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Ho avuto modo – sempre in occasione del Social Business Forum 2012 ( http://www.socialbusinessforum.com/?lang=it ) di fare quattro chiacchiere con un amico e collega: Fabrizio Martire (@betone) e abbiamo assieme discusso di quali siano i punti fondamentali per cotruire uan presenza sociale consapevole dei brand online.

Chi è Fabrizio?

Fabrizio è co-founder di Gummy Industries, team che si occupa di strumenti collaborativi, branding, marketing e social media. È stato docente di web marketing e social network presso il master “Nuovi Media Nuove Persone” di Accademia Santa Giulia. Co-organizza “Pane Web e Salame” evento dedicato alle case history di comunicazione di successo. Condivide esperienze e casi studio sul blog virtualeco.org.

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Di recente hai provato a spiegare ai tuoi genitori (vedi video su Wired – http://tv.wired.it/tech/2012/04/02/come-spiegare-ai-tuoi-genitori-che-lavoro-… ) quale lavoro fai. Prima di tutto mi sento di ringraziarti a nome di tutta la categoria per essere finalmente riuscito a spiegare a tutti quello che facciamo. Mi aggancio a questo per farti quindi una domanda. Non pensi che questo sia parte del nostro problema maggiore con i clienti? Mi riferisco alla mancanza di consapevolezza circa le potenzialità che hanno i social media. Cosa ne pensi ? Sono pessimista?

No, non sei pessimista, sono assolutamente d’accordo: comunicare le potenzialità di un brand sui social non è mai semplice.
La comunicazione attraverso i social network richiede alle aziende uno sforzo maggiore, un impegno che poche hanno mai affrontato prima.
I canali di comunicazione tradizionale (uno a molti) permettono all’impresa di decidere cosa comunicare, come e quando. Scelto il migliore partner e decisa la creatività, il messaggio veicolato (per radio o tv) bombarda direttamente il target. Al contrario i social media portano il rapporto tra azienda e clienti a un livello successivo, un livello in cui la comunicazione non basta più, dove ciò che conta è il dialogo. Oggi le leve del “come”, “quando” e “cosa” sono in mano ai clienti e ai nostri prospect. La vera sfida, per noi, è proprio questa: far percepire al mercato le potenzialità di canali molti a molti, delle community, dello storytelling, del social crm e di molto altro ancora.

In passato – ma ancora oggi in realtà – mi sono occupato di Web Reputation e di Social Media Monitoring per alcuni grossi brand italiani e internazionali. Sono convinto – e così lo sono i miei colleghi in OpenKnowledge – che qualunque azione sui social media non possa prescindere dall’ascolto e dall’attento monitoraggio delle conversazioni online. Tu cosa ne pensi? L’ascolto in rete è uno step fondamentale?

L’ascolto, il monitoring delle conversazioni è il punto di partenza. Per le ragioni esposte prima le aziende devono aspettarsi consumatori attivi, che trovano naturale condividere pareri, idee, critiche su prodotti e servizi. Ascoltare è un valore davvero importante: non agevola solo la presenza di un brand online, aiuta a sviluppare nuovi prodotti, nuovi mercati, nuovi business. Quando oggi parliamo di social business ci riferiamo proprio a questo: a un’azienda che sa ascoltare, sa dialogare e cogliere le occasioni che i propri “fan” e “follower” offrono all’interno delle community.

A tua avviso quali sono le cose che non possono assolutamente mancare nella realizzazione di una Social Media Strategy e quali consigli ti senti di dare a chi volesse realizzarne una?

Dipende molto dalle dimensioni aziendali e del tipo di brand. Sono convinto che i piccoli (PMI) abbiano molto da guadagnare anche semplicemente impegnandosi a raccontare la loro storia, la qualità e l’unicità del proprio prodotto in modo naturale e senza filtri (ne ho parlato l’anno scorso al Social Business Forum ). Al contrario per aziende nazionali/internazionali che già da anni investono in pubblicità e marketing forse l’elemento davvero necessario prima di qualsiasi scelta è proprio l’ascolto è un buon assessment del brand sul digital.

Che rapporto c’è a tuo avviso tra la Social Media Strategy, la Governance a la Policy che un’azienda deve realizzare per potersi proporre come Social Business? Sono tre pilastri fondamentali tutti connessi? O li vedi piuttosto come step differenti?

Il social business è forse la somma di tutte le possibilità e i vantaggi che i nuovi media offrono. Questo, però, richiede un totale cambio di mentalità e una capacità di adattamento non indifferente. Social Media Strategy, la Governance a la Policy sono, come dici, i pilastri di un business di questo tipo ma per esperienza ho capito che è difficile approcciare un progetto proponendo subito tutto il “trittico” :) Credo sia meglio disegnare un percorso che mostri il punto d’arrivo ma che introduca uno alla volta i tre elementi.

Di cosa ti stai occupando di recente? Raccontaci anche del tuo progetto con Gummy Industries che stai lanciando proprio in questi giorni.

