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Moltissime strategie non riflettono la modalità con la quale il digitale sta cambiando il nostro modo di intendere l’impresa, l’economia e – più in generale – il mondo nel quale viviamo. Gli impatti si riscontrano a livello sociologico, psicologico e, soprattutto, culturale.

E’ proprio in questo modo che si apre un interessantissimo articolo di McKinsey pubblicato qualche giorno fa (maggiori informazioni per chi fosse interessato all’approfondimento le trovate qui: https://www.mckinsey.com/business-functions/digital-mckinsey/our-insights/why-digital-strategies-fail). Cerchiamo quindi di capire quali siano i messaggi chiave che emergono dall’articolo in questione e di comprendere meglio per quale motivo buona parte delle strategie digitali falliscano ancora prima di ottenere i risultati attesi (e sperati).

A fronte di un impatto percepito estremamente elevato, sono pochissime le organizzazioni che abbiano effettivamente intrapreso un percorso di cambiamento pervasivo ed efficace verso la digitalizzazione, nel report infatti si legge:

Many companies are still locked into strategy-development processes that churn along on annual cycles. Only 8 percent of companies we surveyed recently said their current business model would remain economically viable if their industry keeps digitizing at its current course and speed.

Ma per quale motivo è così complesso trasformare l’impresa? Per quale motivo buona parte di questi progetti falliscono? Quali sono gli ostacoli che incontrano le organizzazioni sul loro cammino verso l’evoluzione?

  1. Definizioni non corrette e confuse. Non che sia importante avere una definizione univoca, ma quello che emerge dalle ricerche condotte è che la visione è molto spesso differente anche all’interno della medesima azienda. Non si tratta solo di un tema di chiarezza, ma di vero e proprio allineamento delle funzioni aziendali al business
  2. Mancata comprensione delle logiche economiche sottese alla trasformazione digitale. Molte delle regole economiche e dei principi che hanno regolato il nostro modo di concepire le aziende e la nostra relazione con i dipendenti e con i consumatori esterni non sono più efficaci all’interno di uno scenario digitale complesso come quello che stiamo vivendo. In particolar modo:
    • Il digitale sta azzerando i ritorni economici tradizionali reinventando modelli di impresa completamente nuovi
    • Il digitale sta cambiando tutte le economie e sta coinvolgendo in modo esteso le imprese indipendentemente dal settore industriale di appartenenza
    • Il digitale sta assicurando ritorni economici di livello elevatissimo per i first mover, per i pionieri e per coloro che hanno iniziato presto a investire in questa direzione

      Digital Disruption

  3. Assicurare una vista il più ampia possibile. Il digitale è in grado di portare immensi vantaggi alle nostre aziende, ma solo se siamo effettivamente in grado di comprendere in che modo questo può collegarsi da un lato ai nostri processi di business e – dall’altro – alle aziende che si muovono nel nostro settore e in settori differenti dal nostro. Questo è un passaggio fondamentale nell’evoluzione digitale e nella capacità di essere in grado di fare – effettivamente – la differenza.
  4. Evitare di indirizzare la propria attenzione sui “soliti sospetti”. Si tratta di un errore molto comune e diffuso anche nelle organizzazioni italiane (pensiamo per esempio anche solo alla presunta e diffusa credenza secondo cui i digital native dovrebbero essere più abili nell’utilizzo di piattaforme online).
  5. Essere in grado di comprendere la dualità del digitale. Non sempre la velocità del cambiamento è uguale per tutte le aziende e per tutti i settori. E’ necessario cambiare questo principio e ragionare su due livelli differenti: il grado di cambiamento e la velocità con cui questo cambiamento avviene. La matrice che riportiamo qui sotto illustra molto bene i differenti quadranti che si vengono a creare.

Digital Matrix Pace

Infine, ma non meno importante, il ruolo delle persone è fondamentale. Come si legge anche nel report di McKinsey:

Needless to say, the organizational implications are profound. Start with people. Our colleagues estimate that half the tasks performed by today’s full-time workforce may ultimately become obsolete as digital competition intensifies. New skills in analytics, design, and technology must be acquired to step up the speed and scale of change. Also needed are new roles such as a more diverse set of digital product owners and agile-implementation guides. And a central organizational question remains: whether to separate efforts to digitize core operations from the perhaps more creative realm of digital innovation.

Chi segue questo blog sa molto bene quante volte abbia sottolineato l’importanza di reinventare le imprese con le persone al centro e di come le aziende del futuro saranno quelle in grado di (ri)mettere la co-creazione di valore per tutti i loro stakeholder all’interno delle loro strategie di business.

Pochi giorni fa McKinsey ha pubblicato un report molto interessante dal titolo “Digital Reinvention: Unlock the “How”“. Se siete interessati ad approfondire e a leggere tutto il report vi consiglio il sito ufficiale qui.

Come spesso faccio, mi piacerebbe ripercorrere i messaggi principali contenuti all’interno del report e individuare i trend più interessanti per chi si occupa di trasformazione organizzativa.

Il primo – forte – segnale che viene comunicato all’interno del report è che il digitale ha avuto – e sta avendo – un impatto estremamente significativo su tutti i settori di business e tutte le industry.
Non si tratta, senza dubbio, di una intuizione nuova ma i dati a suffragarla sono comunque notevoli e meritano di essere osservati da vicino.

Digital Penetration

A fronte di una crescita delle industry e del mercato stiamo anche assistendo a una serie di investimenti non del tutto corretti all’interno del mercato digitale.
Come si legge nel report:

These findings suggest that some companies are investing in the wrong places or investing
too much (or too little) in the right ones—or simply that their returns on digital investments
are being competed away or transferred to consumers. On the other hand, the fact that high
performers exist in every industry (as we’ll discuss further in a moment) indicates that some
companies are getting it right—benefiting, for example, from cross-industry transfers, as
when technology companies capture value in the media sector.

Sono dunque non poche le aziende che ancora non hanno precisamente individuato in che modo investire i soldi nelle loro attività digitali. Molto di questo caos è dovuto alla proliferazione di canali, azioni, attività e iniziative che il digitale consente. Rispetto al passato è aumentata notevolmente la scelta e la possibilità e questo rappresenta molto spesso un ostacolo e una sfida che non tutti sanno cogliere.

Il 49% delle aziende investe ancora solamente all’esterno dell’impresa, nella realizzazione di strategie di marketing digitale e di comunicazione che vanno nella direzione di ingaggiare in modo più ampio possibile. Molta dell’evoluzione digitale – come ben sa chi mi segue ormai da tempo – è all’interno dell’impresa e su processi core dell’azienda più che in settori differenti. Tra questi processi la supply chain ci si aspetta possa aumentare del 75% il proprio ritorno grazie a processi digitalizzati. 

Investiment

Come si vede molto bene dallo schema riportato buona parte dell’investimento è destinato a prodotti e servizi e a processi di marketing e distribuzione nei confronti dei consumatori esterni. E’ veramente molto bassa la percentuali di rispondenti intervistati che identifica altre aree di business come prioritarie all’interno della propria strategie di evoluzione verso scenari maggiormente digitalizzati.

McKinsey evidenzia molto bene anche le strategie che le aziende migliori sul mercato stanno adottando per avere successo:

  • Assicurare una strategia digitale allineata con gli obiettivi di business dell’azienda e con i ritorni che si hanno intenzione di ottenere. Il digitale – è sempre bene ricordarlo – è un mezzo e non il fine. Ad esso vanno applicate le medesime logiche che sono applicate a qualunque altro prodotto o strumento organizzativo. Deve essere funzionale all’obiettivo che deve essere sempre chiaro e monitorato con costanza
  • Gli investimenti dei leader sono distribuiti e sono molto più legati alla supply chain e ai processi (oltre 4 volte rispetto a quanto fanno quelli che falliscono). Le due dimensioni che hanno l’impatto maggiore in termini di risultati che si possono ottenere e ritorni di business

Allo stesso modo chi fallisce:

  • E’ strutturato in silos e in compartimenti stagni: i dipartimenti non condividono conoscenza e non sono orientati verso una condivisione di esperienza e di informazioni. Le organizzazioni perdono una quantità elevatissima di tempo nella gestione e nel reperimento della conoscenza. Tempo che potrebbe essere semplificato e gestito in maniera migliore se solo fosse supportato da processi di natura differente e maggiormente digitalizzati
  • Mancano di una cultura definita e coordinata tra le diverse business unit che si riflette in un calo dell’efficienza complessiva e a un peggioramento delle performance di business
  • Mancano di una visione comune tra consumatori che sia condivisa all’interno dell’azienda

Non è un caso che i problemi maggiori – come ben sa chi segue questo blog da tempo – si presentino all’interno dell’organizzazione e sul versante della digitalizzazione dei processi aziendali. E’ lì che si presenta la sfida maggiore in termini organizzativi e di business.

In the quest for coherent responses to a digitizing world, companies must assess how far digitization
has progressed along multiple dimensions in their industries and the impact that this evolution is
having—and will have—on economic performance. And they must act on each of these dimensions
with bold, tightly integrated strategies. Only then will their investments match the context in which
they compete.

Il report continua poi con l’analisi di 7 dimensioni chiave che dovrebbero orientare la trasformazione digitale e l’agenda dei CEO che intendono investire in questo settore in modo complesso:

  • Decidere in quale direzione debba andare il business. Focalizzarsi su tematiche core dell’azienda più che su sfide digitali. Di che cosa abbiamo, davvero, bisogno?
  • Definire ruoli precisi e una chiara direzione di investimento in modo che sia trasparente l’obiettivo da raggiungere all’interno di tutta l’organizzazione
  • Vendere e condividere la versione agli stakeholder aziendali. Socializzare una cultura comune è quanto di più importante si possa fare; come abbiamo visto è fondamentale che l’inter azienda sia coinvolta e sia partecipe del nuovo cambiamento organizzativo che si intende attuare
  • Comprendere in che modo l’azienda si posiziona nello scenario digital. Definire la propria value proposition in termini digitali è cruciale per le aziende di tutto il mondo
  • Ragionare in modo agile e evolutivo. Tutte le aziende che hanno intrapreso un percorso di evoluzione digitale sanno molto bene che quello che devono fare è essere preparati agli imprevisti e alle azioni di cambiamento costante. Le aziende maggiormente mature sono quelle che si regolano secondo questa dinamica
  • Allocare (parecchie) risorse in modo saggio. Un altro tema di elevata importanza è quello dell’allocazione del budget e del dimensionamento. Le aziende che hanno successo destinano il budget non solo in investimenti IT ma in strategia, processi, risorse, persone e competenze. E’ il modo migliore per avere successo e per minimizzare il rischio di fallimento dell’iniziativa.
  • Pianificare sul lungo termine. Oltre il 70% dei programmi di trasformazione falliscono

Sono messe in luce anche le barriere che impediscono la trasformazione digitale e la sedimentazione di processi che siano davvero in grado di fornire un supporto fattivo al business.

