huges, che afferma:

un sistema tecnologico può essere la causa o l’effetto: può influenzare la società o essere influenzato da essa. Man mano che crescono e diventano più complessi, i sistemi tendono più a influenzare che a essere influenzati. Per questo motivo, il momento dei sistemi tecnologici è un concetto che può essere collocato a metà strada tra i poli del determinismo tecnologico e del costruttivismo sociale” (Hughes, 1994: pp. 103-104).

In questa stessa direzione si collocano anche le riflessioni del più recente modello bi-circolare bi-direzionale sviluppato da Antonietti & Colombo (2008) inizialmente introdotto per spiegare il rapporto tra studenti e Computer Supported Learning Tools (CSLT), ma il cui impianto si presta molto bene a descrivere il rapporto tra nuove pratiche, rappresentazioni mentali degli utilizzatori e media digitali in generale. Tale modello consente di tenere in considerazione come le rappresentazioni e le credenze (implicite o esplicite) delle persone circa il mezzo che utilizzano, influenzino concretamente i processi che sono attuati; al contempo, sottolinea anche le dinamiche bi-direzionali esercitate dal medium o dall’uso sull’utente e viceversa. La novità e insieme il pregio di questo modello è di porre l’accento su una dimensione spesso non considerata nelle ricerche che è quella relativa alle credenze implicite delle persone riguardo ad un determinato oggetto (tecnologia), sottolineandone il ruolo fondamentale sia nell’accettazione sia nell’utilizzo del nuovo strumento

Provando, quindi, a tracciare una sintesi di quanto espresso in queste prime pagine possiamo sostenere come l’influenza tra tecnologia, media ed esperienza umana sia una storia costellata da rapporti circolari e da feedback retroattivi più che da nessi di causalità lineare. L’analisi del rapporto tra uomo e tecnologia deve dunque – come sostenuto anche da Watzlawick (1976) – integrare le differenti prospettive al fine di allargare il più possibile l’orizzonte di comprensione.

A titolo conclusivo di questa breve rassegna, risulta quindi evidente il contributo fattivo che la psicologia della comunicazione può fornire nella comprensione dei contesti digitali e in particolar modo nel supportare il percorso di transizione dalle organizzazioni tradizionali a modelli maggiormente flessibili e agili basati sulla collaborazione e su una dimensione maggiormente umana, culturale e centrata sulla qualità dell’esperienza che viene percepita. In questo senso la psicologia della comunicazione può rappresentare sia il veicolo per comprendere al meglio i vari termini in gioco sia per supportare un cambiamento che sia più semplice ed efficace.

Bibliografia e riferimenti consultati

Anolli L. (2006), Fondamenti di psicologia della comunicazione, Il Mulino: Bologna

Antonietti A., Colombo B., (2008), Computer-supported learning tools: a bi-circular bi-directional framework, New Ideas in Psychology, 26, pp. 120-142

Hughes T.P. (1994), Technological momentum, in Smith M.R. e Leo M. (a cura di), Does technology drive history? The dilemma of technological determinism, MIT press: Cambridge, pp. 101-114

Lave’ J., Wenger E. (1991), Situated Learning: Legitimate Peripheral Participation, Cambridge University Press: Cambridge

Lipari D. (2009), La “comunità di pratica” come contesto di apprendimento. Personale e Lavoro, n. 509 pp. 24-26

Riva G. (2008), Psicologia dei nuovi media, Il Mulino: Bologna

Salanova M., Agut S., Peiro’ J. M. (2005), Linking Organizational Resources and Work Engagement to Employee Performance and Customer Loyalty: The Mediation of Service Climate. Journal of Applied Psychology, Vol 90(6)

Schein E. (1990), Cultura d’azienda e leadership, Guerini e Associati: Milano

Watzlawick P., Beavin J.H., Jackson D.D.  (1976), Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio: Roma

Wenger E. (2006), Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità, Raffaello Cortina Editore: Milano


