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Le nostre aziende se la passano tutt’altro che bene!

E’ questa l’impressione, assolutamente confermata, che emerge da moltissimi report internazionali e nazionali che mettono in luce alcune delle mancanze fondamentali che stanno impedendo alle imprese di costruire un orizzonte di senso esteso in grado, non solo di generare risultati di business significativi, ma di ingaggiare in modo valido dipendenti e clienti.

Questo processo è stato amplificato da una serie di sfide che si è affacciata da qualche anno sul mondo organizzativo: in primo luogo la vita media delle nostre organizzazioni si è notevolmente accorciata. Imprese che fino a qualche anno fa dominavano il mercato non esistono più (Blockbuster, Nokia, Kodak sono solo alcuni degli esempi più famosi) e altre, nate solo qualche anno fa, regnano incontrastate sia nei mercati finanziari sia nelle crescite esponenziali che le caratterizzano (Facebook, Uber, AirBnB e Netflix solo per citarne alcune). Il tema però ha risvolti molto più ampi e riguarda una effettiva incapacità delle organizzazioni nel gestire i processi chiave che ne costituiscono la struttura stessa.

In primo luogo non siamo in grado – come organizzazioni – di gestire i nostri dipendenti, secondo le analisi di Gallup [1], la maggior parte della forza lavoro è attualmente dis-ingaggiata, e rema contro i principi e i valori dell’organizzazione di cui fa parte: è solo il 13% dei dipendenti a partecipare in modo proattivo alla costruzione di valore dell’impresa. Non siamo in grado nemmeno di gestire la conoscenza: il 50% del lavoro collaborativo, secondo McKinsey, va sprecato e sempre su questo tema, IDC sottolinea come ¼ della settimana lavorativa venga attualmente speso nel trasformare conoscenza (parliamo di circa 5.6 milioni di dollari all’anno per ogni 1.000 dipendenti). La conoscenza rappresenta oggi uno dei pilastri fondamentali delle organizzazioni ed è profondamente connessa al loro modo di operare e alla capacità di gestire il mercato: non è un caso che si parli sempre più spesso di knowledge worker: si tratta della maggior parte della forza lavoro di oggi, persone che – quotidianamente – gestiscono e scambiano conoscenza per generare valore per se stessi e per le imprese di cui fanno parte. E’ quindi evidente che una inefficienza così elevata nella gestione della conoscenza all’interno delle organizzazioni non può che portare a un danno economico estremamente ingente.

Dal punto di vista dell’innovazione le aziende di oggi stanno avendo non pochi problemi nella creazione di nuove idee che permettano loro di generare vantaggio competitivo: da un lato la crescente pressione del mercato (e dei competitor che spesso provengono da un settore completamente differente [2]) e dall’altro, l’impossibilità di rimanere allineati alla velocità con la quale si muovono i consumatori con solo il proprio ufficio di Ricerca e Sviluppo. Non è un caso che i brand maggiormente maturi abbiano iniziato un percorso di trasformazione digitale che abbattesse le barriere canoniche tra interno ed esterno dell’azienda abilitando i clienti a partecipare in modo attivo ai processi di innovazione. [3]

Le organizzazioni non sono in grado nemmeno di gestire le eccezioni ai processi, come sostengono Hagel e Brown:

“While 95% of IT investment goes to support business process (to drive down costs), most employee time isn’t spent on process but exceptions to process”

lontani sono – infatti – i tempi in cui le aziende potevano basarsi sull’assioma di Henry Ford riportato anche nella sua biografia del 1922:

“Ogni cliente può ottenere una Ford T di qualunque colore desideri, purché sia nero. […]”;

oggi la richiesta di personalizzazione del consumatore raggiunge la sua massima espressione e si riflette su tutti gli aspetti organizzativi. Offrire servizi sempre all’altezza delle richieste e delle aspettative del modello di consumatore che è presente oggi sul mercato diviene una sfida complessa e articolata che non sempre le organizzazioni sono in grado di cogliere appieno.

Questo nuovo modello di consumatore, molto più esigente, molto più informato e molto più consapevole delle sue scelte di acquisto e di consumo, ha molta più voce rispetto al passato (i social media ne sono l’espressione principale) e riesce a stabilire con i brand un relazione molto più paritetica basata su fiducia e trasparenza. Quando questi due assunti vengono a mancare la relazione non solo si interrompe, ma può radicalmente trasformarsi e mettere in crisi l’intera reputazione dell’azienda.

Fiocca et alii (2016) nel volume Brand Experience, relazioni impresa-cliente e valore di marca (citato in G. Besana – 2016 –  Brand engagement e social customer. La relazione tra azienda e consumatore nell’era digital: Il caso Oreo) definisce e riassume in questo modo i comportamenti che caratterizzano questo nuovo modello di consumatore:

  • Frenesia: il nuovo consumatore è un soggetto volubile, difficile da attirare e da coinvolgere, ha un livello di attenzione disperso e le forme relazionali e comunicative alle quali siamo abituati non sono spesso efficaci per coinvolgerlo.
  • Competenza: il consumatore di oggi è chiaramente più informato e più esperto, molto più complesso risulta quindi il processo di costruzione dei contenuti che stanno alla base del suo coinvolgimento
  • Atteggiamento esigente, ma al tempo stesso disincantato: il nuovo consumatore pretende che il brand sia in grado di rispondere appieno alle sue esigenze in termini qualitativi (e non solo quantitativi come siamo stati abituati per anni). Si tratta di un nuovo modello di soddisfazione del consumatore completamente differente. Il cliente è consapevole e pretenzioso.
  • Aggregazione e community: i consumatori tendono – in modo spontaneo – ad aggregarsi in gruppi con i quali condividere emozioni, interessi, pensieri e ricercare informazioni sul brand. Le community che sorgono in rete diventano veicoli fondamentali di informazioni per i brand che sanno ascoltare [4]
  • Selettività: il nuovo modello di cliente che stiamo raccontando adotta anche comportamenti selettivi, dimostrando capacità decisionale e autonomia nella definizione dei brand che intende utilizzare e dei quali intende circondarsi
  • Integrazione: il social customer si aspetta una completa integrazione dell’esperienza offerta dal brand, è per questo motivo che si parla di multicanalità e di esperienza utente in senso esteso