Gummy industries http://gummyindustries.com/ è un progetto che mi vede coinvolto in prima persona assieme a Alessandro – https://twitter.com/#!/alekone e Xenesys – http://blog.xenesys.it/. Le industrie gommose (ci serviva un nome che connotasse la nostra provenienza: le grande industria pesante bresciana e che ci distaccasse dalla formalità di un’azienda di comunicazione classica) sono state aperte per aiutare le aziende a entrare sui social media, a strutturare i loro business e a valorizzare i propri brand. Oggi mi occupo di tutte queste cose oltre che di organizzare Pane Web e Salame – http://panewebesalame.com/, un evento alla sua terza edizione, che in modo semplice e diretto, intende far discutere di social media e business. A proposito, il 20 Giugno sarai dei nostri? 

E infine – ma non meno importante – di cosa parlerai al Social Business Forum 2012?

Questa è la domanda più difficile di tutte dato che il social business forum è uno degli eventi più importanti in Italia preparare un talk all’altezza è una bella sfida! Vorrei proporre un talk che evidenzi le nuove tendenze: i nuovi social network e come alcune aziende si stanno muovendo.

[Original version (english) follows]

Eletto da Gamification of Work come il numero uno dei guru sulla gamification (Febbraio 2012 – http://gamificationofwork.com/2012/02/top-20-gamification-gurus-february-2012/ ) Ray Wang è un personaggio eccezionale che ho avuto modo di intervistare in occasione della sua partecipazione al Social Business Forum 2012http://www.socialbusinessforum.com/?lang=it

Nell’intervista considerazioni sulla Gamification e su come questa possa essere sposata in modo efficace al Social Business generando valore per l’intero ecosistema aziendale e massimizzando la partecipazione e la collaborazione all’interno delle iniziative di Business.
Un leader inspirato e un influencer di fama mondiale Ray Wang è un esperto di tecnologie disruptive e ha tenuto speech in tutto il mondo nelle più importanti conferenze internazionali. Il suo Blog “A Software Insider’s Point of View” con milioni di pagine visualizzate all’anno indaga i nuovi modelli di business e i nuovi trend nel mondo della tecnologia.

Maggiori informazioni su di lui qui: http://www.linkedin.com/in/rwang0

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Al Social Business Forum 2012 parlerai di Enterprise Gamification. Qual è la tua personale definizione di Gamification? Concordi con il whitepaper di Bunchball che la definisce come l’integrazione delle dinamiche di gioco all’interno di un servizio, sito o community per aumentare il coinvolgimento e la partecipazione degli utenti? Oppure la situazione è un po’ più complessa?

La Gamification descrive una serie di principi di design, di processi e di sistemi che sono usati per influenzare le persone, i gruppi e le community al fine di realizzare dei comportamenti e degli effetti desiderati. Ha avuto origine dall’industria dei videogame e molti di questi concetti pionieristici ora giocano un ruolo assolutamente cruciale nell’incentivare e nel gestire i comportamenti delle organizzazioni sia all’interno dei loro rapporti con i consumatori esterni sia all’interno delle aziende.
Nello specifico l’Enterprise Gamification è sia User Experience (UX) sia “consumerizzazione” dell’IT (CoIT) un trend che spopolerà nel mercato del 2012. Constellation è convinta che entro il 2013 oltre il 50% di tutte le iniziative di Social Business conterranno una componente di Gamification.

Qual è – secondo la tua opinione – il legame e la relazione tra l’enterprise gamification e il social business?

La Gamification coinvolge uno dei fattori chiave del social business: l’engagement, il coinvolgimento. Più gli utenti vengono desensibilizzati dalle dinamiche dei social media più le organizzazioni avranno bisogno di nuove strategie e nuove meccaniche per coinvolgerli, per influenzarne i comportamenti e massimizzare i risultati

Cosa ne pensi dei vari speech di Jane McGonigal contro la gamification? Credi che sia davvero necessario concentrarsi sul Gameful Design, maggiormente connesso alle emozioni e ai sentimenti che alle badge e alle reward? E qual è la tua opinione sul futuro della Gamification? E? la “next big thing”? Oppure solo qualcosa di temporaneo destinato a svanire?

Jane fa davvero un grande lavoro nel trasmettere la passione per il gameful design che rappresenta la chiave per condurre all’engagement. A livello di enterprise gamification  dobbiamo andare ancora più in profondità per capire le dinamiche di comportamento. Attualmente commettiamo sette peccati mortali nell’utilizzare i nostri approcci di gamification.