[1] Su questo tema risulta estremamente significativa la citazione di Lew Platt sul sistema di knowledge management di HP, la famosa azienda produttrice di PC: “If only HP knew what HP knows, we would be three times more productive”. Per maggiori informazioni e una trattazione più approfondita del tema knowledge management all’interno di HP si rimanda a https://www.researchgate.net/publication/235269396_If_only_HP_knew_what_HP_knows_The_roots_of_knowledge_management_at_Hewlett-Packard

[2] Sull’importanza dell’interfaccia e della user experience all’interno di portali digitali di collaboration, intranet e – più in generale – di siti web è stato scritto parecchio. Tra i report e le fonti degne di nota si segnala, per approfondimenti, il lavoro che – ogni anno – Nielsen Group rilascia sulle Intranet: https://www.nngroup.com/reports/intranet-design-annual/

Questo recente articolo di McKinsey circa i bias che affliggono la presa di decisione nelle organizzazioni ben si presta a sottolineare uno dei punti chiave nella definizione di una strategia organizzativa che sia funzionale e adatta ai nostri obiettivi di business.

Che le persone non sappiano prendere una decisione, o che quantomeno, facciano estremamente fatica a essere dei decisori razionali ci viene confermato dalla psicologia cognitiva. Famosi in questo senso sono gli esperimenti condotti da Kahneman e Tversky (tra gli altri):

Dopo aver selezionato due gruppi di candidati, Tversky e Kahneman hanno posto il seguente problema chiedendo ai partecipanti cosa avrebbero fatto se la scelta fosse dipesa da loro: negli Stati Uniti sta per giungere una nuova malattia proveniente dall’Asia, sono a rischio le vite di 600 persone; al primo gruppo è stato proposto quanto segue:

  • Programma A: 200 persone si salvano
  • Programma B: 1/3 di probabilità di salvare tutti, 2/3 di probabilità di non salvare nessuno

I programmi per il secondo gruppo erano invece i seguenti:

  • Programma C: 400 persone muoiono
  • Programma D: 1/3 di probabilità che nessuno muoia, 2/3 di probabilità che muoiano tutti

Da un punto di vista di contenuto i programmi A e B sono del tutto equivalenti rispettivamente ai programmi C e D, eppure le risposte dei due gruppi sono state profondamente diverse. Nel primo gruppo è stato scelto il programma A nel 72% dei casi e il programma B nel restante 28%; nel secondo gruppo la scelta prioritaria (78%) è caduta sul programma D mentre il programma C è stato preferito solo nel restante 22% dei casi.

È evidente che al primo gruppo di candidati è stato sottoposto un messaggio in cui prevalevano elementi positivi, mentre il secondo gruppo è stato esposto a contenuti negativi. Si può notare che nel primo caso i candidati si sono orientati verso una risposta di tipo certo, nel secondo caso la polarizzazione delle risposte è invece avvenuta intorno alla soluzione di tipo probabilistico.

Si tratta di un classico esempio di come il “framing”, il modo – cioè – in cui viene presentato un problema, influenza il nostro modo di rispondere e di fornire una soluzione. 

Le organizzazioni, in questo senso, essendo composte da persone e da esseri umani – con i loro pregi e difetti – non sono esenti da questo tipo di problematiche.

Bias organizational

Come persone, all’interno delle organizzazioni di cui facciamo parte, e all’esterno di esse, siamo costantemente coinvolti in bias che ci fanno credere di: essere più competenti di quello che in realtà siamo, sottostimare la possibilità di fallire, sottostimare i nostri difetti e punti deboli, essere non soggetti agli errori che commettono gli altri…
Alcuni di questi errori all’interno della definizione di una strategia di business di un’azienda possono portare a vere e proprie crisi “esistenziali” che minano i presupposti stessi dell’organizzazione.

L’ottima ruota dei bias cognitivi mostra in modo semplice ed efficace l’enorme quantità di errori alla quale siamo soggetti quotidianamente

Cognitive Biases

Uno scenario tutt’altro che roseo che mostra quanto difficile sia realizzare strategie consapevoli che coinvolgano livelli di decisione differente.

Ma come possiamo muoverci in un contesto di questo genere? Come possiamo fare in modo che all’interno delle organizzazioni non si innestino questi meccanismi che ci portano – inevitabilmente – ad essere dei terribili decisori?