Iron customer

E’ in questo scenario che si innesta il ruolo della social e digital collaboration e della creazione di un nuovo modello di azienda che riparta e riconsideri al centro dei propri processi il ruolo – costitutivo e centrale – dei proprio dipendenti. Con social collaboration intendiamo, infatti:

un insieme di strategie, processi, comportamenti e piattaforme digitali che consentono a gruppi di persone all’interno dell’azienda di connettersi, interagire, condividere informazioni e lavorare ad un comune obiettivo di business [5]

Si tratta quindi di un processo che rivede le logiche organizzative secondo alcuni principi fondamentali:

  • Non esistono più barriere tra interno ed esterno dell’organizzazione
  • L’azienda ha come scopo ultimo quello di massimizzare lo scambio e la co-creazione di valore tra tutti gli attori coinvolti (siano essi partner, dipendenti, clienti o fornitori esterni)
  • Il dipendente e il cliente sono intimamente connessi e dialogano in una logica inside-in e outside-out
  • Il modo di lavorare cambia radicalmente e rende l’organizzazione più efficiente, più agile e in grado di rispondere al meglio alle sfide del mercato
  • Il potere è decentrato e si affermano modelli di leadership basati sulla competenza e sui singoli progetti
  • L’organizzazione è adattiva e diventa in grado di cambiare la propria configurazione a seconda delle sfide che il consumatore e il mercato impongono

In sostanza si tratta di un modo di lavorare completamente nuovo che rimette al centro di tutti i processi le persone, siano essi dipendenti interni all’impresa o clienti esterni.


[1] Per maggiori informazioni sulle statistiche di Gallup consigliamo il sito ufficiale: http://www.gallup.com/home.aspx

[2] In questo senso basti pensare alla rivoluzione introdotta nel mercato dei trasporti da Uber (https://www.uber.com/it/) o da Apple nel mondo della telefonia e degli smartwatch (http://www.apple.com)

[3] Per maggiori informazioni in questo senso si vedano gli esperimenti delle piattaforme di innovazione collaborativa volute da Lego (https://ideas.lego.com/) e Starbucks con la sua MyStarbucks Idea (http://mystarbucksidea.force.com/)

[4] Non è un caso che moltissime organizzazioni tra le maggiormente mature abbiano messo in atto strategie di web monitoring e social media listening per utilizzare le informazioni spontaneamente condivise dai consumatori per migliorar e il proprio prodotto o servizio. L’importanza e la tendenza naturale degli utenti a unirsi all’interno di community gioca un ruolo fondamentale – come vedremo – anche nella dimensione interna all’azienda e non solo in riferimento ai propri clienti

[5] La definizione è riportata nella Social Collaboration Survey 2014 (http://socialcollaborationsurvey.it/) di Stefano Besana ed Emanuele Quintarelli

Come ogni anno We Are Social (http://wearesocial.com/it/) ha rilasciato il suo report sullo stato dei Social Media in Italia e nel mondo.
I dati, oltre ad essere molto interessanti e aggiornati a Gennaio 2017, permettono di fare alcune riflessioni sulla portata che il fenomeno Social Media ha oggi.

Di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia: i social media rappresentano, ormai, una realtà pervasiva della nostra vita e difficilmente – indipendentemente ormai dal fattore età – possiamo dire che qualcuno riesca a farne completamente a meno.

Il report completo con tutti i dati è disponibile – a tutolo completamente gratuito – su SlideShare:

Vediamo insieme alcune delle principali statistiche che si ritrovano all’interno del report e che vengono riportati anche all’interno del sito web di We Are Social Italia.

  • Oltre la metà della popolazione mondiale utilizza almeno uno smartphone: il che significa che il mobile rappresenta ormai uno dei trend principali al quale guardare con interesse
  • A conferma di questo 2/3 della popolazione mondiale possiede un telefono cellulare
  • Metà del traffico mondiale passa da telefonini
  • 1/5 della popolazione mondiale negli ultimi 30 giorni ha effettuato un acquisto online
  • Sono 3.7 i miliardi di persone connesse alla rete

Più di 2.8 miliardi di persone utilizzano canali social almeno una volta al mese, e +91% di loro lo fa usando dispositivi mobile: Facebook continua a crescere, e si tratta di un dato molto interessante, visto che – ormai da 10 anni – è la piattaforma – di gran lunga – più usata (se consideriamo tutto il suo ecosistema – che include Instagram, WhatsApp e Messenger – l’audience è costituita da 4.37 miliardi di persone).

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  • Gli utenti mobile sono cresciuti del 30% rispetto all’anno precedente
  • Gli utenti nei social media sono aumentati del 21%
  • Gli utenti da mobile sono cresciuti del 5%
  • Il numero di utenti connessi alla rete è cresciuto del 10%

Sono numeri e trend molto interessanti perché fanno capire come il numero di utenti sia in costante crescita e il trend sia ormai positivo da molti anni a questa parte. Un segnale – questo – molto forte per interpretare anche i cambiamenti che nei prossimi mesi ci troveremo a dover affrontare.

Un altro dato interessante riguarda il tempo speso sui canali social: GlobalWebIndex sottolinea come l’utente medio spende – mediamente – 2 ore e 19 minuti usando piattaforme social ogni giorno.

E l’Italia?
Come si legge:

Durante il 2016, il numero di persone che si sono connesse a internet è cresciuto del 4% rispetto all’anno precedente(39.21 milioni di persone), e dell’11% quello relativo all’uso dei social media (17% se osserviamo le persone che accedono a piattaforme social da dispositivi mobile – per un totale di 28 milioni, che corrisponde a una penetrazione del 47%).

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Sono numeri impressionanti che fanno davvero riflettere e che sottolineano come, anche nel nostro paese, il digitale sia ormai un fenomeno impossibile da trascurare. Vediamo alcuni dettagli:

  • Gli italiani si connettono in maniera molto più frequente rispetto al passato e – anche in questo caso – il ruolo dello smartphone è preponderante
  • I video sono il contenuto che sta crescendo in modo maggiore rispetto al resto: il 31% degli italiani dichiara di guardare video online almeno una volta al giorno
  • La crescita delle piattaforme di direct messaging è impressionante: Facebook Messenger è impiegato dal 33% degli italiani che hanno accesso alla rete
  • Tra le prime 5 piattaforme social, in Italia, le prime 2 sono di messaging
  • il 51% vi accede – ancora una volta – dal proprio smartphone

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Che cosa ci portiamo a casa quindi?

