Sono diversi anni che mi occupo di Social Media Marketing, Social Media Monitoring, Listening, Brand Reputation e via dicendo. Sempre sigle diverse, sempre lo stesso concetto: sfruttare le reti e i meccanismi informali per aumentare la partecipazione degli utenti e per raggiungere nuovo pubblico.
Ma perché dovrebbe essere morto? E perché ho voluto scrivere questo post provocatorio? Il motivo è molto semplice: l’idea di base è stata quella di condividere alcune riflessioni che sono nate da alcune discussioni avvenute nei giorni scorsi con amici e colleghi su questi temi e provare a trovare motivazioni a supporto di una tesi fondamentale: il mercato, i consumatori e le aziende sono cambiate. E’ tempo di cambiare anche il nostro punto di vista evolvendo quello che già conosciamo.
Cerchiamo di analizzare alcuni dati e di capire per quale motivo la situazione sta cambiando e in che direzione.
Gli influencer non esistono
Un recente articolo, molto interessante, di Micheal Wu pubblicato su Techcrunch – http://techcrunch.com/2012/11/09/can-social-media-influence-really-be-measured/ sottolinea una problematica ben nota a chi si occupa di questi temi e a chi è abituato anche a utilizzare tool per l’analisi della web reputation di fascia elevata (vedi Sysomos o Radian6).Tutti questi strumenti sembrano promettere il Santo Graal del Social Media Marketing: la ricerca, il tracciamento – e il successivo coinvolgimento quindi – degli influencer online.
Alcune riflessioni in questa direzione ci possono portare in fretta a ragionare su:
- Le problematiche di misurazione degli influencer: le metriche sono spesso confuse, non chiare e non esistono – come sottolinea anche Wu nell’articolo – metodologie di validazione di quello che stiamo dicendo. Un modo, cioè, di stabilire effettivamente chi influenza chi rispetto a un modello, a un metro di paragone esterno ed efficace. Un esempio su tutti può essere fatto rispetto alla misura dell’influenza online che da Klout la cui attendibilità è ben chiara ad un occhio esperto e consapevole
- In base a cosa stabiliamo un influencer? In base al numero di follower? In base al suo reach totale? Molto bene: si legga poco sotto il secondo paragrafo di questa riflessione. Forse possiamo stabilirlo in base al numero di Retweet e di Share per esempio che ottiene? Una buona metrica no? Così sembrerebbe… Date un’occhiata a questo articolo che sottolinea come solo una piccola percentuale di utenti che fanno RT legga effettivamente il contenuto rilanciato: http://blog.hubspot.com/blog/tabid/6307/bid/33815/New-Data-Indicates-Twitter-Users-Don-t-Always-Click-the-Links-They-Retweet-INFOGRAPHIC.aspx
E’ chiaro quindi che ci troviamo di fronte a un problema di tecniche di misurazione, ma forse ancora prima a un problema legato al cosa stiamo effettivamente misurando.
- Influencer rispetto a cosa? Manca anche una modalità di tracciamento a posteriori dell’influenza online. Come posso sapere se un determinato messaggio – e proprio quel messaggio – ha dato il via a un comportamento di consumo o a un qualunque comportamento? In questa direzione va la psicologia del comportamento e della decisione che da anni studia strategie e soluzioni per orientare il comportamento non prevedibile degli individui. La complessità della natura umana, ma anche degli stessi processi alla base della motivazione della decisione (ben spiegati – per esempio – nell’ottimo libro Drive di Daniel Pink) rende difficilmente applicabile il concetto di influencer in modo differente da quello di testimonial nell’advertising classico…
- Influencer di cosa? Possiamo considerare che siano presenti influencer specifici rispetto a un tipo di settore particolare? Possiamo stabilire una misura concreta di questa influenza?