McKinsey consiglia alcuni punti chiave da tenere presente:

  • Diffondere una cultura basata sul dialogo e sul confronto. Il “non essere d’accordo” ha un valore fondamentale: in termini psicologici il group-think rappresenta uno dei rischi maggiori nella presa di decisione
  • Aumentare la propria consapevolezza e utilizzare meccanismi meta-cognitivi per analizzare i propri processi decisionali, sia nelle organizzazioni sia all’esterno di esse
  • Ingegnerizzare – per quanto possibile – la presa di decisione attraverso tool e strumenti che possano aiutarci a comprendere in che modo commettiamo errori

Come si legge anche in chiusura dell’articolo:

Companies can’t afford to ignore the human factor in the making of strategic decisions. They can greatly improve their chances of making good ones by becoming more aware of the way cognitive biases can mislead them, by reviewing their decision-making processes, and by establishing a culture of constructive debate.

Il grosso del lavoro da fare è dunque su se stessi: diventare migliori decisori, aumentare la propria consapevolezza sul funzionamento di questi processi ci aiuterebbe a diventare non solo dipendenti migliori ma anche persone maggiormente consapevoli e in grado di risolvere problemi e di pensare in modo strategico.

Come ogni anno, anche per il 2014, è uscito il nuovo report sullo stato del Community Management di Community Roundtable, si tratta di un importante contributo legato non solo al mondo – per l’appunto – del community management, ma – molto più in generale – a come i processi di social business e digitali (più in generale) stiano contribuendo a modificare le organizzazioni nelle quali lavoriamo.

Cerchiamo di analizzare insieme alcuni dei dati che emergono dalla lettura del report.
Per chi fosse interessato all’approfondimento l’interessante ricerca è disponibile in formato completamente gratuito sul sito ufficiale di Community Roundtable al quale vi rimando per ulteriori considerazioni.

Ecco alcune delle informazioni chiave che meritano di essere messe in luce:

  • le community più mature sono quelle in grado di generare valore di business e di far ottenere impatti significativi in termini di efficientamento dell’organizzazione e incremento delle performance.
  • Chi è più maturo nel percorso di digitalizzazione è anche più avvezzo alla misurazione e all’ottenimento degli obiettivi preposti in fase progettuale. In sintesi: sanno dove andare e sanno come arrivarci, difficilmente si perdono per strada perché controllano spesso bussola e carte nautiche.
  • L’engagement e il livello di partecipazione all’interno delle community e degli ambienti digitali è fortemente influenzato sia dai ruoli dei community manager (che sono essenziali in ogni progetto) sia dal ruolo degli advocate e dei promotori del cambiamento.
  • La partecipazione dei c-level aziendali è un indicatore di maggiore successo e una sicura strategia per garantire un impatto ancora più significativo in termini di resa dell’intera iniziativa.
    La partecipazione dell’esecutivo inoltre garantisce un maggiore rispetto della roadmap e un raggiungimento migliore degli obiettivi prefissati. Chi riesce e chi ha successo unisce, dunque, due tipologie di approccio: da un lato spinge dal basso coinvolgendo tutti i dipendenti e dall’altro tira dall’alto assicurandosi di avere a bordo anche i manager dell’organizzazione.
  • Le community interne ed esterne sono molto simili tra loro ma presentano alcune differenze nei ruoli. Chi lavora sull’esterno sembra – infatti – aver compreso meno il ruolo chiave dei community manager. Anche l’engagement sull’interno è solitamente più elevato ma non come si pensava potesse essere.

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Il report si concentra poi su alcune raccomandazioni da seguire per la realizzazione di una strategia di successo che incrementi l’adozione della community e favorisca anche il raggiungimento degli obiettivi di business.