  • I Social Media e il mondo digitale – più in generale – sono un fenomeno pervasivo che ormai non ha più nemmeno senso (posto che lo abbia mai avuto) distinguere dal reale. Già negli anni 90′ Levy sottolineava questo concetto. Il digitale oggi è reale. Più che mai
  • Le organizzazioni non possono più isolarsi ed evitare l’argomento digitale, il consumatore, il dipendente, il futuro cliente si muovono su queste logiche e un allineamento da parte dell’organizzazione è necessario
  • Le strategie digitali devono essere realizzate tenendo in considerazione il business dell’azienda. Cambiare l’azienda non significa utilizzare i Social Media. Il lavoro da fare è molto, molto più ampio e profondo e riguarda la cultura delle persone e dell’azienda stessa
  • I Social Media sono solo un canale, uno dei tanti. Come tale devono essere inseriti all’interno di una più ampia strategia di presenza nel mondo digitale e non. E’ impensabile – oggi – ragionare solo con loro, come è impensabile ragionare senza di loro. Terreste chiusa la vetrina del vostro negozio? Impedireste alle persone di entrare in un concessionario?
  • Passata la fase di hype sul fenomeno social è ora che le aziende si interessino davvero alla trasformazione digitale imposta dal mercato e dai trend che abbiamo commentato. L’interesse crescente nei confronti di questi fenomeno devono porre l’accento su un processo di cambiamento che rimetta al centro le persone e sia fatto PER le persone
  • Il futuro dei Social Media sarà quello di divenire sempre più naturali e sempre più compagni di lavoro quotidiani con i quali ragionare. Le aziende che si interessano al fenomeno – o che si sono interessate al fenomeno in passato – devono cominciare a considerarli come parte integrante del proprio business, non per posizionarli al centro (come fatto da qualcuno in passato) ma per collocarli dove meritano di essere collocati all’interno di un progetto strategico più articolato e complesso
  • Il trend dei social media non va più cavalcato, semmai direzionato laddove i nostri obiettivi di business chiedono di essere portati: lo scopo deve essere quello di creare valore per l’intero ecosistema.
  • Ancora una volta credo che la metafora che maggiormente rende giustizia del fenomeno sia quella del catalizzatore. Se non abbiamo un valore – come brand e come azienda – se non abbiamo un messaggio da comunicare, allora difficilmente il trend del Social Media potrà essere dalla nostra. E’ necessario avere un contenuto forte e una proposta di valore che sia valida per voi veicolarla. I Social Media – in questo senso – non sono molto lontani dalla logica dell’adagio latino rem tene verba sequentur

Mi è capitato di recente di leggere un interessante paper di Edelman Digital (http://www.slideshare.net/EdelmanDigital/edelman-2013-social-media-trends-white-paper) dedicato ai trend emergenti nei social media di questo (prossimo) 2013.
Emergono alcuni spunti e alcune dimensioni interessanti che meritano di essere osservate da vicino: si tratta di 10 trend e punti essenziali che promettono di essere in forte crescita durante il prossimo anno.

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Mobile
Sotto gli occhi di tutti, il mobile è sicuramente uno dei trend principali degli ultimi anni e promette di crescere ancora di più nel prossimo – immediato – futuro. E’ ben il 61% degli utenti smartphone a utilizzare lo strumento per accedere e utilizzare i social media nell’ambito day-to-day. A leggere dal report, alcune dichiarazioni di Mark Zuckenberg suggeriscono che Facebook stessa debba sviluppare – in primo luogo – per piattaforme mobile.
E’ 1/3 di quello totale – infatti – il tempo dedicato all’utilizzo di social network tramite dispositivi mobile.

Applicare la convergenza mediale
Il mobile impatta anche a livello della canonica distinzione tra: earned media, owned media e paid media. Il futuro sarà sempre più vicino alla convergenza e la classica distinzione comincia ormai a perdere di senso e di efficacia esplicativa.

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Amplificare il contenuto
Lo abbiamo già detto molte altre volte, ma è sempre bene ripeterlo: i social media non sono la soluzione, sono – casomai – uno strumento funzionale al raggiungimento di uno scopo. Strutturare intere campagne solamente su un singolo medium non rappresenta una strategia di coinvolgimento. Questi strumenti vanno – piuttosto – nella direzione del divenire catalizzatori, amplificatori.

Storytelling (con immagini, se possibile, grazie!)
Focalizzarsi sul raccontare storie, sul trasmettere emozioni, sul creare un’esperienza utente condivisa. Quello dello storytelling promette di essere uno dei trend e degli aspetti emergenti del prossimo anno, ma non solo: il trend più interessante è quello del visual storytelling. Il ruolo che le immagini all’interno dei Social Network stanno via via assumendo è sempre più importante. Lo dimostrano il lancio di nuovi social verticali dedicati a questo: Pinterest ne è un esempio su tutti, ma anche la recente acquisizione di Instagram da parte di Facebook e la Timeline (che punta molto di più sul ruolo della foto rispetto al passato) sono una dimostrazione chiara di questa tendenza.

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Newsroom
La maggior parte dell’interazione – ultimamente – si gioca nel giro di poche ore, nemmeno più di giorni. Le campagne marketing devono imparare dai social media ad essere maggiormente veloci, efficaci, puntuali e saper improvvisare cavalcando l’onda del momento (quello che è successo con Oreo durante il Super Bowl ne è la palese dimostrazione).

Transforming a trending conversation into a brand-relevant visual that resonates with your audience in hours instead of days is a radical shift in marketing and communications.

In qualche modo il processo di attenzione crescente è legato anche a quello di social media monitoring e listening. La capacità dei brand di ascoltare la rete, intercettare i trend, comunicare in maniera veloce con i propri consumatori si sta rivelando sempre più cruciale e fondamentale. Abbiamo più volte – in questa e in altre sedi – parlato dell’importanza dell’ascolto attivo come primo step – fondamentale – per la costruzione di una social media strategy e del posizionamento del brand nei media digitali.

Investire sugli eventi: amplificarli con i social media
Fenomeni come quello del Second Screen, della Social TV – e simili – ed eventi come il Red Bull Stratos testimoniano l’importanza mediatica e il ritorno di immagine che possono avere gli eventi: specie se sono “social” e sono organizzati secondo le logiche della Social TV e del Second Screen. Una testimonianza tutta italiana? Quello che è successo – in parte – con il Movimento 5 Stelle penso sia un buon esempio.
In questo senso gli eventi possono rappresentare uno degli assett fondamentali su cui investire per andare nella direzione di una relazione continuativa, duratura, efficace e persistente nel tempo con i propri consumatori e clienti finali.