Più che di influencer in rete, quindi, forse si potrebbe parlare di un “pubblico interessato” di persone che in modo attivo e continuativo possono si occupano di un determinato tema divenendo esperti di quel tema, ma l’azione di coinvolgimento di queste persone, più che per spostare dei comportamenti degli altri utenti sarebbe interessante in un’ottica più matura, più completa: più vicina a quelle che sono le logiche del social business. Una logica di co-creazione in cui una volta che ho identificato gli utenti che si occupano del mio tema, del mio servizio del mio prodotto li coinvolgo all’interno del mio network al fine di migliorare il servizio al cliente, la capacità di fare innovazione, il mio prodotto o il mio servizio…
Il numero di follower o di like? Aria fritta
Non molto tempo fa suscitò molto scalpore la notizia di Marco Camisani Calzolari che riuscì a incrementare i suoli follower su Twitter ad un livello incredibile semplicemente acquistandoli ( http://www.repubblica.it/economia/2012/06/08/news/twitter_falsi_follower-36751066/ ). In questo senso non sono pochi i servizi che consentono di fare compravendita online di follower, di like e di aumentare la propria fan base. Ma a cosa serve tutto questo? Assolutamente a niente!
Mi capita spesso di confrontarmi con aziende o studenti – nei miei corsi – che mi domandano come aumentare i like di una pagina e/o i follower propri o di un brand su Twitter. Ebbene: il concetto è davvero sbagliato in partenza. Il numero di follower o di fan su Facebook, come su qualunque altra piattaforma, è solo una delle metriche che mostrano un ingaggio significativo e ben poco ci dicono dell’efficacia e di quanto quella pagina stia funzionando o meno nella creazione di un vero coinvolgimento nei confronti degli utenti. Il numero dei follower resta simile allo share televisivo, alla tiratura di un giornale: una modalità di ragionare ancora vecchio stile ancora con logiche classiche di pubblicità one 2 many. Ma con una postilla. Diamo un’occhiata a questo interessante post di Tech Crunch per esempio: http://techcrunch.com/2012/11/16/facebook-has-decreased-page-reach-and-heres-why/
E a questa tabella che mostra in un paio di mesi come è diminuito il reach dei contenuti condivisi su una pagina Facebook:

Vien naturale domandarsi: a che cosa serve avere 1 milione di follower se poi il mio pubblico resta una minima parte di questi? Che cosa cambia da un passaggio in televisione? Nulla apparentemente…
Accanto a tutto questo va ovviamente aggiunto il fatto che se non vengono fatte iniziative specifiche sui fan e sulla propria customer base è assolutamente inutile qualunque successiva riflessione. Vedremo più avanti nel post in che senso.
Il Social ADV e il Customer Engagament? L’inizio della fine
In un recente post Emanuele Quintarelli riporta alcuni interessanti dati di ricerca sull’andamento di Facebook rispetto all’efficacia di coinvolgere e di arrivare ai consumatori orientandone la conversazione. I dati che vengono illustrati sono abbastanza preoccupanti: http://www.socialenterprise.it/index.php/2012/07/28/perche-facebook-non-e-una-social-media-strategy/
- La motivazione che spinge le persone a essere sui social network è in minima parte (12%) legata al mantenimento o allo stabilire una relazione con i brand e con le aziende.
- Le brand community risultano una fonte molto molto migliore per la risoluzione dei problemi e per cercare informazioni che interessano grazie all’aiuto di propri pari.
- E’ molto più facile che utenti ingaggiati all’interno di brand community si trasformino in brand ambassador e advocate all’interno di canali social in modo spontaneo.
- Gli Analytics sono completamente inutili se non uniti a strumenti di intelligence e ad azioni puntuali (vedi anche il processo di monitoring in questo senso). Il monitoraggio, la misurazione l’analisi servono nella misura in cui portano dei risultati concreti sui benefici dell’organizzazione.
Credo che il dato più interessante in questo caso – nell’intero post di Emanuele – sia quello che riporta come agli utenti interessi davvero poco quello che dicono i brand di loro in rete e su Facebook ma piuttosto le conversazioni tra altri utenti come loro.