Al fine di massimizzare il ritorno e condurre a risultati, l’enterprise gamification richiede l’applicazione di concetti di psicologia e di economia. Poiché la Gamification all’interno delle organizzazioni fa appello ai comportamenti umani più naturali, potrebbe essere utile seguire la guida e le best practice di Constellation basata sui “Sette Peccati Mortali” del game design:

  1. Lussuria (generazione di interessi): descrive la mancanza di autocontrollo e attrattiva. Coinvolge e ingaggia gli utenti attraverso intrighi. Scopre ciò che appassiona gli utenti attraverso gli incentivi. Coglie la loro immediata attenzione e li coinvolge a un basso livello.
  2. Gola (accumulo delle meccaniche): si riferisce all’eccesso, all’esagerazione del consumo e alla troppa indulgenza. Si focalizza sul desiderio di accumulare, di acquisire e di contribuire.
  3. Avarizia (scarsità di meccaniche): fa riferimento al desiderio di potere, status e benessere. Utilizzare incentivi non monetari come immediato riconoscimento per generare coinvolgimento. Scarsità nelle ricompense.
  4. Pigrizia (ottimizzazione della user experience): fa riferimento all’indifferenza. Progettare sistemi oltremodo convenienti per l’utente. La privacy si fa da parte quando la convenienza entra in gioco.
  5. Rabbia (desiderio di ritorni immediati): fa entrare in gioco la rabbia, l’impazienza il desiderio e la violenza. E’ disegnata sul desiderio di immediatezza e sulle ricompense istantanee per la rapidità di azione.
  6. Invidia: è riempita di un desiderio verso quello che possiedono gli altri. Sottolinea il successo degli altri. E’ necessario – in questo senso – migliorare il sistema di trasparenza e di attribuzione delle reward.
  7. Orgoglio (ego personale e senso di sé): riguarda la vanità e il narcisismo. E’ necessario foraggiare competizioni salutari. Incentivare comportamenti di fare meglio e fare ancora di più. Il setting degli obiettivi porta gli utenti a fissare aspettative maggiori.

La Gamification è molto di più della “next big thing” o di una moda. E’ con noi dalla notte dei tempi. Ora abbiamo però gli strumenti per metterla in pratica in modo più significativo e personale.

Il mio interesse di ricerca principale è il Social Learning (credo che possa essere definito sommariamente come un fenomeno emergente che genera a partire dai flussi di conoscenza formali e informali), credi che la Gamification possa essere utilizzata al fine di migliorare i processi di apprendimento e di portare all’organizzazione risultati sempre più significativi? 

Assolutamente! La Gamification funziona sia per l’interno che per l’esterno.
Quali temi tratterai al Social Business Forum 2012?
Storie concrete e valore di business.

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English Version

Here’s the original version of the interview made with Ray Wang.

Known as number 1 among Gamification Gurus (February 2012 – http://gamificationofwork.com/2012/02/top-20-gamification-gurus-february-2012/ ). A highly sought after thought leader focused on enterprise strategy and disruptive technologies, R “Ray” Wang has advised organizations and spoken to audiences around the world. His dynamic presentation style brings life and energy to technology and business topics such as business process transformation, next generation software, SaaS/Cloud solutions, social CRM, analytics, and ERP. He is the author of the popular enterprise software blog “A Software Insider’s Point of View.” With viewership in the millions of page views a year, his blog provides insight into how disruptive technologies and business models impact the CXO, enterprise apps strategy, and emerging business and technology trends.

I had the honour to interview Ray Wang and I asked him some questions about the relationship between Gamification and Social Business in order to anticipate some of his thoughts that he will share at the fifth edition of Social Business Forum – http://www.socialbusinessforum.com/?lang=en

More info on Ray here: http://www.linkedin.com/in/rwang0

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At the Social Business Forum 2012 you will give a speech on Enterprise Gamification. What is your personal definition of Gamification? Do you agree with Bunchball white paper (integrating game dynamics into your site, service, community, content or campaign, in order to drive participation)? Or the situation is quite more complex?

Gamification describes a series of design principles, processes and systems used to influence, engage and motivate individuals, groups and communities to drive behaviors and effect desired outcomes. Originating from the video game industry, many of these pioneering concepts now play a key role in driving incentive and behavior management for both brands in the consumer world and internal scenarios in the workplace. Enterprise gamification is a user experience (UX) and consumerization of IT (CoIT) trend that will take the market by storm in 2012. Constellation believes that by 2013, more than 50 percent of all social business initiatives will include an enterprise gamification component.

What is – in your opinion – the connections and the relationship between enterprise gamification and social business?

Gamification addresses a key component in social business – engagement.  As users get desensitized by social channels, organizations will need a mechanism to influence behaviors and incentivize outcomes.

What do you think about Jane McGonigal speeches against gamification? Do we really need to focus on Gameful Design, more connected to emotions instead of points and badges? And what is in your opinion the future of Gamification? It’s the “next big thing”? Or just something temporary?

Jane does a great job conveying the passion of gameful design which is key to driving engagement. At the enterprise and brand level, we have to go deeper to understanding behavioral dynamics.  We actually apply the seven deadly sins of gamification to this approach.