Investire sulle relazioni e sui legami deboli prima del passo successivo
L’algoritmo di Facebook e dei vari Social Network – ne ho già parlato quando ho scritto a proposito della morte del Social Media Marketing – consente solo a una piccola percentuale di fan di vedere e di leggere quello che scriviamo e che postiamo. Per i brand la prima impressione è quella che conta, costruire relazioni passo passo non è affatto semplice, comprare un gruppo di fan su Twitter e su Facebook è molto più facile che creare una strategia di coinvolgimento. Il punto e’ che una strategia funziona e l’altra no.
Come si legge anche nel report:

Brands have 50 chances to make an impression with each fan each year

Deve esserci un preciso senso e un preciso investimento di tempo e di risorse nel generare un coinvolgimento costante con i propri utenti finali.
La soluzione? Procedere per gradi e per step. Conquistarsi il terreno di battaglia un metro dopo l’altro. Con costanza e …dedizione.

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Stimolare l’integrazione one-to-one
Per quanto il tuo brand sia grande non puoi fare tutto da solo. Fornire alle persone e ai tuoi clienti e consumatori un ambiente in cui confrontarsi, scontrarsi e incontrarsi è fondamentale. Le logiche di CoDesign e di CoCostruzione di un prodotto e di un servizio si basano proprio su questo. I brand devono imparare a considerare i propri clienti non solo come qualcuno a cui vendere qualcosa ma come la loro risorsa principale da cui imparare, approfondire e da coinvolgere seriamente e completamente all’interno dei processi aziendali.

Continua a innovare e a giocare con il SEO
Le vecchie tecniche si stanno dimostrando inefficaci e non adatte a rispondere agli stimoli del mutato scenario social. I brand che vogliono continuare a rimanere sulla cresta dell’onda non possono più vivere di rendita ma devono costantemente cambiare logiche e strategie.

Ingaggi gli altri brand
Al pari dei consumatori, il dialogo tra brand è qualcosa da favorire e sostenere. Ci sono esempi molto interessanti. Il caso OldSpice – TacoBell su Twitter è uno di questi per esempio.

OldSpice


 

Di recente, per un grosso e importante cliente internazionale, mi è capitato di prendere in esame lo scenario retail e le grandi aziende internazionali che si stanno muovendo in ambito digital, con maggiore o minore successo.

Il quadro che ne è uscito risulta a tratti molto interessante perché riporta un cambiamento estremamente significativo che è avvenuto e che sta avvenendo sia a livello di scenario generale sia a livello di comportamenti di consumo, ma al tempo stesso un’opportunità di business ancora molto ampia che non sempre viene colta da parte degli attori presenti sul mercato. Nuove sfide ma ancora – forse – strumenti e modelli di lettura non adeguati ai mutati contesti che impediscono un corretto sviluppo di strategie che potrebbero davvero coinvolgere in maniera significativa i consumatori.

In questa sede mi piacerebbe condividere alcune riflessioni che ho maturato e fissare alcuni punti che penso siano interessanti e possano essere di aiuto a ulteriori approfondimenti.

Il Social Customer nello scenario Retail: cosa cambia?

Del Social Customer abbiamo parlato più e più volte in questo e in altri contesti sottolineando il cambio di paradigma e come i comportamenti di consumo degli utenti siano cambiati.

In che senso?
A una rivoluzione nelle modalità di comunicazione ha fatto seguito una ancora più rilevante rivoluzione nei comportamenti. Quello che emerge dai dati è un nuovo tipo di consumatore estremamente attivo nelle piattaforme di social networking come Facebook, Twitter, Youtube, Flickr ed interessato ad una relazione più duratura, profonda e paritetica con il brand. Grazie alla quantità d’informazione e alla possibilità di connettersi con milioni di persone in rete, il social customer è un individuo:

  • Più esigente perché più esperto e costantemente aggiornato sulle ultime caratteristiche del prodotto
  • che crede poco ai messaggi pubblicitari e prima di acquistare preferisce formarsi un’opinione personale in rete
  • che ama condividere feedback e commenti, in particolare quando l’esperienza è stata fortemente negativa
  • che assume che il proprio punto di vista venga ascoltato 24h al giorno, 365 giorni l’anno, indipendentemente dal canale scelto per esprimersi
  • che chiede di vedere il proprio feedback incluso nell’evoluzione di prodotti e servizi
  • utilizza lo smartphone per reperire in qualsiasi momento le indicazioni di cui ha bisogno, specialmente tramite i network di cui fa parte
  • sa di avere una voce con cui parlare in maniera diretta con il brand non solo in qualità di cliente, ma anche come ambasciatore e influencer (nel bene e nel male)
  • che vuole essere rispettato e trattato in modo trasparente forte del peso assunto nella propria cerchia di contatti

Nello specifico riprendo lo schema classico e integro alcune riflessioni che possono essere calzanti rispetto allo scenario retail.

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Per il tipo di riflessioni che verranno fatte è molto interessante sottolineare due dei molti aspetti che lo caratterizzano:

  • La costante connessione al mondo internet attraverso qualunque strumento
  • La tendenza all’acquisto online molto marcata
  • L’utilizzo predominante di smartphone e tablet che vanno a caratterizzare un nuovo tipo di pubblico e di utenti

Se è vero come è vero che è cambiato il consumatore. E’ altrettanto vero che sono mutati anche gli scenari e gli ambienti in cui questo consumatore si muove e risulta quindi di importanza fondamentale per le aziende comprendere questo salto di livello ed evolversi verso scenari

Dai consumatori allo scenario: come cambia il mondo retail?