Nella stessa direzione di prima vanno alcune riflessioni condivise recentemente sul blog di Young Digital Lab in un post dedicato proprio al tema: http://www.youngdigitallab.com/facebook/facebook-social-network/. Nel post si parla di alcuni dati interessanti tra cui quello che sottolinea come solo il 15% (se non meno) della nostra fan base legga effettivamente i post che condividiamo nelle nostre pagine a questo dato va ovviamente agganciato il fatto che se solo il 15% dei nostri fan legge il nostro contenuto sarà – ovviamente – ancora minore la percentuale di utenti ingaggiati. Potete facilmente dedurre da soli che il quadro che ne esce è tutt’altro che confortante. Ancora una volta stiamo usando vecchie metriche (reach, follower, diffusione del contenuto) che sono quelle proprie di un advertising e di un marketing non troppo dissimile da quello tradizionale a cui siamo stati abituati.
In questa direzione molto significativo risulta il commento che viene riportato:
“We post seven days a week, that would be about $14,000 per week, $56,000 per month… a grand total of $672,000 for what we got for free before Facebook started turning the traffic spigot down.”
La riflessione riportata viene dal blog Dangerous Mind – http://dangerousminds.net/comments/facebook_i_want_my_friends_back e sottolinea una problematica molto consistente con la quale i brand si stanno confrontando, ovverosia: il costo completo che dovrebbero sostenere – tramite l’ultima novità dei promoted post – per ingaggiare e far arrivare il proprio messaggio a tutta la customer base. Interessante non trovate? Pagare cifre altissime per raggiungere persone che – in teoria – dovrebbero essere interessate al nostro messaggio. Pagare per “riprendere utenti che dovrebbero essere nostri”…

Se il Social ADV è da un lato un potentissimo strumento per aumentare la fan base, per attirare nuovo pubblico o per spingere i contenuti sulla timeline degli utenti, risulta altrettanto interessante notare come il processo stia rassomigliando sempre di più a un processo di pubblicità tradizionale e Facebook stessa – spinta dall’esigenza di monetizzare – sia costretta a risultare sempre più invasiva e pervasiva rispetto a questo tema: non è raro trovare articoli di lamentela e denunce dei comportamenti troppo legati all’ADV che il noto SN sta assumendo. Cosa significa? Ancora una volta la logica è quella del marketing e della pubblicità tradizionale: più ne raggiungiamo meglio è.
In questo senso si vedano anche i dati di questa ricerca sul tema del coinvolgimento degli utenti all’interno del noto SNS – http://adage.com/article/digitalnext/things-mark-zuckerberg-cmo/229293/
Anche alcuni articoli di Forrester – http://blogs.forrester.com/nate_elliott/12-05-14-facebook_needs_to_take_marketing_seriously – di qualche mese fa e la nota polemica che era scaturita dalle lamentele di General Motors sul fatto che l’ADV su queste piattaforme non funzionasse come avrebbe dovuto – http://online.wsj.com/article/SB10001424052702304192704577406394017764460.html

Quale efficacia per il web monitoring?
Più e più volte mi sono occupato, in questa e in altre sedi di parlare di social media listening, web monitoring e brand reputation. L’importanza dell’ascolto, lo abbiamo detto in più occasioni è chiave e fondamentale ma bisogna anche essere consapevoli che una volta maturata questa comprensione necessario fare dell’altro. Troppo spesso in questi anni ho condotto progetti di web reputation e monitoring che sono stati apprezzati ma che si sono esauriti nello spazio di un report. Fare ascolto in rete, comprendere le esigenze dei consumatori, intercettare linee di tendenza, trend e comprendere come si orienta il sentiment delle discussioni online è fondamentale, è vero: ma è solo il primo passo, il primo di un lungo cammino che deve portare le aziende ad evolversi ad ascoltare non solo i consumatori ma anche i propri dipendenti, a rimettere le persone al centro dello scambio e della produzione del valore.
Troppe troppe volte ho visto analisi di web reputation condotte come analisi di mercato. Quest
o processo di monitoring, di ascolto, di comprensione della propria reputazione online è efficace nella misura in cui è connesso a un profondo processo di trasformazione e funziona nel momento in cui si connette intimamente con quelle che sono le specifiche esigenze della singola azienda e organizzazione (esigenze che sono sempre diverse, sempre variegate)
E quindi? Adesso cosa si fa?