Enterprise gamification requires an application of psychology and behavioral economics to incentivize outcomes. Because enterprise gamification maps closely to human behavior, organizations will want to follow Constellation’s best practices in appealing to the “Seven Deadly Sins” for gamification design:

  1. Lust (interest generation) describes the lack of self-control and attraction. Engage the user through intrigue. Find what attracts the user through incentives. Grab their immediate attention and engage in land and expand initiatives.
  2. Gluttony (accumulation mechanics) refers to excess, over-consumption, and over-indulgence. Focus on the desire to accumulate, acquire and contribute. Craft pleasurable experiences.
  3. Greed (scarcity mechanics) calls on the desire for power, status, and wealth. Use non-monetary incentives such as immediate recognition to drive engagement. Provide scarcity in rewards.
  4. Sloth (user experience optimization) references laziness, indifference and complacency. Keep designing the system to be uber convenient for the user. Privacy falls aside when convenience wins out.
  5. Wrath (immediacy demand generation) calls out anger, impatience, revenge and rage. Draw on the desire for immediacy. Reward for rapidity. Provide opportunities to avenge one’s honor.
  6. Envy (aspirational demand) fuels a need to desire what others have. Highlight the success of others. Improve transparency on the spoils and rewards. Drive aspirational envy.
  7. Pride (sense of self and ego) draws out vanity and narcissism. Foster healthy competition. Incentivize the pursuit of excellence to “do more” and “do better.” The goal – drive behaviors and rewards towards higher expectations.

Gamification is more than a fad or the next big thing.  Gamification has been w/ us from the dawn of time.  Now we have the tools to put it to use in a meaningful and personal way.

My main research focus is Social Learning (I believe that could be roughly defined as an emerging phenomenon that originates from knowledge networks and value streams whether formal or informal), do you think that Gamification could also help to improve learning processes in order to drive more significant results to the whole organization? If yes how?

Yes. Gamification works for both internal and external audiences!
Which themes you will address in your speech at Social Business Forum 2012?
Real stories and business value.

Ho pensato di fare quattro chiacchiere con una collega e amica: Emanuela Zaccone che come me ha vinto il Working Capital nel 2010 e che come me si occupa di reputation online dei brand, di social media monitoring e – più in generale – di come le organizzazioni di oggi possano usare i Social Media per generare vantaggio competitivo.

Sarà nostra ospite al Social Business Forum 2012 e ne ho approfittato per intercettarla e farle alcune domande sia sull’importanza per i brand di oggi monitorare e tracciare la loro reputazione online sia sul futuro della Social Tv. Fresca di ritorno da una bellissima esperienza all’MIT di Boston Emanuela ci racconta anche qualcosa su come è andata con qualche spunto di riflessione davvero interessante.

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Maggiori informazioni su di lei le trovate qui: http://about.me/emanuela.zaccone

Ecco le domande.

Come me ti occupi e ti sei occupata di Social Media Monitoring e Web Listening per la comprensione della web reputation dei brand, ma non solo: puoi dirci qualcosa di più su questo approccio? Pensi che sia uno strumento utile o una conditio sine qua non per le aziende di oggi?

Entrambe le cose. E il discorso non vale solo per le aziende. I Social Media hanno mutato spazio e paradigmi della comunicazione e dell’interazione, riportando di fatto le conversazioni ed il rapporto con i brand ad un livello di scambio comunicativo di tipo peer-to-peer.
In un sistema di tal genere non solo ha senso ascoltare e monitorare le conversazioni che si sviluppano online intorno al proprio brand, ma è necessario trasformare l’ascolto in azioni concrete volte a migliorare il rapporto con i propri utenti, con gli influencers e con gli advocates.
Una corretta valutazione dei dati così raccolti ed un loro inquadramento all’interno di una matrice di KPI, studiata in armonia con le varie funzioni aziendali che presiedono e curano la Brand image, può condurre ad un’effettiva ottimizzazione delle strategie di branding e comunicazione.
Si aggiunga a tutto ciò che la persistenza delle informazioni e dei dati online consolida e definisce la reputazione non solo dei brand ma anche delle persone online: quanto emerge su di noi e sulle marche è frutto non più o quantomeno non esclusivamente di una comunicazione di tipo top down ma di un incontro tra comunicazione top down ed emergenti attività bottom up; dall’incontro tra questi due aspetti prende forma l’online reputation.
Sapere ascoltare e monitorare le conversazioni online significa anche avere a disposizione un insieme di strumenti per tutelare la propria reputazione, per intervenire ove necessario e per migliorare costantemente il proprio rapporto con gli utenti.

Ancora una volta, un’altra cosa che ci accomuna e la tua vittoria al Working Capital 2010, in occasione del quale ci siamo conosciuti virtualmente per la prima volta, in quel caso – se non ricordo – male la tua ricerca era legata al mondo degli audiovisivi e dei social network. A tal proposito quale pensi che sia il futuro della televisione? La duplicazione dello schermo è un trend in forte crescita ma sei convinta che la televisione abbia ancora qualcosa da dire? Oppure tra cinque/dieci anni tutto sarà spostato sul web?