Di seguito riporto alcuni dati di alcune ricerche in cui mi sono imbattuto che penso sia interessante condividere e sulle quali fare un minimo di riflessioni:

  • Secondo Forrester (Febbraio 2011 – http://www.forrester.com/go?objectid=RES57297 ) il numero di vendite per i brand retail salirà fino a raggiungere un mercato di 133,6 miliardi di Euro per il 2015. Al tempo stesso gli utilizzatori della rete e i compratori online passando da 157 a 205 milioni (+30%).
  • Uno studio Goldman Sachs mostra altresì come l’e-commerce stia crescendo a un ritmo di circa il 20% annuo e raggiungerà un mercato di circa un miliardo di dollari per il 2013
  • Emerge l’importanza di investire su una strategia di comunicazione digitale integrata. Uno studio di Accenture (European E-Commerce Survey del 2011 – http://www.accenture.com/SiteCollectionDocuments/PDF/Accenture-ERRT-Brochure.pdf ) mostra come gli utenti e gli shoppers multicanale tendano a spendere in media molto di più degli utenti che invece utilizzano un unico canale.
  • Verso le medesime intuizioni va Capgemini che identifica addirittura una serie di 6 differenti profili di shopper a partire da un’intervista condotta su 16,000 persone in 16 differenti paesi. Lo schema sotto riportato mostra alcuni dei percorsi esemplificativi che possono guidare l’utente.
Capgemini
  • La tradizionale distinzione tra primo momento dei verità e secondo momento di verità coniata da Procter & Gamble in un loro studio ( http://goo.gl/7uEir ) deve essere rivista a favore del momento 0: in cui l’utente diviene consapevole del prodotto del brand e del brand stesso. In questo senso tornano e risultano molto interessanti le riflessione sui customer enagagement loop estremamente noti a chi si occupa di community management: http://socialfresh.com/how-to-create-loyalty-without-customers/
  • In questa stessa direzione va un famoso adagio che gira in rete secondo il quale le aziende non sono quello che dicono di essere, ma quello che Google dice di loro. Si innestano – come comprensibile – dinamiche estremamente serie e concrete di Brand Reputation
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  • Il consumo e l’utilizzo di Internet via smartphone e tablet ha raggiunto proporzioni consistenti e il trend è tutt’ora in forte cres
    cita
    . In questo senso l’esperienza di shopping e di acquisto dei consumatori è fortemente collegata e influenzata – a sua volta – dall’esperienza mobile. Uno studio abbastanza recente di Deloitte mostra in modo molto evidente questo legame tra utilizzo del mobile e online e-commerce. Alcuni dati di Statista.com sottolineano come la penetrazione degli smartphone negli stati uniti sia del 40% e l’uso dei tablet negli ultimi due anni è salito dall’0 al 25%. Il 69% di questi utenti utilizzano questi strumenti per cercare informazioni sul prodotto e l’82% per ricercare informazioni a supporto dello shopping nel momento stesso in cui si trovano all’interno dello store. In questo senso diventa fondamentale per i brand anche effettuare riflessioni sulla web reputation e sulle discussioni che sono presenti in rete sui nostri specifici prodotti o servizi.
Deloitte
  • Oltre a tutto questo i brand stanno cominciando e hanno già cominciato a realizzare app per iOs e Android, anche se la tendenza sembra essere in leggerlo calo poiché vien e preferito un sito web ottimizzato per mobile piuttosto che un app dedicara. Il processo va nell’ottica di offrire un percorso integrato di esperienza utente.
  • Una riflessione utile può essere fatta anche sull’utilizzo delle piattaforme social. In questo senso Pinterest è particolarmente interessante. Secondo uno studio di Internet Retailer, il 32% degli shopper online ha fatto acquisti basati su quello che ha su Pinterest o su altri siti di condivisione di immagini.

Queste condivise vogliono solo essere alcune indicazioni iniziali che provero’ poi ad approfondire in post e commenti dedicati analizzando anche i casi di alcuni dei migliori brand a livello mondiale in ambito retail e le iniziative che hanno realizzato per aumentare il coinvolgimento e massimizzare il valore scambiato all’interno dell’intero ecosistema organizzativo.

Per i brand che intendono seriamente percorrere questa direzione si richiedono però – come abbiamo visto nel nostro precedente post – approcci integrati, strategie condivise che mettano al centro, in questo caso, gli utenti, i consumatori.

Come?

Sicuramente la strategia in questo senso non riguarda né l’apertura di una pagina Facebook (perché sappiamo che Facebook non è una strategia e che il Social Media Marketing inteso in questo modo ha fallito: http://www.sociallearning.it/il-social-media-marketing-e-morto ), né la creazione di un’applicazione per iPhone o Andorid, né tantomeno la progettazione di un sito di e-commerce. O meglio: è tutto questo e molto, molto altro. In che senso? E’ molto semplice: nel senso che tutti questi devono essere considerati come semplici strumenti che devono essere ricondotti a un ciclo completo di esperienza di acquisto e di consumo. L’esperienza utente deve essere messa al centro di un percorso ben preciso. I dati dimostrano che c’è ancora molto molto lavoro da fare in questo senso e la costruzione di percorsi specifici per gli utenti è solo una della strade da prendere e delle direzioni in cui investire.

Sicuramente tra i molti processi possibili verso cui andare:

  • Investire in una presenza sui social media integrata e consistente. Troppe aziende di questo settore sono “parcheggiate” sui canali social: manca una vera e propria strategia, un coordinamento centrale e un uso completamente consapevole degli strumenti online
  • Una combinazione di utilizzo e una integrazione tra presenza online e offline. Costruendo processi continuativi che si alimentino a vicenda in entrambe le direzioni
  • La progettazione di un’esperienza davvero significativa che non ricalchi né “scimmiotti” quello fatto dai competitor ma offra un concreto e reale valore aggiunto agli utenti e ai consumatori finali contribuendo alla loro soddisfazione e alla massimizzazione del valore scambiato con l’esterno e con l’interno dell’organizzazione
  • La realizzazione di canali in modalità owned, comunità dedicate e spazi per la discussione e l’interazione all’interno dei siti ufficiali dei brand
  • L’evoluzione dell’ascolto della rete: ancora sempre troppo focalizzato su una percezione della web e brand reputation verso un modello di azione di strategia concreta di ingaggio in cui al centro vengono messi i consumatori
  • Gli scenari – ancora inesplorati in parte – di coinvoglimento del Social CRM cbe in casi come questi potrebbe dimostrare la sua potenza e la sua portata come già fatto per alcuni grandi brand d’oltreoceano (si veda uno su tutti il caso BestBuy – http://www.lithium.com/pdfs/casestudies/Lithium-Best-Buy-Case-Study.pdf )

Di strada da fare ce n’è ed è ora che anche i brand comincino a muoversi in questa direzione

Sono diversi anni che mi occupo di Social Media Marketing, Social Media Monitoring, Listening, Brand Reputation e via dicendo. Sempre sigle diverse, sempre lo stesso concetto: sfruttare le reti e i meccanismi informali per aumentare la partecipazione degli utenti e per raggiungere nuovo pubblico.