Digital Effectiveness

Come facilmente intuibile la cultura rappresenta la barriera principale e la sfida maggiore sul quale devono investire le aziende per evolversi verso il panorama digitale nel migliore modo possibile. 
Seguono problematiche relative all’incapacità di comprendere in che modo il digitale cambi l’organizzazione e la mancanza di talenti e di infrastrutture adeguate a supportare il percorso di crescita e di evoluzione.

In modo particolare sono tre le barriere culturali che impediscono la sedimentazione di una precisa e corretta cultura digitale:

  • La struttura organizzativa gestita per silos, non tanto a livello fisico ma più a livello di forma mentis e di impostazione del lavoro complessivo. Si tratta di una delle barriere che maggiormente le aziende devono essere in grado di abbattere attraverso un serio e impegnativo lavoro sui processi interni
  • Una cultura non digitale che rappresenta senza dubbio un problema. A fronte di un mondo costellato di millenials e nuove sfide e competitor le aziende spesso hanno processi e meccanismi di lavoro vecchio stile e modalità che non riescono a tenere il passo
  • E – infine – un’avversione molto elevata al rischio che impedisce la sperimentazione in nuovi settori.

Infine, il report si chiude con una riflessione sull’importanza dell’analisi dei dati come meccanismo di sperimentazione e di impostazione di qualunque campagna. La capacità di analizzarli e di metterli a fattore comune è ancora troppo bassa nelle organizzazioni. Si tratta di un’area a forte investimento nel prossimo – immediato – futuro che garantisce la capacità di prevedere investimenti e scelte strategiche di livello e orientate al risultato di business.

 

Da sempre il mercato cinese è stato una forza della natura in termini di crescita del digitale e del mondo tecnologico ad esso legato.

Un interessante report di McKinsey di qualche giorno fa (maggiori informazioni qui se siete interessati all’approfondimento: https://www.mckinsey.com/global-themes/china/digital-china-powering-the-economy-to-global-competitiveness) mette in luce molto bene l’evoluzione al quale questo mercato è stata soggetta negli ultimi anni e quale prospettiva di crescita possa esserci ancora nel prossimo futuro.

Chi mi segue sa molto bene che ho sempre messo l’accento in modo evidente sulla differenza digitale tra il nostro mercato e quello cinese. L’impatto di questo cambiamento non riguarda solo l’impiego di nuovi e differenti canali (e.g. Ren Ren, Sina Weibo, WeChat…) al posto di quelli che conosciamo molto bene e che impiegano le nostre aziende, o un modello culturale differente. Le ragioni sottese a questa differenza sono molteplici e differenziate e richiedono una seria riflessione da parte delle imprese perché quello di cui stiamo parlando è un mercato globale che influenzerà in modo consistente anche quello che avverrà nel nostro continente.

Come si legge nel report:

As China digitizes, industries will experience huge shifts in revenue and profit pools across the value chain. This creative destruction is happening globally as the world digitizes, but it is likely to happen more quickly and on a relatively larger scale in China given a combination of inefficiencies in traditional sectors and massive potential for commercialization.

Vediamo di analizzare i dati principali che emergono dal report e di interpretarli.
Più nel dettaglio:

  • L’evoluzione del mercato digitale in Cina è sorprendente. Giusto per citare un dato su tutti, nel 2016 il valore dei pagamenti mobile è stato di 790 miliardi di $, 11 volte quello degli Stati Uniti

Exhibit 1

  • I venture capitalist cinesi stanno investendo consistentemente nel settore digitale. Giganti come Baidu. Alibaba e Tencent (o BAT) stanno costruendo imperi digitali che integrano differenti e molteplici funzioni, la loro evoluzione è pari – se non superiore – a quella delle piattaforme “occidentali” come Google e Facebook
  • Anche gli investimenti in intelligenza artificiale sono considerevoli e assieme ai big data e fintech rappresentano il principale veicolo di crescita dell’economia digitale del paese. Si tratta – secondo gli analisti – del trend principale che ri-organizzerà l’economia del prossimo – immediato – futuro
  • Il governo cinese sta fornendo alle compagnie digitali notevole spazio per sperimentare favorendo un ecosistema flessibile che consenta di innovare. In questo senso le normative sono davvero interessanti e devono essere prese in seria considerazione dalle aziende che intendono evolvere in questa direzione
  • Le aziende cinesi stanno recuperando rapidamente il passo e la distanza, colmando il gap con i paesi maggiormente industrializzati

Overall, digitization of industries in China still lags behind that of the United States by a considerable margin, but that gap is narrowing rapidly. In 2013, the United States was 4.9 times more digitized than China; in 2016, that figure had fallen to 3.7 times.

  • Entro il 2030 tre trend principali: disintermediazione, dematerializzazione, disaggregazione, saranno responsabili di un profitto pari a una cifra dal 10 al 45% della industry

Exhibit 4 - Sources

L’articolo si chiude poi con una serie di best practice utili per il sostentamento del mercato digitale in Cina e per la pianificazione dei passi successivi.

Vediamo quali sono:

  • Adottare strategie consistenti considerando l’enorme potenziale che esiste in questo mercato. Non si tratta – infatti – di un “mestiere” che può essere improvvisato
  • Utilizzare l’ecosistema digitale cinese nella maniera più ampia possibile. Come abbiamo visto l’ecosistema è molto vasto e i canali molteplici. Le aziende devono comprendere in quale modo si possa impiegare al meglio l’opportunità offerte dalla piattaforma
  • Massimizzare i ritorni grazie all’impiego massivo dei dati e alla loro declinazione all’interno delle strategie di business. I big data possono rappresentare, per il mercato cinese molto più che in altri casi, il fattore differenziante in grado di creare la differenza sostanziale e consentire un cambiamento costante e duraturo nel tempo
  • Costruire un’organizzazione agile: utilizzare gli strumenti descritti e integrarli in un contesto che consenta all’impresa di lavorare in modo maggiormente veloce, rispondere in modo efficace agli stimoli esterni e reagire alle sollecitazioni che provengono dal mercato
  • Digitalizzare le operation e la parte interna dell’impresa. E’ l’unico modo per garantire il funzionamento delle strategie che abbiamo impostato. Chi segue questo blog sa che il tema è cruciale – ad oggi – per permettere all’impresa di scalare davvero
  • Adattarsi alla regolamentazione e alle policy previste dal governo cinese. E’ nell’interesse delle aziende che intendono investire nel settore muoversi rapidamente in questa direzione evitando successive rincorse che penalizzerebbero i ritorni di business

EY ha recentemente pubblicato un playbook (visibile a questo indirizzo) su come il digitale stia trasformando le aziende di telecomunicazioni nel mondo.

Si tratta di un report davvero interessante sul quale vale la pena spendere qualche minuto per identificare i trend principali e i messaggi chiave che sono contenuti all’interno.

L’analisi inizia identificando alcuni dei macro trend che sono presenti all’interno delle nostre vite:

  • il 90% dei consumatori utilizza device multipli o utilizza un device mentre fa altre attività su altri schermi (multiscreen / doppio schermo)
  • l’81% degli acquisti spontanei sono fatti da smartphone
  • il traffico mobile promette di crescere del 53% entro il 2020
  • 85% del tempo su smartphone è speso in applicazioni native
  • 300 milioni di app sono scaricate ogni mese nella sola Germania

Con il cambiamento delle logiche e dei comportamenti di consumo di base, cambiano anche le aspettative dei consumatori nei confronti del digitale, dei brand e soprattutto delle telco.

Telco challenges

Di fronte a queste sfide le telco stanno cercando di spostare i propri investimenti in settori completamente differenti e che possono essere maggiormente fruttuosi e innovativi: ne sono un esempio gli investimenti in IoT che punta a raggiungere un potenziale di mercato di 700 milioni di dollari entro il 2025 e il mondo del video content. altre due aree di investimento importante per le telco nel prossimo – immediato – futuro stanno diventando l’enteprise cloud e in generale i settori relativi alla gestione del dato e l’analisi di big data e advertising.

Questi settori sembrano essere aree di sviluppo interessanti nel prossimo futuro per nuove opportunità di business e per rafforzare il posizionamento delle telco nell’ambito del mercato digitale

La strada non è affatto semplice in ogni caso e richiede un serio investimento all’interno di alcune aree chiave e specifiche che consentano una radicale trasformazione dell’azienda su leve e versanti completamente nuovi

Trasformazione digitale

Non sono poche le aziende che hanno già iniziato il percorso di trasformazione in questa direzione ma restano scoperte tuttavia alcune aree specifiche che meritano di essere esplorate e approfondite. All’interno del mercato telco pare essere fondamentale l’impatto della customer experience per migliorare il rapporto con il cliente e per raggiungere i propri obiettivi di business

Customer experience management is emphatically the top priority for operators (68% citing it as first priority; 82% as top three). The drive to focus on customers’ experience dictates other priorities: agility, efficiency and network quality. New service development ranks fifth as a top three priority, but second as first priority, underlining how some operators are highly focused on capturing digital growth opportunities

Non risulta semplice coinvolgere un consumatore 2.0: un social customer che ha – rispetto a quello precedente – esigenze e richieste anche completamente differenti

Social Customer EY

A mo’ di conclusione e come sintesi finale: il video riportato qui sotto aiuta a chiarire meglio i termini in gioco.

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Il percorso di evoluzione per le telco sembra quindi essere tracciato con precisione e le aree di investimento definite: non resta che intraprendere il cammino e cominciare a ripensare le proprie priorità strategiche in maniera funzionale al mercato e alle esigenze dei consumatori che sono cambiati per sempre.