Non credo negli aut aut tecnologici, credo negli ecosistemi che crescono e prosperano grazie alla diversità e alla disponibilità di varie possibilità di azione. Quando ho vinto Working Capital nel 2010 il progetto coincideva in parte con la mia tesi di Dottorato di Ricerca – http://www.scribd.com/doc/57476197/AUDIOVISIVI-E-SOCIAL-NETWORKS-ILTESTO-E-I-… .
Dopo i mesi trascorsi alla University of Nottingham e vari confronti con studiosi internazionali come Henry Jenkins, ho completato e discusso la tesi nel maggio 2011, raggiungendo – tra le altre conclusioni – anche quella che il futuro del Social Media Marketing e dell’user engagement per gli audiovisivi avrebbe avuto molto da dire soprattutto nell’ambito della Social Tv. Insieme ai big data e al Social Media Monitoring, questo è infatti l’altro campo di ricerca del quale oggi mi occupo attivamente e sul quale ho fatto vari interventi e pubblicazioni.
Vedo un futuro in cui gli utenti tenderanno sempre maggiormente a interagire con i prodotti audiovisivi e a determinarne forme narrative e storytelling. Lo faranno – lo stanno già facendo – con applicazioni mobile e web based e lo faranno con app integrate nelle Smart TV.
Altri vorranno però avere l’opportunità di fruire dei prodotti audiovisivi in modo classico.
Entrambe le opportunità dovranno essere consentite.
Gli schermi dunque potranno convergere ma avrà ancora un senso poterli tenere separati.

Il tuo speech al Social Business Forum 2012 ( http://www.socialbusinessforum.com/?lang=it )  sarà intitolato: “From big data to insights: Social Media analytics and actionables”. Di cosa ci parlerai? E’ davvero così importante – oggi – saper analizzare correttamente i dati e le informazioni cui siamo sottoposti quotidianamente?

Assolutamente sì. Come accennavo sopra, la complessità e la grande mole di dati con cui abbiamo a che fare al giorno d’oggi è uno dei più grandi doni a cui decenni di miglioramenti e mutamenti tecnologici ci hanno condotto. Oggi non abbiamo il problema del reperimento dei dati, abbiamo semmai l’esigenza di saperli organizzare, leggere e trasformare in a
zione. È Lavoisier applicato ai dati provenienti da Web e Social: le conversazioni sono persistenti (monitorabili), analizzabili (attraverso gli insights) e trasformabili (grazie alle attività in ambito operations) in attività concrete.
Agire e analizzare in real time è un’esigenza imprescindibile e la via attraverso la quale acquisire un rilevante vantaggio competitivo.
Al Social Business Forum espliciterò meglio questo processo.

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Di che cosa ti stai occupando ultimamente in Telecom Italia? Di recente sei stata anche al MIT Media Lab che per noi è un po’ l'”ombelico del mondo”: come è stata quest’esperienza?

Attualmente lavoro in Telecom come Social Media Analyst (ma, per i motivi che vedremo più avanti, sarebbe più corretto dire Data Scientist) e researcher, presso la funzione “Branding, Corporate Identity e Ricerche”, guidata da Loredana Grimaldi.
Ancor prima di discutere la tesi di Dottorato e completare l’anno di ricerca per Working Capital ho ricevuto l’offerta di lavorare in azienda al progetto di start up della Reputation Monitoring Room, una facility dedicata esclusivamente al monitoraggio delle conversazioni relative al nostro Brand.
Lavoro nella Reputation Monitoring Room ormai da un anno e posso dirti che la coniugazione tra la dimensione di ricerca e quella concreta di trasformazione delle attività di ricerca in modelli concreti di analisi e valutazione delle attività rappresenta uno degli aspetti più interessanti del mio lavoro.
Aggiungi a ciò che – come hai anticipato – di recente sono stata presso il MIT Media Lab (un sogno che coltivavo sin dal primo anno di Dottorato!), in occasione della conferenza Inside Out dedicata ai membri (tra i quali, appunto rientra anche Telecom Italia). http://www.media.mit.edu/events/spring12/overview
Il direttore – Joi Ito – in uno dei panel ha detto che i progetti del Media Lab sono caratterizzati da tre aspetti principali: “uniqueness, impact, magic”. Non solo ciò che lì si sviluppa, ma anche tutto ciò che ricerche e aziende stanno realizzando deve tendere a questi tre aspetti e mirare ad un’alta triade di caratteristiche: “openness. Scale. A makers movement”.
Big data, cloud e crowdsourcing sono state le parole d’ordine che hanno permeato non solo gli interventi durante Inside Out, ma anche i meeting dell’Information Technology Conference: http://ilp.mit.edu/conference.jsp?confid=42&tabname=overview tenutasi presso la MIT Sloan School of Management e a cui abbiamo inoltre, partecipato.
La figura del data scientist sembra essere sempre più al centro delle ricerche e delle strategie aziendali. La sensazione – rafforzata anche dall’opportunità avuta di parlare direttamente con molti professori del MIT, oltre che di visitare e testare quanto si sta realizzando presso i vari laboratori (tra tutti la mia preferenza va in assoluto ai dipartimenti Human Dynamics, Macro Connections e Machine Learning) – è stata quella di aver toccato il futuro con mano e, allo stesso e grazie a ciò di cui mi occupo in Telecom, di aver capito di esserne parte e attrice.
Vorrei raccontarti di più ma gli spunti raccolti sono davvero moltissimi e li stiamo ancora riordinando. Tra qualche settimana potrete leggerne il resoconto preparato da me e Massimiliano Spaziani (responsabile della Reputation Monitoring Room e compagno di viaggio, nonché mio tutor in Telecom: http://it.linkedin.com/in/massimilianospaziani ) su Voices, il blog di Telecom Italia: http://voices.telecomitaliahub.it/ .