Ma perché dovrebbe essere morto? E perché ho voluto scrivere questo post provocatorio? Il motivo è molto semplice: l’idea di base è stata quella di condividere alcune riflessioni che sono nate da alcune discussioni avvenute nei giorni scorsi con amici e colleghi su questi temi e provare a trovare motivazioni a supporto di una tesi fondamentale: il mercato, i consumatori e le aziende sono cambiate. E’ tempo di cambiare anche il nostro punto di vista evolvendo quello che già conosciamo. 

Cerchiamo di analizzare alcuni dati e di capire per quale motivo la situazione sta cambiando e in che direzione.

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Gli influencer non esistono
Un recente articolo, molto interessante, di Micheal Wu pubblicato su Techcrunch – http://techcrunch.com/2012/11/09/can-social-media-influence-really-be-measured/ sottolinea una problematica ben nota a chi si occupa di questi temi e a chi è abituato anche a utilizzare tool per l’analisi della web reputation di fascia elevata (vedi Sysomos o Radian6).Tutti questi strumenti sembrano promettere il Santo Graal del Social Media Marketing: la ricerca, il tracciamento – e il successivo coinvolgimento quindi – degli influencer online.
Alcune riflessioni in questa direzione ci possono portare in fretta a ragionare su:

  • Le problematiche di misurazione degli influencer: le metriche sono spesso confuse, non chiare e non esistono – come sottolinea anche Wu nell’articolo – metodologie di validazione di quello che stiamo dicendo. Un modo, cioè, di stabilire effettivamente chi influenza chi rispetto a un modello, a un metro di paragone esterno ed efficace. Un esempio su tutti può essere fatto rispetto alla misura dell’influenza online che da Klout la cui attendibilità è ben chiara ad un occhio esperto e consapevole
  • In base a cosa stabiliamo un influencer? In base al numero di follower? In base al suo reach totale? Molto bene: si legga poco sotto il secondo paragrafo di questa riflessione. Forse possiamo stabilirlo in base al numero di Retweet e di Share per esempio che ottiene? Una buona metrica no? Così sembrerebbe… Date un’occhiata a questo articolo che sottolinea come solo una piccola percentuale di utenti che fanno RT legga effettivamente il contenuto rilanciato: http://blog.hubspot.com/blog/tabid/6307/bid/33815/New-Data-Indicates-Twitter-Users-Don-t-Always-Click-the-Links-They-Retweet-INFOGRAPHIC.aspx
    E’ chiaro quindi che ci troviamo di fronte a un problema di tecniche di misurazione, ma forse ancora prima a un problema legato al cosa stiamo effettivamente misurando.
  • Influencer rispetto a cosa? Manca anche una modalità di tracciamento a posteriori dell’influenza online. Come posso sapere se un determinato messaggio – e proprio quel messaggio – ha dato il via a un comportamento di consumo o a un qualunque comportamento? In questa direzione va la psicologia del comportamento e della decisione che da anni studia strategie e soluzioni per orientare il comportamento non prevedibile degli individui. La complessità della natura umana, ma anche degli stessi processi alla base della motivazione della decisione (ben spiegati – per esempio – nell’ottimo libro Drive di Daniel Pink) rende difficilmente applicabile il concetto di influencer in modo differente da quello di testimonial nell’advertising classico…
  • Influencer di cosa? Possiamo considerare che siano presenti influencer specifici rispetto a un tipo di settore particolare? Possiamo stabilire una misura concreta di questa influenza?

Più che di influencer in rete, quindi, forse si potrebbe parlare di un “pubblico interessato” di persone che in modo attivo e continuativo possono si occupano di un determinato tema divenendo esperti di quel tema, ma l’azione di coinvolgimento di queste persone, più che per spostare dei comportamenti degli altri utenti sarebbe interessante in un’ottica più matura, più completa: più vicina a quelle che sono le logiche del social business. Una logica di co-creazione in cui una volta che ho identificato gli utenti che si occupano del mio tema, del mio servizio del mio prodotto li coinvolgo all’interno del mio network al fine di migliorare il servizio al cliente, la capacità di fare innovazione, il mio prodotto o il mio servizio…

Il numero di follower o di like? Aria fritta
Non molto tempo fa suscitò molto scalpore la notizia di Marco Camisani Calzolari che riuscì a incrementare i suoli follower su Twitter ad un livello incredibile semplicemente acquistandoli ( http://www.repubblica.it/economia/2012/06/08/news/twitter_falsi_follower-36751066/ ). In questo senso non sono pochi i servizi che consentono di fare compravendita online di follower, di like e di aumentare la propria fan base. Ma a cosa serve tutto questo? Assolutamente a niente!
Mi capita spesso di confrontarmi con aziende o studenti – nei miei corsi – che mi domandano come aumentare i like di una pagina e/o i follower propri o di un brand su Twitter. Ebbene: il concetto è davvero sbagliato in partenza. Il numero di follower o di fan su Facebook, come su qualunque altra piattaforma, è solo una delle metriche che mostrano un ingaggio significativo e ben poco ci dicono dell’efficacia e di quanto quella pagina stia funzionando o meno nella creazione di un vero coinvolgimento nei confronti degli utenti. Il numero dei follower resta simile allo share televisivo, alla tiratura di un giornale: una modalità di ragionare ancora vecchio stile ancora con logiche classiche di pubblicità one 2 many. Ma con una postilla. Diamo un’occhiata a questo interessante post di Tech Crunch per esempio: http://techcrunch.com/2012/11/16/facebook-has-decreased-page-reach-and-heres-why/
E a questa tabella che mostra in un paio di mesi come è diminuito il reach dei contenuti condivisi su una pagina Facebook:

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Vien naturale domandarsi: a che cosa serve avere 1 milione di follower se poi il mio pubblico resta una minima parte di questi? Che cosa cambia da un passaggio in televisione? Nulla apparentemente…
Accanto a tutto questo va ovviamente aggiunto il fatto che se non vengono fatte iniziative specifiche sui fan e sulla propria customer base è assolutamente inutile qualunque successiva riflessione. Vedremo più avanti nel post in che senso.