Già Wenger (1991; 2006) nel suo celebre lavoro sulle comunità di pratica ha sottolineato l’importanza, sia per le organizzazioni sia per gli individui, di cogliere quell’apprendimento inafferrabile, intangibile che rappresenta – però – il vero nucleo di conoscenze che si possiedono. Considerato in questo modo, l’apprendimento diviene un fenomeno emergente che si colloca in un orizzonte di riflessione sulle pratiche e sugli interessi soggettivi delle persone che fanno parte di comunità in cui scambi e relazioni oltreché attività concrete fanno da collante strutturale. La riflessione sulle CdP non riguarda però semplicemente l’apprendimento ma considera molto da vicino anche i cambiamenti organizzativi che sono connessi a un approccio di questo tipo. A livello molto generale possiamo considerare le tecnologie di digital collaboration – se opportunamente organizzate – come un’evoluzione del concetto di comunità di pratica teorizzato da Wenger.

In questa stessa direzione Lipari (2009) definisce la pratica come

un processo d’azione stabilizzato e al tempo stesso dinamico, ha luogo in un contesto storico-sociale determinato e coinvolge individui e gruppi nello svolgimento di attività le cui caratteristiche tecniche, operazionali e di significato si strutturano nel tempo consolidandosi in abitudini che a loro volta si fissano nella memoria collettiva, diventando tradizione e punto di riferimento per l’azione di tutti” (pp. 24-26).

A livello organizzativo le comunità di pratica rappresentano quindi un anello di congiunzione fondamentale tra la conoscenza tacita e non strutturata presente all’interno dell’impresa e la conoscenza formale, gerarchizzata e strutturata all’interno dei silos organizzativi. In questo la social collaboration si pone come veicolo ideale per: (1) portare alla luce e far emergere pratiche consolidate all’interno del modus operandi dei dipendenti, spesso inconsapevoli di quello che – effettivamente – conoscono; (2) cristallizzare la conoscenza all’interno di unità definite e organizzabili (e.g. un wiki, un forum, un’area di discussione condivisa); (3) diffondere e rendere riutilizzabile nel tempo la conoscenza acquista e formalizzata all’interno dell’impresa [1].

Il concetto di CdP non è però l’unico al quale il percorso di digitalizzazione dell’azienda fa riferimento. Un’altra dimensione importante è quella di cultura organizzativa, primariamente teorizzata da Jacques nel volume The Changing Culture of a Factory (1951) e ripresa da Schein (1990) in diversi studi. Sommariamente possiamo definire la cultura organizzativa come un insieme di assunti di base che si sono rivelati particolarmente validi tanto da essere trasmessi ed indicati come modo corretto di percepire, pensare e sentire all’interno dell’impresa. Il sapere e le conoscenze accumulate nel tempo dall’organizzazione sono poi trasmessi attraverso specifici processi di comunicazione. Secondo Schein la cultura organizzativa si compone di:

  • Artefatti: creazioni ed espressioni artistiche, tecnologie impiegate, comportamenti manifesti e linguaggio scritto e orale proprio di un’organizzazione
  • Valori: modalità operative, principi, credenze e idee, codici morali ed etici
  • Assunti di base: assunzioni implicite e inconsapevoli, modalità di percepire e di pensare, indicazioni fondamentali circa l’organizzazione.

A livello di digital transformation risulta fondamentale indagare la cultura organizzativa con un duplice scopo: (1) valutare e comprendere la prontezza individuale e dell’impresa nell’intraprendere un percorso di cambiamento organizzativo. Non necessariamente il digitale rappresenta una strada che l’impresa intende intraprendere e lanciare un progetto di questo tipo senza aver opportunamente indagato la cultura sottesa può rappresentare un rischio enorme per il successo del progetto. (2) Indagare la cultura e la prontezza dell’impresa risulta utile per identificare in anticipo eventuali possibili problemi e resistenze che potrebbero impedire l’adozione di un approccio collaborativo e indirizzarli in anticipo per poter trovare soluzioni significative.

Altre dimensioni di analisi che toccano il fenomeno della digital collaboration e che riguardano più da vicino il tema dell’employee engagement inteso come uno stato psicologico positivo dell’individuo sono rintracciabili nel percorso di evoluzione verso un modello maggiormente digitale e collaborativo. Sono molte – in questa direzione – le ricerche che hanno dimostrato gli effetti positivi che un elevato engagement dei dipendenti ha sull’intera azienda. Miglioramento dell’impegno organizzativo e alte prestazioni (Salanova, Agut e Peirò, 2005), basso assenteismo, capacità di servire meglio il cliente, migliore soddisfazione personale, riduzione del rischio di burn-out. Un migliore engagement stimolato dalle community interne di dipendenti basate sulla collaboration non solo darebbe numerosi benefici ai dipendenti, ma sarebbe in grado – in modo indiretto – di migliorare la produttività dell’impresa in una dinamica win-win.

A questo concetto strettamente si correla quello di clima organizzativo, un costrutto psicologico che sottolinea l’importanza di trovare un buon equilibrio tra produttività e soddisfazione personale dei dipendenti intesa anche come qualità della vita professionale condotta. Il clima organizzativo ci aiuta a porre in evidenza in che modo i processi di digital e social collaboration vadano a contribuire al rafforzamento di un clima positivo, basato su modalità di lavoro più snelle, immediate, agili e in grado di rispondere più velocemente alle sfide che sono imposte dal mercato. Il clima organizzativo influenza (ed è influenzato) da numerosi punti chiave sui quali si basano gli approcci collaborativi:

  • gerarchia e ruoli all’interno dell’azienda, contribuendo a rendere maggiormente rilevante la competenza rispetto alla posizione occupata all’interno dell’organizzazione;
  • sistemi di riconoscimento e incentivi nell’adozione di meccanismi che premino non soltanto i risultati, ma il modo attraverso cui si raggiungono, non solo l’ambito economico ma anche la reputazione personale e la visibilità interna ed esterna all’impresa;
  • responsabilità individuale: fornendo a tutti la capacità di esprimersi in prima persona e di rispondere delle proprie azioni aumentando il senso di autoefficacia complessivo e la capacità delle persone di costruirsi un network di fiducia personale;
  • motivazione delle persone: dell’employee engagement abbiamo parlato in precedenza, in questa sede basti sottolineare l’importanza e l’impatto – molto elevato – che ambienti collaborativi hanno nell’aumento della motivazione individuale delle persone che – a sua volta – gioca un ruolo decisamente significativo sul clima organizzativo
  • senso di appartenenza all’azienda: nessun uomo è un’isola e l’appartenenza a un gruppo rappresenta uno dei bisogni fondamentali dell’individuo. All’interno dell’azienda questo bisogno si esprime tramite il senso di appartenenza che può fortemente essere influenzato dalle modalità di lavoro collaborativo che consentono di socializzare esperienze (anche non necessariamente lavorative) e di mettere a fattor comune idee e progetti;
  • accesso alle informazioni: l’accesso alle informazioni viene notevolmente semplificato e il riutilizzo della conoscenza reso molto più immediato. Questo consente di ridurre i livelli di frustrazione complessiva e di migliorare l’ambiente di lavoro;
  • autonomia e coordinamento complessivi: ambienti collaborativi influiscono sul clima aziendale contribuendo alla creazione di spazi di maggiore autonomia e di coordinamento. Strumenti di questo tipo permettono – infatti – di rimanere allineati sul lavoro degli altri, di perdere meno tempo in riunioni e meeting di allineamento e di aggiornamento e di avere migliore visibilità su quanto accade all’interno dell’impresa. Tutto questo contribuisce, in maniera più o meno diretta a generare un clima aziendale più trasparente e meritocratico.

Un’ulteriore riflessione che si collega fortemente alla dimensione psicologica può essere fatta prendendo in considerazione direttamente lo strumento tecnologico che rende possibile l’introduzione di ambienti collaborativi nell’organizzazione. Le piattaforme digitali che entrano in gioco all’interno dei processi di definizione di social e digital collaboration, rappresentano di fatto dei medium. Riva (2008) rileva come i nuovi media portino sempre con sé quattro caratteristiche peculiari legate – appunto – al passaggio da un’informazione analogica a una digitale. Queste caratteristiche sono:

  • Modularità: riguarda la possibilità di scomporre il contenuto in una serie di elementi discreti (detti appunto moduli) ed è il coronamento della separazione tra i contenuti e il supporto fisico del medium.
  • Interattività: la possibilità di fruire il contenuto mediante la navigazione tra una serie di nodi che sono collegati tra loro.
  • Automazione: la possibilità di svolgere azioni in automatico, senza che l’utente ne sia necessariamente consapevole.
  • Variabilità: la possibilità che i nuovi media possiedono di essere riutilizzati e impiegati in modi differenti, producendo più versioni dello stesso oggetto.

L’introduzione di un medium all’interno di una cultura non implica una semplice rivoluzione tecnologica, ma, come sostenuto anche da Mantovani (1995) una vera e propria riconfigurazione delle opportunità di mediazione culturale a disposizione dei soggetti. Ancora una volta, e casomai ce ne fosse ancora bisogno, viene sottolineata l’importanza che la cultura gioca all’interno di processi di trasformazione di questo tipo. L’introduzione di un medium all’interno della situazione esperita dai soggetti – infatti – li impone e li obbliga ad adattarsi al cambiamento. Sempre Mantovani (1998) riprende l’interessante metafora del bastone del cieco elaborata da Gregory Bateson nel 1972 all’interno del suo celebre volume Verso un’ecologia della mente: il bastone di Bateson (il medium dei giorni nostri)

è una protesi che filtra l’informazione disponibile e rende accessibili solo determinate esperienze. Tutti noi siamo cechi, in un certo senso, ed esploriamo la realtà con l’aiuto di strumenti, gli artefatti, attraverso cui conosciamo le cose e agiamo nel mondo” (Mantovani, 1998 pp. 121-122).

In questo senso le piattaforme digitali di social collaboration possono essere lette non solo come un medium, ma come un’affordance in grado di fornire all’utente una vasta serie di potenzialità esplorabili che prima non erano nemmeno ipotizzabili.

Un altro concetto fondamentale per la comprensione dell’esperienza e di come questa viene modificata dai media digitali è quello di interfaccia. L’interfaccia può essere definita come

l’insieme di caratteristiche del medium che si pone in mezzo tra i diversi utenti consentendogli di raggiungere la propria intenzione” (Riva, 2008).