Si ricomincia da capo. Si ricomincia considerando il Social non tanto come il punto di arrivo ma come uno strumento al pari di tanti, molteplici, strumenti che possono servire alle aziende, non dissimile da tante altre strategie da tante altre pratiche. In questo senso mi sembra interessante considerare che il Social funziona – e lo testimoniano i veri casi di successo internazionali, nella misura in cui è profondamente connesso ai processi interni ed esterni dell’azienda. Il Social, il fare social media marketing nel caso specifico non è il cambiamento né da risultati. Il vero cambiamento è dentro e fuori l’azienda verso modelli nuovi, più efficaci, più efficienti in grado di mettere non tanto il consumatore ma le persone al centro di tutti i processi (siano essi esterni, siano essi interni).
Più in sintesi e nel tentativo di fissare alcun conclusioni di una riflessione che è ancora in fieri per quanto mi riguarda:
- E’ necessario collegare i social media a processi aziendali e organizzativi strutturati e fare in modo che non divengano l’obiettivo, ma lo strumento, non il fine ma il mezzo
- L’obiettivo è quello di aumentare il valore dell’organizzazione, rendere i processi più efficaci ed efficienti e mettere al centro gli utenti, le persone
- Il Social Media Monitoring, funziona nella misura in cui è legato a precisi obiettivi di business, misurabili e concreti e viene visto non come il punto di arrivo ma come il punto di partenza di una strategia a 360° sui social media
- KPI e metriche di questo mondo ( come quelle che elabora Edelman da anni a questa parte – http://www.edelmandigital.com/2011/08/30/how-to-measure-social-media-pr/ ) per essere efficaci devono essere collegate a fattori concreti all’interno dell’organizzazione. Metriche come il numero di follower, il numero di condivisioni, il numero di commenti e il coinvolgimento degli utenti sono inutili se non collegate a quello che ci sta dietro: risoluzione di problemi, miglioramento del processo di innovazione, aumento dell’efficacia organizzativa e via dicendo.
- Offrire un’esperienza integrata che punti non tanto su tecniche specifiche di un singolo canale quanto su visioni più ampie, più precise più di dettaglio che abbiano al centro appunto non la preoccupazione della scelta della piattaforma più adatta ma agli obiettivi e al cosa si vuole ottenere
- Uscire dall’idea totalizzante del Social Network: potrebbe non essere la scelta migliore, potrebbe non essere quella adeguata, in questo senso ormai tutti sono su Facebook, tutti si stanno muovendo senza consapevolezza (o con livelli più o meno diversi) nella creazione di pagine, nella costruzione di fan base, nella mobilitazione di risorse. Senza aver compreso né i cambiamenti che sono avvenuti, né quello che sta succedendo e senza aver chiara nemmeno la direzione del mercato.
- Creare ambienti ad hoc: la creazione di brand community e di ambienti dedicati al Social CRM all’innovazione alla co-costruzione con i dipendenti e con i clienti è sicuramente molto più interessante. Questo consente – sebbene a fronte di un investimento iniziale molto superiore – di portarsi dietro una serie incredibile di vantaggi: customer base assicurata, fidelizzazione molto superiore degli utenti, analitche realizzabili ad hoc, ingaggio superiore degli utenti e via dicendo…
- Progettare e realizzare esperienze più che canali. Esperienze che mettano al centro le persone e le loro esigenze. Poco importa la strategia o il canale scelto se si ha in mente questo obiettivo chiaro.
Prima del Customer Engagement c’è l’Engagement, prima dell’Engagement vengono i Consumatori, prima ancora dei Consumatori ci sono – poi – le Persone.
Nota a margine
Il tono volutamente polemico e provocatorio di questo post vuole semplicemente delineare che esattamente come 4/5 anni fa queste soluzioni hanno rappresentato il futuro, ora il mercato è cambiato: è maturo per nuovi approcci, per nuove idee, per nuove soluzioni. Questi approcci funzioneranno sicuramente ancora per un po’, ma la vera domanda restai, a mio avviso e per chi si occupa di questi temi: what’s next?
Francamente non ho visto particolare innovazione in questo settore da 2/3 anni a questa parte e sappiamo che chi sopravvive non è quello più forte o più grosso ma quello che sa meglio adattarsi a circostanze che – in questi ambienti molto più che in altri – mutano alla velocità della luce.
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