Gli step e i consigli da seguire per assicurarsi il successo dell’iniziativa sono:

  • Partire dall’assessment e comprendere fattori critici di successo e possibili problemi che possono derivare dall’adozione o meno della soluzione prospettata. 
  • Sviluppare un piano a medio e lungo termine (una roadmap in gergo) che consenta di darsi obiettivi, misurarli e fare costantemente il punto nave per capire dove stiamo andando e dove vogliamo arrivare, ma anche a che punto siamo del nostro percorso di evoluzione
  • Assicurarsi uno staff di community manager: non è sufficiente dedicare risorse part time o ritagliare tempo ad altri progetti. Le risorse devono essere staffate, formate e devono essere in grado di dedicare del tempo al progetto per poterlo fare crescere.
  • Garantirsi la sponsorship e coinvolgere in modo attivo al tempo stesso tutto il top management, formandolo e accompagnandolo nel percorso di trasformazione mostrando il valore e i benefici tangibili che queste iniziative possono portare e generare all’impresa e a tutto l’ecosistema organizzativo.
  • Assegnare responsabilità di progetto molto ben precise e mostrare chi siano le figure chiave che incidono sulla community: trasparenza e riconoscimento sono – in questo senso – le parole chiave.
  • Responsabilizzare tutti i membri dell’organizzazione nel prendere parte attiva al processo di trasformazione. che – lo ricordiamo ancora una volta, non è meramente tecnologico ma culturale in primis.
  • Content is (still) the king! Continuare a produrre contenuto e sviluppare del valore per le proprie community, siano esse esterne o interne all’organizzazione. E’ importante comprendere che la community diventa attività e riesce a raggiungere obiettivi di business se le persone al suo interno percepiscono un valore in quello che stanno facendo e un valore per tornare a confrontarsi all’interno della community. 
  • Organizzare un calendario editoriale in questo senso è un ottimo ausilio eccellente per garantire il mantenimento costante e sempre aggiornato del contenuto.
  • Trasparenza e ancora trasparenza. Non solo in termini di riconoscimento dei dipendenti e dei consumatori che eventualmente partecipano ma anche di normative e regole. Le community di successo e quelle maggiormente avanzate sono anche quelle che presentano strumenti di policy avanzata che sono in grado di promuovere i comportamenti ideali e limitare quelli negativi.
  • Assicurarsi un piano B! O meglio: assicurarsi un piano di crisi in grado di far fronte a possibili emergenze e problemi e in grado di rispondere per tempo per arginare i problemi in modo rapido e incisivo.
  • La scelta della dimensione tecnologica non è meno importante: è necessario fare la scelta più adeguata rispetto agli obiettivi di business che si vogliono ottenere ed è anche necessario che lo strumento sia allineato con la visione della community e sia in grado di coprire i requisiti che abbiamo ipotizzato in fase progettuale.
  • Misurare e misurare sempre: le organizzazioni maggiormente mature e i progetti di successo si distinguono – tra le altre cose – da quelli che non hanno successo per una attenzione molto molto forte al processo di monitoraggio e di misurazione di quanto accade. Nulla avviene per caso e tutto viene controllato per garantire l’allineamento con gli obiettivi di business e per intervenire in modo puntuale e mirato in caso di scostamenti.

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In questo senso risultano molto interessanti parecchi dati che testimoniano per altro un allineamento con quanto emerso dalla Social Collaboration Survey a livello italiano.

La direzione sembra quindi essere tracciata in modo molto molto preciso e definito. Non resta quindi che intraprendere in modo concreto il percorso consapevoli di come i risultati non siano più ormai solo sperimentali o aleatori ma possano incidere in modo davvero significativo sul nostro modo di concepire le organizzazioni.

IBM ha da poco rilasciato un report molto interessante dal titolo: “The Customer-activated Enterprise – Insights from the Global C-suite Study” che analizza in che modo le tecnologie digitali abbiano fortemente modificato il ruolo del consumatore di oggi portandolo a esercitare un forte impatto di trasformazione organizzativa all’interno delle aziende.

In breve: il consumatore, il cliente – oggi – esercita – un potere molto maggiore rispetto al passato. Abbiamo più volte – in questa e in altre sedi – parlato delle caratteristiche chiave del social customer e analizzato come i social media abbiano consentito uno sviluppo di consapevolezza, trasparenza, coinvolgimento, autorevolezza che le aziende non possono più ignorare. Se fino a qualche tempo fa la tecnica “dello struzzo” poteva funzionare, ora non è più possibile adottarla: nascondere la testa sotto alla sabbia non rappresenta una strategia praticabile e sostenibile.