Ll’interfaccia assume una dimensione fondamentale e richiede una riflessione specifica non solo perché responsabile di come – effettivamente – è costruita l’intera esperienza, ma anche perché in grado di inibire o facilitare l’attuazione delle intenzioni all’interno del medium stesso [2]. L’interfaccia ha poi una funzione anche sulle informazioni che l’utente desidera fruire, attraverso la loro presentazione – infatti – guida l’utente nella scelta di ciò che deve essere colto dalla sua attenzione orientando la lettura della realtà che lo circonda. Riva (2008) rileva come – poi – l’interfaccia nei media digitali assuma caratteristiche specifiche che la portano a separarsi dal medium stesso e a porsi come una sorta di meta-medium, essendo caratterizzata da dimensioni fisiche, simboliche e pragmatiche proprie.

In sintesi si può dire che l’interfaccia all’interno dell’universo dei media digitali ricopra tre ruoli fondamentali:

  1. Rappresenta le caratteristiche del medium attraverso un modello.
  2. Rende “visibili” gli oggetti digitali contenuti al suo interno.
  3. Facilita l’uso mediante un’opera di filtro e selezione degli stimoli e dei contenuti.

Gli ambienti digitali possono essere, poi, analizzati alla luce della teoria dell’inter-azione situata che consente di comprendere meglio come i processi comunicativi e relazionali siano influenzati dall’essere all’interno di una situazione “aumentata” dai media.

Cercando di riassumere i concetti alla base di questa teoria, Riva (2008) chiarifica le dimensioni fondamentali che entrano in gioco durante una comunicazione mediata.

  • Intenzione: ogni comportamento è espressione di una complessa rete intenzionale organizzata su più livelli e messa in atto mediante una pluralità di canali, questa definizione è un’integrazione delle posizioni di Anolli (2006) e Pacherie (2008) con quelle della pragmatica della comunicazione (Watzlawick, Beavin e Jackson 1971). Le intenzioni sono una struttura dinamica organizzata su più livelli, questa si sviluppa gerarchicamente secondo tre fasi specifiche:
    • le intenzioni motorie (prensione, contrazione…): sono innate e la loro soddisfazione è data dall’azione stessa, l’oggetto di queste intenzioni è sempre il “semplice” movimento del corpo;
    • le intenzioni prossimali: nascono come combinazione di diverse intenzioni motorie dirette verso un oggetto del mondo presente, la loro soddisfazione dipende dal rapporto tra il contenuto intenzionale (prendere la macchina fotografica) e l’oggetto del mondo reale a cui è diretto (la macchina fotografica);
    • le intenzioni distali: sono composte da una catena d’intenzioni motorie e prossimali dirette verso un oggetto che può non far parte del mondo reale ma dell’universo del possibile.

La soddisfazione delle intenzioni motorie e prossimali riguarda sempre il rapporto tra il soggetto, il corpo e il mondo degli oggetti. La verifica delle intenzioni distali – invece – è sempre “situata”, in riferimento al rapporto tra il soggetto, le sue rappresentazioni e i suoi mondi possibili.

Accanto al concetto d’intenzione e del suo ruolo specifico nell’esperienza del soggetto, la teoria dell’inter-azione situata richiede l’ingresso in gioco di altri concetti ugualmente importanti, questi assunti riguardano la capacità di cogliere gli stimoli provenienti dall’ambiente (affordance) e la sensazione che sperimenta il soggetto (presenza e presenza sociale). Con il termine affordance s’intende l’opportunità di azione offerta dall’ambiente all’utente, una sorta d’invito – cioè – che l’ambiente rivolge a essere usato in un determinato modo . Le affordance si suddividono in due categorie:

  • Dirette: se sono il risultato di un flusso d’informazione. Sono stabili e non si modificano se non cambiando le proprietà fisiche dell’oggetto
  • Mediate: risultato di un’interpretazione che il soggetto attribuisce all’ambiente; a caratterizzare questo tipo di affordance è invece la sua relatività, infatti, è il risultato sia del significato attribuito all’oggetto, sia dell’analisi del contesto

L’affordance ha quindi carattere dinamico ed è il risultato di un’interpretazione di ciò che l’utente è in grado di cogliere dall’ambiente e non solo di ciò che l’ambiente (reale o digitale) è in grado di offrirgli.

Ma cosa ne è dell’esperienza del soggetto?  Quali sensazioni è possibile sperimentare all’interno di un ambiente digitale? Per rispondere a queste domande è possibile introdurre due concetti che forniscono una dimensione chiara di dove si collochi l’esperienza del soggetto all’interno di situazioni in cui entrano in gioco i media digitali.

  • Presenza: con questo termine s’intende la sensazione di “essere” all’interno di un ambiente fisico o digitale, che risulta dalla capacità/possibilità di attuare le proprie intenzioni (Riva, 2008: p. 127). Si divide, anch’essa, in tre livelli fondamentali:
    • protopresenza: ovvero, la capacità di attuazione delle intenzioni motorie attraverso il solo movimento del corpo;
    • presenza nucleare: la capacità – cioè – di attuazione delle intenzioni prossimali attraverso l’identificazione delle affordance dirette;
    • presenza estesa: capacità di attuazione delle intenzioni distali, attraverso l’identificazione delle affordance mediate.
  • Presenza sociale: la sensazione di “essere con altri da Sé” all’interno di un ambiente fisico o digitale, che risulta dalla capacità/possibilità di comprendere le intenzioni degli altri (Riva, 2008: p. 49). Anche in questo caso si possono distinguere tre differenti livelli:
    • proto-presenza sociale: la capacità di riconoscimento delle intenzioni motorie, che permettono al Sé di riconoscere un Altro intenzionale;
    • presenza sociale oggettuale: la capacità di riconoscimento delle intenzioni motorie e prossimali che consente al Sé di riconoscere un Altro la cui intenzione è rivolta verso di lui;
    • presenza sociale empatica: la capacità di riconoscimento delle intenzioni motorie, prossimali e distali, che consente al Sé di riconoscere un Altro le cui intenzioni corrispondano a quelle del Sé.

La teoria dell’inter-azione situata, quindi,

suppone che la coerenza dell’azione non sia spiegata adeguatamente da schemi cognitivi preconcetti, né da norme sociali istituzionali. Piuttosto, l’organizzazione dell’azione situata è una priorità emergente delle interazioni momento per momento degli attori” (Riva, 2008: p. 90).

Essere presenti all’interno di una specifica situazione riveste un ruolo importantissimo per l’apprendimento e per i processi di conoscenza ad esso legati: l’essere umano è tale in quanto immerso sempre in una situazione, in un ambiente che ne determina i confini e le possibilità. La situazione formativa e l’esperienza di apprendimento che ne deriva (sia essa auto-diretta dal soggetto o etero-diretta) è sempre la combinazione di più elementi che concorrono a determinare uno “sfondo” specifico (tempi, modalità, azioni, vincoli, relazioni…) all’interno del quale si muovono i soggetti (Reggio, 2003). A livello organizzativo questo legame si esplica molto bene nella relazione tra gestione della conoscenza e piattaforme collaborative e/o di apprendimento digitale.

Più in generale, sul duplice rapporto e influenza tra media (canali digitali e non) e cultura, esperienza del soggetto è stato scritto parecchio. Tra le posizioni maggiormente interessanti e in linea con la riflessione presentata all’interno di questo lavoro vi è sicuramente quella di Huges, che afferma:

un sistema tecnologico può essere la causa o l’effetto: può influenzare la società o essere influenzato da essa. Man mano che crescono e diventano più complessi, i sistemi tendono più a influenzare che a essere influenzati. Per questo motivo, il momento dei sistemi tecnologici è un concetto che può essere collocato a metà strada tra i poli del determinismo tecnologico e del costruttivismo sociale” (Hughes, 1994: pp. 103-104).

In questa stessa direzione si collocano anche le riflessioni del più recente modello bi-circolare bi-direzionale sviluppato da Antonietti & Colombo (2008) inizialmente introdotto per spiegare il rapporto tra studenti e Computer Supported Learning Tools (CSLT), ma il cui impianto si presta molto bene a descrivere il rapporto tra nuove pratiche, rappresentazioni mentali degli utilizzatori e media digitali in generale. Tale modello consente di tenere in considerazione come le rappresentazioni e le credenze (implicite o esplicite) delle persone circa il mezzo che utilizzano, influenzino concretamente i processi che sono attuati; al contempo, sottolinea anche le dinamiche bi-direzionali esercitate dal medium o dall’uso sull’utente e viceversa. La novità e insieme il pregio di questo modello è di porre l’accento su una dimensione spesso non considerata nelle ricerche che è quella relativa alle credenze implicite delle persone riguardo ad un determinato oggetto (tecnologia), sottolineandone il ruolo fondamentale sia nell’accettazione sia nell’utilizzo del nuovo strumento

Provando, quindi, a tracciare una sintesi di quanto espresso in queste prime pagine possiamo sostenere come l’influenza tra tecnologia, media ed esperienza umana sia una storia costellata da rapporti circolari e da feedback retroattivi più che da nessi di causalità lineare. L’analisi del rapporto tra uomo e tecnologia deve dunque – come sostenuto anche da Watzlawick (1976) – integrare le differenti prospettive al fine di allargare il più possibile l’orizzonte di comprensione.

A titolo conclusivo di questa breve rassegna, risulta quindi evidente il contributo fattivo che la psicologia della comunicazione può fornire nella comprensione dei contesti digitali e in particolar modo nel supportare il percorso di transizione dalle organizzazioni tradizionali a modelli maggiormente flessibili e agili basati sulla collaborazione e su una dimensione maggiormente umana, culturale e centrata sulla qualità dell’esperienza che viene percepita. In questo senso la psicologia della comunicazione può rappresentare sia il veicolo per comprendere al meglio i vari termini in gioco sia per supportare un cambiamento che sia più semplice ed efficace.