Riporto qui la mia intervista fatta per Working Capital e pubblicata originariamente sul loro blog 
http://www.workingcapital.telecomitalia.it/2012/04/il-futuro-delle-aziende-e-…
Ringrazio ancora Lorenzo per l’occasione e la disponibilità mostrata. 

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Che cos’è esattamente il social business?

Riprendo la definizione del mio amico e collega Emanuele Quintarelli : un social business è “un’organizzazione che ha messo in campo le strategie, le tecnologie ed i processi atti a coinvolgeresistematicamente tutti gli individui che compongono il proprio ecosistema (dipendenti, clienti, partner, fornitori) nella massimizzazione del valore scambiato”. Un social business è, in un certo senso, un modo più naturale e più concreto di relazionarci con gli altri. È un’azienda centrata sulle persone: capace di evolvere, di rispondere alle sfide del mercato, di fare innovazione partecipata e di coinvolgere tutti i portatori d’interesse al fine di migliorarne profitti e valore. Riprendendo una terminologia che viene dalla Teoria dei Giochi possiamo dire che il Social Business è un “Win Win” in cui vince l’azienda che lo applica, perché riesce a essere più reattiva e a rispondere meglio alle sfide che i consumatori le propongono, e vincono i consumatori stessi, che riescono a migliorare il loro rapporto con le organizzazioni con cui entrano in relazione.
Di questi e di moltissimi altri temi parleremo il 4 e 5 giugno 2012 al Marriott Hotel di Milano, nell’ambito del SocialBusinessForum, l’evento europeo più importante del settore che con OpenKnowledge organizziamo ormai da 5 anni.

La diffusione del social business e delle dinamiche collaborative in azienda è certamente facilitata da fattori tecnologici, ma credi possa avere delle implicazioni anche sullo spirito e gli obbiettivi del fare impresa?

Il social business è certamente collegato alle tecnologie, ma è prima di tutto un avanzamento culturale. Volendo citare Manuel Castells, “non esistono rivoluzioni tecnologiche senza trasformazioni culturali”. In Italia molte volte il problema del fare innovazione è proprio questo: un’arretratezza culturale ancor prima che di competenze. Gli spazi e i mercati ci sono, con la crisi strutturale che stiamo vivendo (è interessante notare che in Giappone il Kanji usato per scrivere “crisi” – kiki – contiene in sé anche la parola “opportunità“) il Social Business rappresenterebbe una solida via di uscita ma la paura e la resistenza al cambiamento molto spesso tengono in vita tradizioni culturali obsolete e modalità di lavoro che non sono più adatte al mercato di oggi. Non dimentichiamoci nemmeno, però, che una strategia di Social Business non può essere improvvisata.

In particolare, ci puoi spiegare cos’è il social learning?

Il Social Learning non è altro che la declinazione dei principi del social business all’interno di quelle funzioni aziendali che si occupano di formazione e gestione del personale: come posso erogare contenuti formativi e come posso passare dei contenuti o semplicemente fare del knowledge management con queste nuove tecnologie? Cosa devo cambiare? Quali soluzioni mi offre il mercato?

Un anno fa, sul mio blog ho avuto modo di intervistare George Siemens  e di discutere con lui di come il Social Learning non fosse altro che un ritorno al nostro modo naturale di conoscere, di apprendere e di sperimentare. Lo cito per spiegare meglio il fenomeno di cui stiamo parlando:
Conoscere oggi significa essere connessi. La conoscenza si muove troppo velocemente perché l’apprendimento possa essere solo un prodotto. Eravamo abituati ad acquisire conoscenza avvicinandola a noi stessi. Ci veniva detto di ‘possederla’, di farla esistere nelle nostre teste. Ma non possiamo più cercare di possedere tutta la conoscenza necessaria personalmente. Dobbiamo custodirla nei nostri amici o all’interno della tecnologia.

Che cos’è la Gamification?

La Gamification è l’applicazione e l’integrazione delle dinamiche ludiche all’interno di un sito o di una community al fine di aumentare partecipazione e coinvolgimento degli utenti. Non dobbiamo però considerarlo il fenomeno del momento (l’edutainment e i serious game sono cose consolidate) o qualcosa di passeggero. Sono molti i casi di successo di cui ho parlato nel mio blog che ci aiutano a comprendere come un concetto in apparenza “aleatorio” possa essere calato nel concreto per portare dei veri risultati. Vale quanto detto prima: non si può improvvisare.