Il Social ADV e il Customer Engagament? L’inizio della fine
In un recente post Emanuele Quintarelli riporta alcuni interessanti dati di ricerca sull’andamento di Facebook rispetto all’efficacia di coinvolgere e di arrivare ai consumatori orientandone la conversazione. I dati che vengono illustrati sono abbastanza preoccupanti: http://www.socialenterprise.it/index.php/2012/07/28/perche-facebook-non-e-una-social-media-strategy/

  • La motivazione che spinge le persone a essere sui social network è in minima parte (12%) legata al mantenimento o allo stabilire una relazione con i brand e con le aziende.
  • Le brand community risultano una fonte molto molto migliore per la risoluzione dei problemi e per cercare informazioni che interessano grazie all’aiuto di propri pari.
  • E’ molto più facile che utenti ingaggiati all’interno di brand community si trasformino in brand ambassador e advocate all’interno di canali social in modo spontaneo.
  • Gli Analytics sono completamente inutili se non uniti a strumenti di intelligence e ad azioni puntuali (vedi anche il processo di monitoring in questo senso). Il monitoraggio, la misurazione l’analisi servono nella misura in cui portano dei risultati concreti sui benefici dell’organizzazione.

Credo che il dato più interessante in questo caso – nell’intero post di Emanuele – sia quello che riporta come agli utenti interessi davvero poco quello che dicono i brand di loro in rete e su Facebook ma piuttosto le conversazioni tra altri utenti come loro.

Nella stessa direzione di prima vanno alcune riflessioni condivise recentemente sul blog di Young Digital Lab in un post dedicato proprio al tema: http://www.youngdigitallab.com/facebook/facebook-social-network/. Nel post si parla di alcuni dati interessanti tra cui quello che sottolinea come solo il 15% (se non meno) della nostra fan base legga effettivamente i post che condividiamo nelle nostre pagine a questo dato va ovviamente agganciato il fatto che se solo il 15% dei nostri fan legge il nostro contenuto sarà – ovviamente – ancora minore la percentuale di utenti ingaggiati. Potete facilmente dedurre da soli che il quadro che ne esce è tutt’altro che confortante. Ancora una volta stiamo usando vecchie metriche (reach, follower, diffusione del contenuto) che sono quelle proprie di un advertising e di un marketing non troppo dissimile da quello tradizionale a cui siamo stati abituati. 

In questa direzione molto significativo risulta il commento che viene riportato:

“We post seven days a week, that would be about $14,000 per week, $56,000 per month… a grand total of $672,000 for what we got for free before Facebook started turning the traffic spigot down.” 

La riflessione riportata viene dal blog Dangerous Mind – http://dangerousminds.net/comments/facebook_i_want_my_friends_back e sottolinea una problematica molto consistente con la quale i brand si stanno confrontando, ovverosia: il costo completo che dovrebbero sostenere – tramite l’ultima novità dei promoted post – per ingaggiare e far arrivare il proprio messaggio a tutta la customer base. Interessante non trovate? Pagare cifre altissime per raggiungere persone che – in teoria – dovrebbero essere interessate al nostro messaggio. Pagare per “riprendere utenti che dovrebbero essere nostri”…

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Se il Social ADV è da un lato un potentissimo strumento per aumentare la fan base, per attirare nuovo pubblico o per spingere i contenuti sulla timeline degli utenti, risulta altrettanto interessante notare come il processo stia rassomigliando sempre di più a un processo di pubblicità tradizionale e Facebook stessa – spinta dall’esigenza di monetizzare – sia costretta a risultare sempre più invasiva e pervasiva rispetto a questo tema: non è raro trovare articoli di lamentela e denunce dei comportamenti troppo legati all’ADV che il noto SN sta assumendo. Cosa significa? Ancora una volta la logica è quella del marketing e della pubblicità tradizionale: più ne raggiungiamo meglio è.
In questo senso si vedano anche i dati di questa ricerca sul tema del coinvolgimento degli utenti all’interno del noto SNS – http://adage.com/article/digitalnext/things-mark-zuckerberg-cmo/229293/
Anche alcuni articoli di Forrester – http://blogs.forrester.com/nate_elliott/12-05-14-facebook_needs_to_take_marketing_seriously – di qualche mese fa e la nota polemica che era scaturita dalle lamentele di General Motors sul fatto che l’ADV su queste piattaforme non funzionasse come avrebbe dovuto – http://online.wsj.com/article/SB10001424052702304192704577406394017764460.html

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Quale efficacia per il web monitoring?
Più e più volte mi sono occupato, in questa e in altre sedi di parlare di social media listening, web monitoring e brand reputation. L’importanza dell’ascolto, lo abbiamo detto in più occasioni è chiave e fondamentale ma bisogna anche essere consapevoli che una volta maturata questa comprensione necessario fare dell’altro. Troppo spesso in questi anni ho condotto progetti di web reputation e monitoring che sono stati apprezzati ma che si sono esauriti nello spazio di un report. Fare ascolto in rete, comprendere le esigenze dei consumatori, intercettare linee di tendenza, trend e comprendere come si orienta il sentiment delle discussioni online è fondamentale, è vero: ma è solo il primo passo, il primo di un lungo cammino che deve portare le aziende ad evolversi ad ascoltare non solo i consumatori ma anche i propri dipendenti, a rimettere le persone al centro dello scambio e della produzione del valore.
Troppe troppe volte ho visto analisi di web reputation condotte come analisi di mercato. Quest
o processo di monitoring, di ascolto, di comprensione della propria reputazione online è efficace nella misura in cui è connesso a un profondo processo di trasformazione e funziona nel momento in cui si connette intimamente con quelle che sono le specifiche esigenze della singola azienda e organizzazione (esigenze che sono sempre diverse, sempre variegate)

E quindi? Adesso cosa si fa?
Si ricomincia da capo. Si ricomincia considerando il Social non tanto come il punto di arrivo ma come uno strumento al pari di tanti, molteplici, strumenti che possono servire alle aziende, non dissimile da tante altre strategie da tante altre pratiche. In questo senso mi sembra interessante considerare che il Social funziona – e lo testimoniano i veri casi di successo internazionali, nella misura in cui è profondamente connesso ai processi interni ed esterni dell’azienda. Il Social, il fare social media marketing nel caso specifico non è il cambiamento né da risultati. Il vero cambiamento è dentro e fuori l’azienda verso modelli nuovi, più efficaci, più efficienti in grado di mettere non tanto il consumatore ma le persone al centro di tutti i processi (siano essi esterni, siano essi interni).
Più in sintesi e nel tentativo di fissare alcun conclusioni di una riflessione che è ancora in fieri per quanto mi riguarda:

  • E’ necessario collegare i social media a processi aziendali e organizzativi strutturati e fare in modo che non divengano l’obiettivo, ma lo strumento, non il fine ma il mezzo
  • L’obiettivo è quello di aumentare il valore dell’organizzazione, rendere i processi più efficaci ed efficienti e mettere al centro gli utenti, le persone
  • Il Social Media Monitoring, funziona nella misura in cui è legato a precisi obiettivi di business, misurabili e concreti e viene visto non come il punto di arrivo ma come il punto di partenza di una strategia a 360° sui social media
  • KPI e metriche di questo mondo ( come quelle che elabora Edelman da anni a questa parte – http://www.edelmandigital.com/2011/08/30/how-to-measure-social-media-pr/ ) per essere efficaci devono essere collegate a fattori concreti all’interno dell’organizzazione. Metriche come il numero di follower, il numero di condivisioni, il numero di commenti e il coinvolgimento degli utenti sono inutili se non collegate a quello che ci sta dietro: risoluzione di problemi, miglioramento del processo di innovazione, aumento dell’efficacia organizzativa e via dicendo.
  • Offrire un’esperienza integrata che punti non tanto su tecniche specifiche di un singolo canale quanto su visioni più ampie, più precise più di dettaglio che abbiano al centro appunto non la preoccupazione della scelta della piattaforma più adatta ma agli obiettivi e al cosa si vuole ottenere
  • Uscire dall’idea totalizzante del Social Network: potrebbe non essere la scelta migliore, potrebbe non essere quella adeguata, in questo senso ormai tutti sono su Facebook, tutti si stanno muovendo senza consapevolezza (o con livelli più o meno diversi) nella creazione di pagine, nella costruzione di fan base, nella mobilitazione di risorse. Senza aver compreso né i cambiamenti che sono avvenuti, né quello che sta succedendo e senza aver chiara nemmeno la direzione del mercato.
  • Creare ambienti ad hoc: la creazione di brand community e di ambienti dedicati al Social CRM all’innovazione alla co-costruzione con i dipendenti e con i clienti è sicuramente molto più interessante. Questo consente – sebbene a fronte di un investimento iniziale molto superiore – di portarsi dietro una serie incredibile di vantaggi: customer base assicurata, fidelizzazione molto superiore degli utenti, analitche realizzabili ad hoc, ingaggio superiore degli utenti e via dicendo…
  • Progettare e realizzare esperienze più che canali. Esperienze che mettano al centro le persone e le loro esigenze. Poco importa la strategia o il canale scelto se si ha in mente questo obiettivo chiaro.

Prima del Customer Engagement c’è l’Engagement, prima dell’Engagement vengono i Consumatori, prima ancora dei Consumatori ci sono – poi – le Persone.

Nota a margine
Il tono volutamente polemico e provocatorio di questo post vuole semplicemente delineare che esattamente come 4/5 anni fa queste soluzioni hanno rappresentato il futuro, ora il mercato è cambiato: è maturo per nuovi approcci, per nuove idee, per nuove soluzioni. Questi approcci funzioneranno sicuramente ancora per un po’, ma la vera domanda restai, a mio avviso e per chi si occupa di questi temi: what’s next?
Francamente non ho visto particolare innovazione in questo settore da 2/3 anni a questa parte e sappiamo che chi sopravvive non è quello più forte o più grosso ma quello che sa meglio adattarsi a circostanze che – in questi ambienti molto più che in altri – mutano alla velocità della luce. 

Come l’anno scorso ho l’onore di partecipare alla tappa milanese dello Young Digital Lab, innovativa tavola rotonda al tempo dei social media composta solo da giovani consulenti.
Il tema di questo corso sarà la pianificazione della comunicazione e della strategia di business ai tempi del social web.

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Ecco il programma completo del corso che si articola su due giornate.
Qui il sito dell’evento con la locandina completa e le informazioni per la registrazione: http://www.youngdigitallab.com/eventi/corso-digital-strategy-social-media-com…

Giovedi’ 17 Novembre 2011 – Digital Strategy

  • Always on: dal social Web al social World
  • App economy e l’evoluzione di Internet
  • Web Monitoring: l’ascolto e la comprensione prima di tutto
  • Digital strategy e social media mix
  • Digital media planning: progettare gli investimenti online
  • Viral marketing: principi e tecniche
  • La gamification applicata ai modelli di business
  • 7 case history di digital marketing

Venerdi’ 18 Novembre – Social Media Communication

  • Facebook marketing dalla A alla Z
  • Social media strategy e social media management
  • Community management: problemi e rischi
  • Social Media Analytics e misurazione dei risultati
  • Social crm: dall’ascolto al coinvolgimento del cliente
  • Deals e mayors: dagli strumenti al local marketing
  • Online2Offline tra strategia, tecnologia e cultura
  • Cosa non fare: i più recenti flop

Personalmente avrò l’onore di tenere tre speech.
Nel primo speech, dedicato al web monitoring e al social media listening proverò a tracciare alcune riflessioni partendo dalla mia esperienza in alcuni progetti di web reputation che ho seguito negli ultimi 4 anni. Obiettivo dello speech sarà quello di sottolineare l’importanza della raccolta di feedback e dell’ascolto come primo – fondamentale – step per muoversi consapevolemente all’interno dei social media.
Provero’ anche a portare alcuni esempi di casi su cui stiamo lavorando qui in OpenKnowledge ( http://www.open-knowledge.it/ ).

Nel secondo speech porterò avanti il discorso parlando di Social CRM: di come – cioè – si possa passare dall’ascolto ad una strategia più ampia di coinvolgiemento dell’intero ecosistema aziendale: partner, clienti, fornitori che sia in grado di migliorare i processi di business e l’efficacia ed efficienza dell’organizzazione.
Anche in questo caso proverò a portare alcuni casi studio e best practices a livello worldwide.

Infine – ma non meno importante – parlerò della Gamification (tema di cui abbiamo già discusso in questa sede) come nuovo trend e nuova strategia per il coinvolgimento e il miglioramento dell’impresa: applicare il gioco e le meccaniche dei giochi al business è possibile? E’ possibile migliorare davvero l’organizzazione con questi strumenti? E come?

Vi lascio con un piccolo divertente video relizzato per far capire alcuni dei cambaiemnti di cui si parlerà al prossimo incontro.

Ci vediamo a Milano?