Bibliografia e riferimenti consultati

Anolli L. (2006), Fondamenti di psicologia della comunicazione, Il Mulino: Bologna

Antonietti A., Colombo B., (2008), Computer-supported learning tools: a bi-circular bi-directional framework, New Ideas in Psychology, 26, pp. 120-142

Hughes T.P. (1994), Technological momentum, in Smith M.R. e Leo M. (a cura di), Does technology drive history? The dilemma of technological determinism, MIT press: Cambridge, pp. 101-114

Lave’ J., Wenger E. (1991), Situated Learning: Legitimate Peripheral Participation, Cambridge University Press: Cambridge

Lipari D. (2009), La “comunità di pratica” come contesto di apprendimento. Personale e Lavoro, n. 509 pp. 24-26

Riva G. (2008), Psicologia dei nuovi media, Il Mulino: Bologna

Salanova M., Agut S., Peiro’ J. M. (2005), Linking Organizational Resources and Work Engagement to Employee Performance and Customer Loyalty: The Mediation of Service Climate. Journal of Applied Psychology, Vol 90(6)

Schein E. (1990), Cultura d’azienda e leadership, Guerini e Associati: Milano

Watzlawick P., Beavin J.H., Jackson D.D.  (1976), Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio: Roma

Wenger E. (2006), Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità, Raffaello Cortina Editore: Milano


[1] Su questo tema risulta estremamente significativa la citazione di Lew Platt sul sistema di knowledge management di HP, la famosa azienda produttrice di PC: “If only HP knew what HP knows, we would be three times more productive”. Per maggiori informazioni e una trattazione più approfondita del tema knowledge management all’interno di HP si rimanda a https://www.researchgate.net/publication/235269396_If_only_HP_knew_what_HP_knows_The_roots_of_knowledge_management_at_Hewlett-Packard

[2] Sull’importanza dell’interfaccia e della user experience all’interno di portali digitali di collaboration, intranet e – più in generale – di siti web è stato scritto parecchio. Tra i report e le fonti degne di nota si segnala, per approfondimenti, il lavoro che – ogni anno – Nielsen Group rilascia sulle Intranet: https://www.nngroup.com/reports/intranet-design-annual/

Le nostre aziende se la passano tutt’altro che bene!

E’ questa l’impressione, assolutamente confermata, che emerge da moltissimi report internazionali e nazionali che mettono in luce alcune delle mancanze fondamentali che stanno impedendo alle imprese di costruire un orizzonte di senso esteso in grado, non solo di generare risultati di business significativi, ma di ingaggiare in modo valido dipendenti e clienti.

Questo processo è stato amplificato da una serie di sfide che si è affacciata da qualche anno sul mondo organizzativo: in primo luogo la vita media delle nostre organizzazioni si è notevolmente accorciata. Imprese che fino a qualche anno fa dominavano il mercato non esistono più (Blockbuster, Nokia, Kodak sono solo alcuni degli esempi più famosi) e altre, nate solo qualche anno fa, regnano incontrastate sia nei mercati finanziari sia nelle crescite esponenziali che le caratterizzano (Facebook, Uber, AirBnB e Netflix solo per citarne alcune). Il tema però ha risvolti molto più ampi e riguarda una effettiva incapacità delle organizzazioni nel gestire i processi chiave che ne costituiscono la struttura stessa.

In primo luogo non siamo in grado – come organizzazioni – di gestire i nostri dipendenti, secondo le analisi di Gallup [1], la maggior parte della forza lavoro è attualmente dis-ingaggiata, e rema contro i principi e i valori dell’organizzazione di cui fa parte: è solo il 13% dei dipendenti a partecipare in modo proattivo alla costruzione di valore dell’impresa. Non siamo in grado nemmeno di gestire la conoscenza: il 50% del lavoro collaborativo, secondo McKinsey, va sprecato e sempre su questo tema, IDC sottolinea come ¼ della settimana lavorativa venga attualmente speso nel trasformare conoscenza (parliamo di circa 5.6 milioni di dollari all’anno per ogni 1.000 dipendenti). La conoscenza rappresenta oggi uno dei pilastri fondamentali delle organizzazioni ed è profondamente connessa al loro modo di operare e alla capacità di gestire il mercato: non è un caso che si parli sempre più spesso di knowledge worker: si tratta della maggior parte della forza lavoro di oggi, persone che – quotidianamente – gestiscono e scambiano conoscenza per generare valore per se stessi e per le imprese di cui fanno parte. E’ quindi evidente che una inefficienza così elevata nella gestione della conoscenza all’interno delle organizzazioni non può che portare a un danno economico estremamente ingente.

Dal punto di vista dell’innovazione le aziende di oggi stanno avendo non pochi problemi nella creazione di nuove idee che permettano loro di generare vantaggio competitivo: da un lato la crescente pressione del mercato (e dei competitor che spesso provengono da un settore completamente differente [2]) e dall’altro, l’impossibilità di rimanere allineati alla velocità con la quale si muovono i consumatori con solo il proprio ufficio di Ricerca e Sviluppo. Non è un caso che i brand maggiormente maturi abbiano iniziato un percorso di trasformazione digitale che abbattesse le barriere canoniche tra interno ed esterno dell’azienda abilitando i clienti a partecipare in modo attivo ai processi di innovazione. [3]

Le organizzazioni non sono in grado nemmeno di gestire le eccezioni ai processi, come sostengono Hagel e Brown:

“While 95% of IT investment goes to support business process (to drive down costs), most employee time isn’t spent on process but exceptions to process”

lontani sono – infatti – i tempi in cui le aziende potevano basarsi sull’assioma di Henry Ford riportato anche nella sua biografia del 1922:

“Ogni cliente può ottenere una Ford T di qualunque colore desideri, purché sia nero. […]”;

oggi la richiesta di personalizzazione del consumatore raggiunge la sua massima espressione e si riflette su tutti gli aspetti organizzativi. Offrire servizi sempre all’altezza delle richieste e delle aspettative del modello di consumatore che è presente oggi sul mercato diviene una sfida complessa e articolata che non sempre le organizzazioni sono in grado di cogliere appieno.

Questo nuovo modello di consumatore, molto più esigente, molto più informato e molto più consapevole delle sue scelte di acquisto e di consumo, ha molta più voce rispetto al passato (i social media ne sono l’espressione principale) e riesce a stabilire con i brand un relazione molto più paritetica basata su fiducia e trasparenza. Quando questi due assunti vengono a mancare la relazione non solo si interrompe, ma può radicalmente trasformarsi e mettere in crisi l’intera reputazione dell’azienda.

Fiocca et alii (2016) nel volume Brand Experience, relazioni impresa-cliente e valore di marca (citato in G. Besana – 2016 –  Brand engagement e social customer. La relazione tra azienda e consumatore nell’era digital: Il caso Oreo) definisce e riassume in questo modo i comportamenti che caratterizzano questo nuovo modello di consumatore:

  • Frenesia: il nuovo consumatore è un soggetto volubile, difficile da attirare e da coinvolgere, ha un livello di attenzione disperso e le forme relazionali e comunicative alle quali siamo abituati non sono spesso efficaci per coinvolgerlo.
  • Competenza: il consumatore di oggi è chiaramente più informato e più esperto, molto più complesso risulta quindi il processo di costruzione dei contenuti che stanno alla base del suo coinvolgimento
  • Atteggiamento esigente, ma al tempo stesso disincantato: il nuovo consumatore pretende che il brand sia in grado di rispondere appieno alle sue esigenze in termini qualitativi (e non solo quantitativi come siamo stati abituati per anni). Si tratta di un nuovo modello di soddisfazione del consumatore completamente differente. Il cliente è consapevole e pretenzioso.
  • Aggregazione e community: i consumatori tendono – in modo spontaneo – ad aggregarsi in gruppi con i quali condividere emozioni, interessi, pensieri e ricercare informazioni sul brand. Le community che sorgono in rete diventano veicoli fondamentali di informazioni per i brand che sanno ascoltare [4]
  • Selettività: il nuovo modello di cliente che stiamo raccontando adotta anche comportamenti selettivi, dimostrando capacità decisionale e autonomia nella definizione dei brand che intende utilizzare e dei quali intende circondarsi
  • Integrazione: il social customer si aspetta una completa integrazione dell’esperienza offerta dal brand, è per questo motivo che si parla di multicanalità e di esperienza utente in senso esteso

Iron customer

E’ in questo scenario che si innesta il ruolo della social e digital collaboration e della creazione di un nuovo modello di azienda che riparta e riconsideri al centro dei propri processi il ruolo – costitutivo e centrale – dei proprio dipendenti. Con social collaboration intendiamo, infatti:

un insieme di strategie, processi, comportamenti e piattaforme digitali che consentono a gruppi di persone all’interno dell’azienda di connettersi, interagire, condividere informazioni e lavorare ad un comune obiettivo di business [5]

Si tratta quindi di un processo che rivede le logiche organizzative secondo alcuni principi fondamentali:

  • Non esistono più barriere tra interno ed esterno dell’organizzazione
  • L’azienda ha come scopo ultimo quello di massimizzare lo scambio e la co-creazione di valore tra tutti gli attori coinvolti (siano essi partner, dipendenti, clienti o fornitori esterni)
  • Il dipendente e il cliente sono intimamente connessi e dialogano in una logica inside-in e outside-out
  • Il modo di lavorare cambia radicalmente e rende l’organizzazione più efficiente, più agile e in grado di rispondere al meglio alle sfide del mercato
  • Il potere è decentrato e si affermano modelli di leadership basati sulla competenza e sui singoli progetti
  • L’organizzazione è adattiva e diventa in grado di cambiare la propria configurazione a seconda delle sfide che il consumatore e il mercato impongono

In sostanza si tratta di un modo di lavorare completamente nuovo che rimette al centro di tutti i processi le persone, siano essi dipendenti interni all’impresa o clienti esterni.