Perché in azienda l’approccio ludico al lavoro è sempre stato considerato con diffidenza? L’Italia in questo si comporta diversamente da altri paesi?

Credo anche in questo caso per una questione culturale del nostro paese. L’innovazione non è mai stata vista come uno dei cardini principali del successo aziendale. Per fortuna le acque si stanno muovendo, anche grazie a progetti come Working Capital. Credo che comunque il futuro sia roseo, molto più del passato.

Chi mi segue avrà capito che amo particolarmente le citazioni per questo ne riprendo una di William Gibson che adoro e che mi ha portato fortuna nel 2010 facendomi vincere Working Capital nella tappa di Bologna: “Il futuro è già in mezzo a noi – solo non equamente distribuito”. Ma le cose stanno cambiando.

Ripubblico qui la mia intervista fatta per Nova 100 del Sole 24 Ore. 
Ringrazio ancora moltissimo Diomira per l’occasione. Qui trovate la versione originale: http://marcominghetti.nova100.ilsole24ore.com/2012/02/social-learning-come-az…

Stefano Besana, giovane ricercatore e consulente aziendale, è stato il primo in Italia a parlare di Social Learning e ad aprire un blog specializzato sull’argomento.

Se l’utilizzo dei social media nella comunicazione esterna delle aziende si può ormai definire una moda consolidata (soprattutto per le grandi realtà), occorre iniziare a riconoscere che la vera azienda 2.0 è quella che utilizza anche al proprio interno strumenti di collaborazione come espressione di una cultura aziendale aperta al dialogo con dipendenti e portatori di interesse, allo scopo di diventare più sostenibile e, nei casi migliori, anche più produttiva. Per questo occorre uno Humanistic Management 2.0 che favorisca un contesto organizzativo in cui l’apprendimento di tutti gli attori in gioco sia ritenuto fondamentale per la crescita. Ovvero una Formazione 2.0 in grado di interagire con i nuovi strumenti e le nuove logiche del social networking.

La tematica è relativamente nuova per l’Italia e ne parliamo oggi con Stefano Besana, il giovane esperto e ricercatore che l’ha introdotta nel nostro paese. Sociallearning.it, blog da lui fondato, è il primo in Italia specializzato in questo ambito.

Quando è partita la tua ricerca nel settore e a quali cambiamenti hai assistito, in generale e in particolare in Italia, da allora?

Quando ho iniziato a occuparmi di questi temi (con la mia tesi triennale nel 2008 che poi mi ha portato a vincere Working Capital nel 2010) i social network in Italia si stavano cominciando ad affermare ed erano una realtà non ancora diffusa massivamente come oggi. Facebook ha – di recente – oltrepassato gli 850 milioni di utenti e, da allora, di ‘bit’ sotto i ponti ne sono passati parecchi!
A livello italiano ci troviamo comunque molto spesso a dover rincorrere i trend e gli esempi che arrivano da oltreoceano. Per quanto riguarda il Social Learning, non solo in Italia ma a livello globale, l’argomento è ancora molto nuovo e sono parecchie le sperimentazioni e le piattaforme che stanno nascendo e che sono nate nell’ultimo anno. Di sicuro si tratta di uno scenario molto interessante e affascinante che è in forte crescita e che le organizzazioni dovrebbero cominciare a monitorare seriamente, anche per migliorare la propria resilienza e la capacità di rispondere meglio alle sfide proposte dall’economia e dalla società.

Che cosa si intende in particolare per social business e come ne vedi l’evoluzione?

Riprendo la definizione del mio amico e collega Emanuele Quintarelli: un social business è “un’organizzazione che ha messo in campo le strategie, le tecnologie ed i processi atti a coinvolgere sistematicamente tutti gli individui che compongono il proprio ecosistema (dipendenti, clienti, partner, fornitori) nella massimizzazione del valore scambiato”. In fondo, un social business non è altro che un’azienda centrata sulle persone, capace di evolvere in modo dinamico, di rispondere in modo attivo alle sfide proposte dal mercato, di innovare in modo partecipato e in cui le classiche distinzioni tra interno ed esterno dell’organizzazione cessano di avere importanza in favore di un continuum di esperienza che riguarda processi che coinvolgono sia i consumatori finali sia i dipendenti.
Prima di parlare della sua evoluzione, però, al social business sarebbe importante arrivarci. Mentre molte delle strategie messe in atto dalle aziende oggi – anche quelle maggiormente ‘social’ – si rivolgono solo verso uno dei molteplici aspetti del social business.
La sfida del social business sta proprio nell’utilizzare le dinamiche e i paradigmi propri del mondo social in chiave strategica ai fini di migliorare efficienza ed efficacia organizzativa. Il cammino è lungo, ma la strada è ben tracciata. Per approfondire questi temi consiglio sempre di seguire il Social Business Forum, l’annuale conferenza che organizziamo in OpenKnowledge, giunta quest’anno alla quarta edizione, e che raccoglie ogni anno oltre 50 keynote speaker e oltre 1200 delegati da tutto il mondo: proprio in questi giorni stiamo lavorando alla prossima edizione dell’evento.