Ma cerchiamo di capire in che modo il report analizza la situazione e quali insight interessanti se ne possono estrarre.
Per prima cosa il report deriva da migliaia di intervista face-to-face condotte da IBM negli ultimi anni a C-Level di diverse aziende nel mondo. La ricerca permette di tracciare quindi un report completo e una visione generale della percezione che i livelli più alti delle organizzazioni hanno rispetto alle nuove tendenze del mercato e ai macro-trend organizzativi.
Interessante – come primo dato che emerge – risulta essere la percezione di importanza che la dimensione digitale ha assunto negli anni arrivando a prevalere su molte altre caratteristiche nel panorama delle sfide che le organizzazioni si trovano costrette e “obbligate” ad affrontare per poter sopravvivere.

Dal 2006 ad oggi – infatti – l’aspetto delle tecnologie digitali ha raggiunto la prima dimensione nelle priorità strategiche delle aziende, risalendo la china e posizionandosi prima di altri processi e aspetti (indicatori macro-economici, talent management, people skills…). E questo è vero per tutti i livelli aziendali ma in particolar modo per tutta la cosiddetta C-Suite (CFO, CMO, CIO, CHRO, CEO, ecc.)

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Il grafico sopra mostra poi un altro aspetto molto molto interessante di cui più volte ho avuto il piacere di discutere e di analizzare. Sempre più aziende (di grandi e grandissime dimensioni) si stanno rendendo conto che il coinvolgere i consumatori all’interno dei loro processi interni risulta un assett fondamentale attorno al quale costruire la loro strategia organizzativa. In questo modo crollano (come abbiamo più volte visto parlando di Social Business) le classiche distinzioni tra interno ed esterno delle aziende, crollano le barriere tra consumatori e dipendenti interni, crollano i meccanismi classici attorno ai quali si sono costruite le aziende negli ultimi anni e si affermano modelli più partecipati, aperti, collaborativi, in una parola: modelli più social.

Kimberly-Clark è una delle aziende che ha compreso questo processo e – da qualche anno – lo sta fortemente implementando all’interno di tutti i suoi processi:

Dei CxO è oltre il 54% a essere convinto che i consumatori stiano oggi esercitando un ruolo cruciale sulle loro organizzazioni, il 36% crede che l’influenza sia presente ma non elevata  mentre è solo il 10% a credere ancora che quello che accade “fuori” dall’organizzazione non ne influenzi i processi interni.

“As customers gain more power over the business via social media, their expectations keep rising and their tolerance keeps decreasing.”

Con l’aumentare della consapevolezza e dell’aspettativa da parte dei consumatori, sempre più organizzazioni si rendono conto che la sfida nei prossimi anni sarà realizzare esperienze integrare che riflettano sulla capacità non solo di rispondere alle mutate esigenze ma di superarle. Le aziende migliori e più efficaci saranno quelle in grado di garantire questo salto di qualità e di rispondere appieno alle differenti e profonde richieste dei consumatori. A che pro? Crescita del business. La ricerca mostra – infatti – che le aziende che funzionano meglio sono quelle che collaborano e coinvolgono di più sia i loro consumatori sia i loro dipendenti.

L’importanza che i consumatori stanno assumendo all’interno delle organizzazioni è oltretutto rafforzata dai dati mostrati qui sotto.
Come nel caso di Kimberly Clark le aziende che sono in grado di insistere e di coinvolgere i propri clienti all’interno di un processo chiaro e definito sono quelle che meglio riescono a fidelizzarli, fronteggiando nuove sfide poste dal mercato e dall’attuale situazione di incertezza.