[1] Per maggiori informazioni sulle statistiche di Gallup consigliamo il sito ufficiale: http://www.gallup.com/home.aspx

[2] In questo senso basti pensare alla rivoluzione introdotta nel mercato dei trasporti da Uber (https://www.uber.com/it/) o da Apple nel mondo della telefonia e degli smartwatch (http://www.apple.com)

[3] Per maggiori informazioni in questo senso si vedano gli esperimenti delle piattaforme di innovazione collaborativa volute da Lego (https://ideas.lego.com/) e Starbucks con la sua MyStarbucks Idea (http://mystarbucksidea.force.com/)

[4] Non è un caso che moltissime organizzazioni tra le maggiormente mature abbiano messo in atto strategie di web monitoring e social media listening per utilizzare le informazioni spontaneamente condivise dai consumatori per migliorar e il proprio prodotto o servizio. L’importanza e la tendenza naturale degli utenti a unirsi all’interno di community gioca un ruolo fondamentale – come vedremo – anche nella dimensione interna all’azienda e non solo in riferimento ai propri clienti

[5] La definizione è riportata nella Social Collaboration Survey 2014 (http://socialcollaborationsurvey.it/) di Stefano Besana ed Emanuele Quintarelli

La tecnologia non tiene lontano l’uomo dai grandi problemi della natura, ma lo costringe a studiarli più approfonditamente.
 (Antoine de Saint-Exupéry)

I cambiamenti che le tecnologie digitali hanno vissuto – e stanno vivendo – in questi anni impongono una seria riflessione circa le modalità d’interazione che esse, quotidianamente, instaurano con gli utenti che ne fanno uso. Se fino a qualche anno fa il digitale (in senso ampio) poteva essere considerato appannaggio di pochi, oggi è una realtà estremamente pervasiva delle nostre vite che tocca tutti i campi del sapere, dell’economia e del nostro modo di fare impresa ed educazione oggi [1].

Non solo il digitale è diventato appieno parte della nostra vita e del nostro modo di esperire il mondo, ma il confine tra supporti digitali e realtà si è fatto molto più labile.

E’ proprio su questa sottile linea di confine che si colloca l’Augmented Reality. La Realtà Aumentata o mixed reality o – ancora – augmented reality consiste, infatti, nella sovrapposizione – all’interno del medesimo campo visivo – di due layer informativi: uno reale e uno virtuale (Riva, 2008). L’integrazione dei due livelli – realizzata mediante un device appositamente configurato [2] – permette di ottenere uno “strato” maggiore d’informazioni e consente una migliore interazione con l’ambiente che ci circonda. Klopfer (2008), riprendendo gli studi di Milgram e Kishino (1994) identifica la Realtà Aumentata come una realtà nella quale gli elementi virtuali sono sovrapposti a quelli reali, collocandola, in questo modo, all’interno di un continuum che vede da un lato il piano esclusivamente reale e dall’altro quello completamente virtuale.

La Realtà Aumentata si pone, quindi, a metà strada tra un ambiente del tutto virtuale e un ambiente reale, in cui però gli elementi del secondo ambiente sono prevalenti rispetto a quelli del primo (Klopfer, 2008).

A sua volta la Realtà Aumentata può differenziarsi in lightly augmented (leggermente aumentata), se la presenza d’input del mondo reale è elevata o heavily augmented (consistentemente aumentata), se invece a prevalere sono gli elementi del mondo virtuale. In questo secondo caso a essere presi come esempio da Klopfer sono quelle tipologie di AR che si basano sull’utilizzo di elmetti, caschi immersivi o dispositivi indossabili che funzionano in maniera analoga a quanto si è visto per la VR. Questo secondo continuum che si innesta sul piano dell’immersività permette di trarre indicazioni anche relativamente al tipo di esperienza che viene proposta ai soggetti che si differenzia molto a seconda del differente grado di immersività a cui sono sottoposti.

In realtà – come lo stesso Klopfer sottolinea – il termine AR nell’uso quotidiano e maggiormente diffuso è utilizzato per definire semplicemente la commistione de due ambienti: virtuale e reale.

Milgram
Figura 1 – Il continuum tra ambienti virtuali e ambienti reali (Klopfer, 2008: p. 92)

Se fino a qualche anno fa l’AR era considerata un terreno di sperimentazione riservato a pochi esperti del settore, grazie all’avvento sul mercato – tra le altre applicazioni – di Pokémon Go [3] questa tecnologia è divenuta, nel giro di poche settimane estremamente mainstream. La diffusione massiva e l’interesse crescente circa questo approccio impone nuove riflessioni sul fenomeno e una maggiore attenzione alle possibili applicazioni che esulino dal contesto videoludico e di intrattenimento e riguardino più da vicino dimensioni educative, di benessere e di miglioramento delle condizioni della società nella quale viviamo.

Pokemon

Figura 2 – Ambiente di gioco di Pokémon Go, in cui è ben visibile l’integrazione del layer digitale (in cui appaiono gli elementi di gioco) con la realtà fisica

L’applicazione di questa tecnologia ha avuto, infatti – in particolar modo negli ultimi anni – risvolti eminentemente pratici legati alla comunicazione e a strategie più legate al marketing e alla pubblicizzazione di prodotti: tuttavia, proprio come per la Realtà Virtuale (VR) un filone interessante – ancora immaturo e in via di sviluppo – si colloca all’interno della formazione e dell’addestramento professionale. L’analisi della letteratura fa emergere in particolar modo un impiego dell’AR nel caso di specifiche professioni che richiedono assistenza immediata o prevedono sperimentazioni che precedano l’applicazione concreta (aviazione, medicina, apparati militari…).

Qual è, dunque il contributo specifico che l’AR è in grado di fornire, posto che vi sia, ai processi di apprendimento? Qual è la sua possibile applicazione in contesti educativi e di empowement della persona?

Augmented Reality e processi di apprendimento

Un filone molto interessante, e in forte crescita, nell’ambito della letteratura che negli ultimi anni ha trattato da vicino il rapporto tra AR e apprendimento, è quello dell’applicazione della Realtà Aumentata in ambito medico: sperimentazioni a cavallo tra apprendimento, training on-the-job, e assistenza real-time. Gli studi di Botden et alii (2009) mettono in evidenza – per esempio – gli enormi vantaggi che l’AR permette di ottenere nel caso di operazioni in laparoscopia. Nelle sperimentazioni eseguite l’AR consente di ottenere migliori performance sia sul compito sia sull’apprendimento della tecnica operatoria in generale, grazie alla capacità di fornire un feedback aptico [4] in tempo reale ai chirurghi. In questo senso l’AR, collocandosi a metà strada tra un tipo di operazione condotta in Realtà Virtuale e una del tutto reale, permetterebbe anche di guidare i medici, passo dopo passo, durante la procedura diminuendo il loro livello di ansia e agendo come una sorta di “manuale d’uso” dell’intera operazione (Botden et al., 2009). Oltretutto con costi sensibilmente inferiori rispetto alla simulazione in ambienti completamente virtuali, che avrebbero come svantaggio ulteriore anche quello di essere poco collocati nella realtà e troppo “sperimentali”.

Gli autori riassumono i vantaggi delle tre ipotesi (Realtà Fisica, Realtà Aumentata e Realtà Virtuale – si veda Figura 4) in una tabella che mostra in modo molto semplice ed evidente i vantaggi e gli svantaggi delle differenti soluzioni impiegabili.

Augmented

Figura 4 – Le differenti tecniche di simulazione a confronto (Botden et al., 2009: p. 1697).

Le ricerche e gli studi di Alan Craig (2007) – direttore associato dell’Human-Computer Interaction Institute for Computing in Humanities, Arts and Social Science dell’università dell’Illinois – mettono in luce come l’AR possa essere utilizzata per migliorare l’interazione con i libri di testo scientifici. L’autore dimostra come con l’installazione di semplici marker e l’utilizzo di una comune web-cam sia possibile realizzare dei libri di testo interattivi di grande fascino ed efficacia. Gli studi in questo senso mostrano – infatti – come questi volumi, oltre ad avere un appeal molto maggiore di un libro di testo comune siano anche in grado di aiutare la comprensione e la modellizzazione di concetti astratti e complessi. Non è difficile immaginare come e di quanto sarebbero facilitati i processi di comprensione di studenti che fossero in grado, simultaneamente alla lettura della spiegazione di com’è composta la crosta terrestre – ad esempio – di visualizzare effettivamente un modello tridimensionale della terra e di poter interagire manualmente con l’oggetto digitale (Craig, 2009).

Per meglio comprendere come funziona un libro di questo tipo è possibile dare uno sguardo alle immagini sotto riportate che mostrano le due visioni di una stessa pagina: una normale (Figura 5) e l’altra in “modalità AR” (Figura 6). [5] Nel primo caso l’immagine presentata è una semplice stampa della figura che risulta occupare le sole due dimensioni che solitamente occupa un’immagine stampata; nel secondo caso – in modalità AR – la figura stampata acquisisce una dimensione aggiuntiva permettendo di essere manipolata e consentendo l’interazione diretta con la stessa fotografia. Com’è possibile notare il libro è sempre e comunque fruibile in una modalità tradizionale in modo che l’esperienza classica e ben nota di lettura di un libro di testo non venga meno, ma possa solo essere – per l’appunto – aumentata e migliorata.

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Figura 5 – Il libro come appare normalmente senza l’impiego della web-cam. E’ visibile solo la stampa della figura in due dimensioni.

Per poter fruire un libro di questo tipo è sufficiente l’impiego di una web-cam e di un PC (o in alternativa di un visore apposito o di un device mobile di ultima generazione) che consenta di interpretare correttamente le immagini e dar loro una “forma” differente guardando nel monitor.

I lavori di Craig evidenziano poi anche i vantaggi che gli editori avrebbero nella pubblicazione di libri di questo tipo che – senza nessun costo aggiuntivo – potrebbero essere stampati senza alcuna difficoltà rispetto alla riproduzione di pagine tradizionali.

Anche gli studi di Dünsern [6] e Hornecker (2007) danno evidenza del fatto che i libri in AR presentano notevoli valori aggiunti rispetto alla loro alternativa tradizionale. Con questa modalità di lavoro – infatti – secondo i due autori,  gli “AR Book” permetterebbero di valorizzare l’esplorazione diretta dei contenuti e renderebbero l’attività stessa della lettura più coinvolgente e affascinante soprattutto per i più piccoli. Inoltre faciliterebbero l’applicazione di modelli di apprendimento basati sulla collaborazione e sulla sperimentazione.

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Figura 6 – Il libro in modalità aumentata: con un’esemplificazione della possibile interazione consentita. In questo caso l’immagine è “smontabile” e riconfigurabile a proprio piacimento

Ulteriori lavori di Dünser (2008) mettono in luce come i libri in AR possano essere utilizzati anche per migliorare la capacità di comprensione e di apprendimento di ragazzi con difficoltà di lettura o disturbi dell’apprendimento. Gli studi condotti mostrano, infatti, che gli studenti che hanno sperimentato modalità di lettura in AR sono in grado di ricordare più facilmente i contenuti anche a distanza di tempo rispetto a coloro che hanno fruito gli stessi contenuti in modalità tradizionale. Questo processo sarebbe dovuto a una serie di fattori: in primo luogo l’AR presenta i contenuti in maniera più interattiva e dinamica, catturando l’attenzione dei discenti; in secondo luogo i lettori sono in grado di interagire concretamente con il contenuto che li impegna in un’attività che facilità il ricordo; infine – ma non di minore importanza – l’AR permette la presentazione sfruttando diversi canali, il che consente una maggiore efficacia nella ricezione del messaggio veicolato.

Su questo stesso filone Augment [7] propone differenti soluzioni per gli educatori e gli insegnanti che intendano sviluppare prototipi in realtà aumentata da sottoporre ai propri studenti con vantaggi estremamente elevati in termini di: miglioramento dell’esperienza di apprendimento, migliore coinvolgimento dello studente, possibilità di restituire feedback in tempo reale, possibilità di supportare i contenuti testuali con video e animazioni, in pieno rispetto dei principi di multimedialità e interattività di Mayer e – infine – di personalizzare l’esperienza di apprendimento secondo le esigenze della classe, o – ancora meglio – del singolo studente. All’interno della sezione del sito di Augment dedicata al settore educativo sono presenti numerosi esempi e storie di successo che mostrano in che modo l’AR possa rappresentare un efficace veicolo di apprendimento all’interno di contesti scolastici.

In questa direzione di sperimentazione va anche una ricerca condotta nell’ambito del corso di Psicologia e Nuove Tecnologie della Comunicazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano in cui sono stati utilizzati dei QR Code [8] per fornire una serie d’informazioni aggiuntive a un’esposizione museale (Besana, 2010): l’esperienza ha messo in luce come, con l’utilizzo di marker realizzati con una minima spesa e di un moderno telefono cellulare, fosse possibile rendere più interattiva, piacevole e comprensibile una mostra di strumenti psicologici di inizio ‘900  mostrando l’applicazione e il funzionamento concreto di utensili non proprio intuitivi. I QR Code possono essere considerati una prima forma rudimentale di AR e potrebbero consentire di realizzare libri e supporti “mixed” con costi veramente ridotti e “fai da te”. In questo caso però la fruizione sarebbe penalizzata dal fatto di dover operare un doppio collegamento. I QR Code – infatti – funzionano come i link all’interno degli ipertesti rimandando solamente a un contenuto digitale presente su un supporto differente.

Come anticipato in precedenza, un altro filone di ricerca molto interessante è quello legato alla progettazione di prodotti videoludici con finalità educative. Un’esperienza molto interessante di applicazione dell’AR ai contesti di apprendimento outdoor è stata tentata dal Nesta Future Lab di Londra – oggi fuso con NFER – attraverso l’applicazione Savannah. Come riportano anche gli studi di Klopfer (2008) le esperienze di AR hanno fatto emergere come la dimensione di contatto e di confronto con le realtà sia determinante e fondamentale. I focus group condotti con i ragazzi che hanno preso parte ad alcuni esperimenti di applicazioni AR per l’apprendimento in contesti outdoor hanno messo in evidenza proprio l’importanza di sperimentare in maniera attiva e in prima persona i concetti teorici trattati in precedenza: con l’applicazione dell’AR è stato – infatti – possibile unire una dimensione di apprendimento esperienziale e di sperimentazione attiva con una più teorico-informativa fornita dal layer aggiunto (Klopfer, 2008).

Il miglioramento dei processi di apprendimento, secondo le esperienze di Klopfer, si rifletterebbe anche a livello trasversale su una migliore interazione all’interno dei gruppi di studenti: la sperimentazione condotta – infatti – ha permesso di mettere in luce l’emergenza di dinamiche classiche dei contesti di apprendimento cooperativo con la presenza degli elementi caratterizzanti: interdipendenza positiva, senso di responsabilità individuale, costruzione di dialogo con i pari e via dicendo. L’AR applicata in questo modo sarebbe quindi un valido strumento anche per rafforzare gruppi di lavoro e per promuovere un tipo di apprendimento più interconnesso, interattivo, coinvolgente ed efficace.

Nella medesima direzione vanno gli esperimenti condotti Kamarainen et alii (2016) e del loro utilizzo della AR nel percorso di apprendimento outdoor di alcuni studenti. E’ proprio in questo ambiente – infatti – che la realtà aumentata sembrerebbe giocare un ruolo fondamentale nel miglioramento dell’esperienza complessiva dei discenti.

Se spostiamo l’attenzione dal mondo videoludico a quello professionale è possibile riscontrare tutta una serie di applicazioni dell’AR negli ambiti dell’assistenza in tempo reale e dell’ausilio ad attività manuali ed eminentemente pratiche. E’ in questa direzione che si collocano gli studi di Anastassova e Burkhardt (2009) che dimostrano come l’AR possa essere impiegata all’interno di una comunità di tecnici specializzati e portare notevoli vantaggi. Tra le potenzialità indagate vi sono:

  • La possibilità – per chi la utilizzasse – di “imparare facendo”, cioè di costruire la conoscenza in modo attivo, esplorativo e autonomo a partire direttamente dagli stimoli provenienti dall’ambiente di lavoro.
  • La facilitazione del processo di ricerca da parte dei soggetti in formazione: poiché le informazioni richieste sarebbero proposte dai dispostivi AR nel momento e nel tempo opportuni, senza che sia richiesto nessun tipo di intervento da parte di chi sta lavorando con conseguente diminuzione della possibilità di dispersione dell’attenzione e della concentrazione sul compito.
  • La riduzione delle possibilità di errore, poiché il legame tra concetti e informazioni teoriche e la loro applicazione concreta sarebbe visualizzata immediatamente, facilitando la memorizzazione da parte dei soggetti e rendendo più semplice il recupero delle medesime informazioni in memoria.

Le ricerche di Anastassova e Burkhardt non sono le uniche ad approfondire il legame esistente tra AR e processi di apprendimento, soprattutto nel settore automotive e nella meccanica specializzata. Nella medesima direzione si collocano i lavori di Ong et alii (2008) che individuano i vantaggi dell’AR come strumento da affiancare a operatori specializzati durante lo svolgimento delle loro quotidiane routine di lavoro. Anche in questo caso la Realtà Aumentata sarebbe in grado di diminuire le possibilità di errore esemplificare il lavoro degli specialisti. Il training delle abilità spaziali attraverso VR e AR è mostrato anche dalle ricerche di Dünser et alii (2006).

Queste ricerche sui due differenti versanti di sperimentazione sottolineano l’importanza dell’interfaccia all’interno dei processi assisti da AR: l’interfaccia – che come si è visto si colloca come un meta-medium – deve essere infatti il più trasparente possibile consentendo agli utenti di essere un vero valore aggiunto e non una penalizzazione

Apprendere dall’esperienza: la realtà aumentata come supporto al percorso di crescita della persona

Riflettere sull’apprendimento esperienziale significa muoversi in un contesto informale e non strutturato in cui il “fare” gioca una dimensione fondamentale. Già Wenger (2006) nel suo celebre lavoro sulle comunità di pratica ha sottolineato l’importanza, sia per le organizzazioni sia per gli individui, di cogliere quell’apprendimento inafferrabile, intangibile che rappresenta – però – il vero nucleo di conoscenze che si possiedono. Considerato in questo modo, l’apprendimento diviene un fenomeno emergente che si colloca in un orizzonte di riflessione sulle pratiche e sugli interessi soggettivi delle persone che fanno parte di comunità in cui scambi e relazioni oltreché attività concrete fanno da collante strutturale.

Cercando di risalire alle origini dell’apprendimento esperienziale, all’inizio del Novecento, è possibile trovare tre autori fondamentali: Dewey, Lewin e Piaget.

Le teorie di Dewey sottolineano come l’esperienza educativa sia veramente tale solo quando si stabilisce un rapporto consapevole tra mondo e soggetto; la sola attività non costituisce – di per sé – esperienza. Il fare esperienza implica un cambiamento significativo nella vita e nelle rappresentazioni di un individuo (Reggio, 2003). Lewin teorizza – invece – un processo di ricerca-azione che integri teorie e prassi all’interno dell’universo conosciuto dal soggetto. Piaget, dal canto suo, gioca un ruolo fondamentale nella riflessione che vede il processo di apprendimento come una dimensione indispensabile in grado di consentire al soggetto di entrare in relazione con l’ambiente. Il processo riflessivo di “presa di coscienza” nascerebbe, infatti, da uno “scontro” tra ciò che il soggetto conosce e ciò che acquisisce dall’ambiente (Reggio, 2003).

Le riflessioni di questi autori – in questa sede solo brevemente accennate – divengono fondamentali nel pensiero di David Kolb e nell’elaborazione del suo ciclo dell’apprendimento esperienziale, che – come si vedrà in seguito – permette di comprendere meglio in che modo teoria e prassi possano entrare in contatto e in che modo sia possibile generare un apprendimento davvero significativo a partire dall’esperienza vissuta.

Dal punto di vista psicologico l’apprendimento può essere definito come «una trasformazione nel tempo, la quale modifica caratteristiche di natura psicologica intrinseche all’individuo, mostra una certa stabilità e i suoi risultati sono mantenuti con una certa autonomia» (Antonietti & Cantoia, 2010: p. VII).

Kolb, rielaborando i concetti propri delle teorie di Dewey, Lewin e Piaget, propone un modello che consta di quattro fasi principali disposte su un piano circolare:

  • Esperienza concreta
  • Osservazione riflessiva
  • Concettualizzazione astratta
  • Sperimentazione attiva

Durante la sperimentazione in contesti AR la persona vive – prima di tutto – un’esperienza, ma per fare in modo che quell’esperienza lasci qualcosa e si trasformi realmente nel cambiamento duraturo che si è visto essere fondamentale nella definizione di apprendimento, è necessario un passaggio successivo. E’ dunque indispensabile che l’esperienza vissuta sia accompagnata da una riflessione una meta-cognizione e da un lavoro di debriefing, che permetta di recuperare e comprendere quanto fatto in modo da cristallizzare la conoscenza esperita. Questi due livelli di “lavoro” sono coerenti anche con le teorie di Kahneman [9] che suggerisce che il modo migliore per favorire un cambiamento sia di lavorare su entrambi i sistemi che l’essere umano possiede: il sistema 1, legato all’esperienza, all’intuizione e il sistema 2,  basato sul ragionamento e la riflessione.