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Non dimentichiamoci però nemmeno il famoso ammonimento di Trismegisto : “come in alto così in basso”. Qui potremmo dire: come all’esterno così anche all’interno. Non si può – infatti – essere social a metà, non si può in altri termini pensare di aprirsi verso l’esterno e di coinvolgere i consumatori della propria azienda senza effettuare dei profondi processi di change managament anche al proprio interno. Processi che impattino fortemente sulla cultura organizzativa e che cambino le modalità classiche di organizzare e gestire il lavoro. In questo senso la funzione HR (che come sappiamo e abbiamo visto da molti precedenti articoli gioca un ruolo fortemente marginale ancora) deve divenire protagonista e facilitatrice di questo processo.

“The HR function has a role to play in encouraging a less autocratic, more collaborative approach to leadership, introducing new performance management processes and bringing the organization along.”

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E’ quindi in atto una profonda trasformazione delle aziende, una consapevolezza sempre maggiore che sta coinvolgendo l’intera organizzazione, si parla di un profondo cambiamento di una radicale trasformazione che passa dal digitale ma coinvolge molti più aspetti del digitale. Una trasformazione che richiede l’abbattimento di barriere esterne ma anche di silos interni, che consenta l’emersione di modelli collaborativi e che consenta di realizzare aziende aperte, flessibili, partecipate, aziende in cui il focus siano le persone: non importa se consumatori, clienti, partner, stakeholder o dipendenti.
Ciò che sarà sempre più importante sarà investire nel valore e in una direzione comune: lavorando in modo collaborativo.

Il numero di Aprile di McKinsey Quarterly riporta uno studio molto interessante relativo al tema della networked enterprise. (E’ possibile trovarlo qui: http://www.mckinsey.com/insights/business_technology/evolution_of_the_networked_enterprise_mckinsey_global_survey_results). Vengono – infatti – riportati i risultati di un’analisi condotta su oltre 3,500 executives di tutto il mondo che mostrano la percezioni e lo stato dell’adozione delle social technologies all’interno di organizzazioni di tutto il mondo.

Tra i dati maggiormente significativi che emergono dalla ricerca sicuramente da segnalare resta – per l’appunto – quello legato all’adoption rate. Il mercato sta cambiando. Sempre più persone, anche tra i livelli aziendali strategici (C-Level) stanno usando i Social Media e i Social Network all’interno e all’esterno dell’azienda e dell’organizzazione per aumentare l’engagement e per ottenere risultati di business. I media digitali e l’intero processo che ha portato – negli ultimi anni e negli ultimi mesi – verso una digitalizzazione del workplace aziendale sta cominciando a essere considerato non più come una chimera o un fortunato accidente ma come un qualcosa a cui guardare con maturato interesse e strategia critica.

Si tratta di numeri molto interessanti – come riportato anche nella tabella mostrata – che evidenziano una industry in forte crescita che merita di essere analizzata da vicino. Come affermato più volte – in questa e in altre sedi – il mercato è cambiato: sono cambiati i consumatori, le modalità di trattare i propri dipendenti e la  stessa recessione sta evidenziando debolezze strutturali dei modelli gerarchici e di management 1.0 che risultano ormai di fatto inefficaci per gestire il nuovo e mutato scenario.

Come si legge nel report:

The share of executives who say their companies use at least one social technology continues to climb, from 72 percent in 20113 to 83 percent in 2012. More than half report the use of social networks—almost twice the level of 2009—while the two tools we asked about for the first time in the latest survey (videoconferencing and collaborative document editing) are among those that are used most frequently (Exhibit 1).

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Restano comunque alcuni punti critici:

  • sebbene le aziende (o perlomeno buona parte di esse) abbiano compreso la necessità di spostarsi verso un modello organizzativo nuovo, non tutte hanno cominciato a darsi da fare per farlo. Come a dire che la capacità di execution rappresenta ancora un fattore differenziante molto forte.  
  • I problemi maggiori nell’adozione delle nuove tecnologie social all’interno delle aziende riguardano molteplici fattori, tra i principali: mancanza di un’adeguata strategia, mancata volontà di assumersi responsabilità verso scelte nuove e spesso anche in controtendenza rispetto ai comportamenti ai quali siamo abituati, mancanza di un coordinamento, mancanza delle competenze adeguate per evolvere in questa direzione…
  • la mancanza di una strategia che traghetti le organizzazioni verso un modello di social business si fa sentire anche lato gestionale. La gestione delle modalità collaborative: tra dipendenti interni e tra consumatori e clienti esterni è spesso assegnata al caso, senza un preciso scopo e senza che i benefici possano essere replicabili e gestibili sul lungo termine.  
  • Gli approcci che sono stati tentati fino ad ora, perlomeno nella maggior pate dei casi, sono ancora troppo in un’ottica “mordi e fuggi” di progetti spot che non rappresentano un vero cambiamento per l’intero ecosistema aziendale. Iniziative di questo tipo cavalcano un picco di aspettative inflazionate per poi esaurirsi nel giro di pochi mesi dal lancio.
  • I budget che vengono allocati sono spesso sbilanciati. Pur essendo ormai chiaro che la dimensione tecnologica seppur di primaria importanza non è l’unica a cui prestare attenzione, molti stanno continuando a investire.
  • il coinvolgimento dei top manager resta sempre molto complesso e non è un caso raro che essi rappresentano proprio il punto debole nell’adozione delle strategie social all’interno delle organizzazioni.

Molto interessanti sono anche i risultati che mostrano ciò che è stato ottenuto dalle aziende grazie agli strumenti di social software che sono stati introdotti negli ultimi anni e i benefici effettivi che le aziende hanno potuto ritrovare nell’adozione di queste tecnologie nel contesto e nel tessuto organizzativo. 

Il ritorno maggiormente significativo che si incontra all’interno di questo processo è legato all’efficientamento dei flussi informativi e delle modalità di lavoro, ma si riscontrano benefici concreti anche nella gestione della conoscenza all’interno dell’azienda e nei processi maggiormente collaborativi che si riescono a instaurare, non sono verso l’interno ma anche sull’esterno dell’azienda (Co-Creation).
La tabella riportata mostra il cambiamento e la crescita che le tecnologie di questo tipo hanno avuto negli ultimi anni evidenziando anche i rami di competenza.

In questo senso si consideri anche quanto descritto nel report:

Financially, respondents say social tools contribute 20 percent and 18 percent, respectively, to the revenue increases and cost improvements their companies attribute to the use of all digital technologies. These percentages may appear small but are driven by the extent to which—and the ways in which—companies deploy the technologies. At companies using at least six tools (or half of the tools the survey asked about), executives say this usage amounts to a larger share of financial benefits. Even larger shares at the companies using six or more tools on mobile say so: these respondents report that social tools contribute 32 percent and 26 percent, respectively, to their companies’ revenue and cost-cutting benefits.

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Dall’altro lato aumentano in modo considerevole anche le aspettative nei confronti di questi strumenti.
Chi ha iniziato – negli ultimi mesi – a intraprendere il percorso della Digital Transformation si sta rendendo conto che le potenzialità da esplorare e gli orizzonti verso cui andare sono ancora molti e del tutto in sviluppo. Le possibilità per le aziende (come per altro sottolineato anche nell’indagine dello scorso Giugno della stessa McKinsey) sono ancora elevatissime e la strada da fare è ancora lunga. I maggiori cambiamenti si avranno in prospettiva nei prossimi 3-5 anni dove le aziende che non avranno intrapreso questa direzione difficilmente troveranno o riusciranno a trovare una collocazione in un mercato sempre più informato, competitivo e digitalizzato.

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Quale la direzione da intraprendere quindi?

Il processo – sulla carta – è molto semplice e ne abbiamo parlato altre volte in questa e in altre sedi. Si tratta di strutturare e di preparare una seria strategia che consenta di procedere per gradi, coinvolgere correttamente tutti gli stakeholder e le figure aziendali nel processo e di muoversi verso una direzione univoca. Il mercato ha ormai raggiunto un livello di maturità tale per cui i casi studio e le occasioni di crescita sono alla portata di tutti. Non vi sono più dubbi sull’efficacia di queste modalità e sulla possibilità che offrono di migliorare le nostre organizzazioni.

La vera sfida, la vera partita si gioca (oggi) e si giocherà domani sulla capacità di mettere in pratica, in modo concreto e fattivo, le occasioni che il mercato ci offre.