Apprendimento

Volendo tornare nuovamente ricollegare l’AR a un contesto di sperimentazione attiva e di apprendimento esperienziale possiamo sottolinearne l’efficacia ricollegandoci a quanto sostenuto da Antonietti e Cantoia quando affermano: «i contesti significativi di apprendimento sono quelli che si avvicinano o emulano i contesti reali: si dovrebbe apprendere laddove l’apprendimento viene poi speso; l’apprendimento dovrebbe tradursi nell’elaborazione di prodotti socialmente apprezzabili; l’apprendimento richiede l’interazione genuina – non simulata – tra partner simmetrici in un quadro di distribuzione delle risorse e dei compiti» (Antonietti & Cantoia, 2010: p. 3).

In generale potremmo pensare all’AR anche come uno strumento che ricopra – all’interno dei processi di apprendimento – la funzione di scaffolding [10], si faccia carico, cioè, di:

  1. proporre al discente gli stimoli e il compito da eseguire;
  2. mantenere l’attenzione del soggetto in apprendimento sul compito da eseguire;
  3. semplificare e rendere maggiormente accessibile il compito;
  4. restringere la gamma di azioni che è possibile compiere a quelle che sono pertinenti e utili al fine del raggiungimento dello scopo desiderato per la risoluzione del compito;
  5. mostrare ed esemplificare possibili soluzioni al compito.

Si tratterebbe, dunque, di uno strumento che agisce a più livelli sul processo di apprendimento collocandosi ora come strumento in grado di arricchire l’esperienza, ora come ambiente, ora come tool in grado di aiutare e fornire le direttive necessarie per raggiungere gli obiettivi prefissati.

Conclusioni: quale futuro per l’AR nei processi di apprendimento?

Il discorso condotto fino a questo punto ha voluto porre l’accento su alcune dimensioni fondamentali che legano il rapporto tra l’apprendimento e le tecnologie in realtà aumentata. L’AR si è mostrata, e si sta mostrando, uno strumento efficace non solo per le azioni di marketing e per l’ambito videoludico, ma anche per la gestione dell’intero percorso di apprendimento considerando soprattutto la sua facilità e naturalezza d’uso, la qualità dell’esperienza che ne deriva e gli aspetti di praticità, immediatezza che le sono propri. I diversi esempi rappresentati e raccontati nel presente lavoro di sintesi sul tema, mostrano che l’intuizione è corretta e che la strada intrapresa è quella giusta: una evoluzione tecnologica e una diminuzione dei costi di realizzazione (grazie anche alla proliferazione di app che supportano nella creazione di ambienti in AR) consentono, e consentiranno, a un numero sempre più elevato di educatori di sperimentare queste nuove modalità.

A titolo conclusivo è opportuno sottolineare come il presente lavoro e le riflessioni che, più in generale, sono mosse in questa direzione, non intendano in alcun modo proporre modelli educativi e formativi che si sostituiscano alle tradizionali pratiche ma, bensì, rappresentare uno scenario possibile di applicazione che – in alcuni contesti specifici come quelli illustrati – è in grado di fornire un contributo significativo al percorso di generazione di apprendimenti significativi lungo tutto l’arco della vita.

E’ necessario, dunque, un ripensamento delle logiche classiche al fine di trovare una via di mezzo che riesca a conciliare innovazione e tradizione alla ricerca del migliore degli scenari possibili.

Per concludere con una citazione di Norman:

«la tecnologia ci pone di fronte a problemi fondamentali che non possono essere superati basandoci su quanto abbiamo fatto nel passato. Abbiamo bisogno di un approccio più tranquillo, più affidabile, più a misura d’uomo.» (Norman, 2008: p. 31)

Bibliografia & Riferimenti

Anastassova M., Burkhardt J.M. (2009), Automotive technicians’ training as a community-of-practice: Implications of an augmented reality teaching aid. Applied Ergonomics, 40, pp. 713-721

Antonietti A., Cantoia M., (2010), Come si impara. Teorie, costrutti e procedure nella psicologia, Mondadori: Milano

Besana S. (2010), L’uso del Quick Response (QR) Code come tecnologia didattica: uno studio esplorativo, Tecnologie Didattiche, 51, pp. 34-40

Botden M.B.I.S., Jakimowickz J.J. (2009), What is going on in augmented reality simulation in laparoscopic surgery?, Surg Endosc, 23, pp. 1693-1700

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Craig A., McGrath R.E. (2007), Augmenting Science Texts with Inexpensive Interactive 3D Illustrations, in Internet, URL: https://netfiles.uiuc.edu/a-craig/www/AR/AR_scenario.pdf

Dünser A., Kaufman H., Steinbügl K., Glück J. (2006), Virtual and Augmented Reality as spatial Ability Training Tools, Proceedings of the CHINZ 2006, University of Canterbury, Christchurch, New Zealand, pp. 125-132

Dünser A., Hornecker E. (2007), An observational study of children interacting with an augmented story book, Edutainment ’07 Proceedings of the 2nd international conference on Technologies for e-learning and digital entertainment, in Internet, URL: http://mcs.open.ac.uk/pervasive/pdfs/duenserEdutainment07.pdf

Dünser A. (2008), Supporting low ability reader with interactive augmented reality, Paper presented at the Annual review of cyber therapy and telemedicine: changing the face of healthcare, San Diego

Klopfer E. (2008), Augmented Learning. Research and Design of Mobile Educational Games, MIT Press: Cambridge

Kamarainen A.M., Metcalf S., Grotzer T.A., Brimhall C., Dede C., (2016),  Atom tracker: designing a mobile augmented reality experience to support instruction about cycles and conservation of matter in outdoor learning environments, International Journal of Designs for Learning, Vol. 7, issue 2, pp. 113-130

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Milgram P., Kishino F. (1994), A taxonomy of mixed reality visual displays, IEICE Transactions on Information Systems, 12, pp. 1321-1329

Norman D.A. (2008), Il futuro del design, Apogeo: Milano

Ong S.K., Yuan M.L., Nee, A.Y.C. (2008), Augmented reality applications in manifacturing: a survey, International Journal of Production Research, Vol. 46, N. 10, pp. 2707-2742

Reggio P. (2003), L’esperienza che educa. Strategie d’intervento con gli adulti nel sociale, Unicopli: Milano

Riva G. (1999), Virtual Reality as a communication tool: A socio-cognitive analysis, Journal of Visual Languages and Computing, Vol. 10, pp. 87-97

Riva G. (2008), Psicologia dei nuovi media, Il Mulino: Bologna

Wenger E. (2006), Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità, Raffaello Cortina Editore: Milano


[1] Per sostanziare quanto stiamo affermando è sufficiente dare un’occhiata ai numeri legati alle piattaforme digitali raccontati nell’ottimo report di We Are Social di Gennaio 2017: https://wearesocial.com/blog/2017/01/digital-in-2017-global-overview

[2]  I device che possono essere utilizzati per la sperimentazione dell’AR sono anche molto diversi tra loro e vanno da caschi e occhiali indossabili a semplici display digitali (ad es. quelli dei comuni smartphone) che svolgono la funzione di AR semplicemente inquadrando – mediante fotocamera integrata – la realtà fisica.

[3] Pokémon Go è un prodotto di intrattenimento videoludico sviluppato dalla Nintendo con il supporto della Niantic. Maggiori informazioni sono disponibili sul sito ufficiale: http://www.pokemongo.com/.
Secondo Wikipedia (https://en.wikipedia.org/wiki/Pok%C3%A9mon_Go) il gioco è stato scaricato da oltre 650 milioni di persone (Febbraio 2017) e vanta – ad oggi – 65 milioni di utenti attivi mensilmente (Aprile 2017).

[4] Un feedback aptico è un feedback che è generato da una tecnologia o interfaccia aptica. Con questo temine s’intendono tutti quei dispositivi che, nel momento in cui vengono manovrati sono in grado di fornire una risposta immediata e di restituire una serie di sensazioni: tattili, visive e sonore in grado di connotare localmente l’interazione – In Internet, URL: http://en.wikipedia.org/wiki/Haptic_technology

[5] Le immagini sono tratte dal libro Dr. Jekyll e Mr. Hide realizzate da Martin Kovacovsky, un artista visuale, sul suo sito ufficiale è possibile anche guardare un video dimostrativo, davvero notevole, del funzionamento del libro – In Internet, URL: http://martinkovacovsky.ch/

[6] I lavori di Dünser si possono approfondire anche online sul sito ufficiale dell’HIT Lab di Canterbury (Nuova Zelanda) – In Internet, URL: http://www.hitlabnz.org/Hom, in cui un settore importante di ricerca è dedicato proprio all’impatto che l’AR ha sui processi cognitivi e di apprendimento.

[7] Augment è una end-to-end platform che consente la creazione di modelli 3d in realtà aumentata e vanta diverse applicazioni in ambito organizzativo e scolastico – In Internet, URL: http://www.augment.com/education/

[8] Codice QR (in inglese, QR Code) è un codice a matrice (o codice a barre bidimensionale) creato dalla corporation giapponese Denso-Wave nel 1994. QR deriva da “Quick Response” (dall’inglese risposta rapida), poiché consente una rapida decodifica del contenuto a esso associato. Maggiori informazioni sui QR Code – In Internet, URL: http://it.wikipedia.org/wiki/Codice_QR

[9] A proposito delle teorie dello psicologo e della “lotta” tra esperienza e memoria è possibile anche visionare un interessantissimo talk svolto al TED di qualche anno fa proprio su questi temi: In Internet, URL: http://www.ted.com/talks/lang/ita/daniel_kahneman_the_riddle_of_experience_vs_memory.html

[10] “Scaffolding” significa – letteralmente – “impalcatura” e indica «un insieme di procedure che possono aiutare l’apprendimento in quanto figura esperta, affiancandosi al discente, offrendo a quest’ultimo istruzioni, indicazioni e suggerimenti per compiere in maniera adeguata un’attività» (Antonietti & Cantoia, 2010 p: 95). Le nuove tecnologie didattiche consentono al discente di avvalersi della funzione di scaffolding anche senza la presenza fisica di un esperto.