Cosa rappresenta il social learning all’interno di un’azienda? Qual è il valore che apporta al contesto aziendale?

Il social learning rappresenta la declinazione dei principi del social business a livello di politiche HR e processi di apprendimento. In questo senso si pone come una evoluzione del tradizionale e-learning e delle modalità di apprendimento blended che vengono incorporate in un’ottica maggiormente condivisa, collaborativa e sociale, ricalcando le logiche proprie delle community. In questo senso ho avuto modo, qualche mese fa, di discutere con George Siemens (massimo esperto mondiale del settore) delle sinergie tra social learning e connettivismo, discussione in cui sono emerse riflessioni interessanti su come questi due modelli rappresentino, in realtà, nient’altro che un ritorno più naturale al nostro modo di pensare e di comportarci nella vita di tutti i giorni.
La lezione che arriva alle aziende è quella di fare tesoro di questi nuovi insegnamenti ed evolvere verso modelli maggiormente reattivi e partecipativi proprio per facilitare processi che altrimenti non troverebbero reale sviluppo. Per spiegarlo meglio cito proprio Siemens che sottolinea l’importanza della connessione più che di ogni altro fenomeno nel processo di costruzione della conoscenza: “Conoscere oggi significa essere connessi. La conoscenza si muove troppo velocemente perché l’apprendimento possa essere solo un prodotto. Eravamo abituati ad acquisire conoscenza avvicinandola a noi stessi. Ci veniva detto di ‘possederla’, di farla esistere nelle nostre teste. Ma non possiamo più cercare di possedere tutta la conoscenza necessaria personalmente. Dobbiamo custodirla nei nostri amici o all’interno della tecnologia”.

Da osservatore, quali saranno, secondo te, le principali tendenze nell’adozione degli strumenti social da parte delle aziende nel 2012?

Credo che sia il social learning sia il social business sia la gamification saranno trend interessanti per le aziende del 2012, in Italia e all’estero. Si tratta di tre scenari che stanno crescendo in fretta e sono profondamente collegati tra loro.
Le aziende e i consulenti di oggi e domani credo debbano guardarli con rinnovato interesse. Altri temi importa
nti penso sia la gestione dei dati, dei flussi informativi che oggi con metodologie come la Organisational Network Analysis è più facile comprendere e mappare. L’innovazione partecipata penso poi possa essere una leva strategica davvero interessante per aiutare il nostro paese ad uscire dalla crisi e dall’impasse in cui si trova.

Hai accennato alla Gamification. Ci spieghi, in sintesi, di cosa si tratta?

La Gamification – per citare il report di Bunchball da cui il termine ha tratto origine – consiste nell’applicazione e nell’integrazione delle dinamiche e delle meccaniche ludiche all’interno di un sito o di una community al fine di aumentare partecipazione e coinvolgimento degli utenti. In realtà – come ho più volte sottolineato nel mio blog e in alcune presentazioni che ho fatto negli ultimi mesi – il fenomeno è un po’ più complesso.
È bene non considerare la Gamification come l’ultimo trend passeggero ma come una vera e propria industria che muove miliardi di dollari e che ci riguarda da molto vicino.
A livello di apprendimento la storia ci insegna che il gioco è sempre stato una delle modalità maggiormente esplorate e riconosciute e l’applicazione dei serious game ai contesti formativi vanta una storia consolidata. Con la Gamification (sarebbe meglio dire il Gameful Design, come vogliono i puristi) si tenta di evolvere il tutto verso modalità maggiormente partecipative e ‘ingaggianti’ per gli utenti.
Sono parecchi gli esempi di casi di successo e di ottime realizzazioni che hanno portato risultati significativi. Tanto per citare qualche esempio interessante:

  • Nitro + Jive che hanno integrato in una intranet 2.0 una serie di missioni in cui gli utenti vengono premiati con punti e badge finalizzati ad aumentare la competizione;
  • Gifgaff spread/recruiting: un meccanismo che incentiva i dipendenti a ricercare nuovi clienti e a promuovere l’azienda. I migliori sono premiati con denaro reale e punti virtuali
  • Plantville di Siemens, che mira a formare la prossima generazione di Plant Manager

O ancora:

  • MyStarbucksIdea che valorizza la collaborazione e la partecipazione di tutti (dipendenti e consumatori) all’innovazione e alla generazione di idee, le migliori vengono adottate dal brand e realizzate.

E in Italia?

Abbiamo il caso della Fiat, che ha avviato in Brasile un progetto di co-design con lo scopo di raccogliere idee e feedback da utenti di tutto il mondo per la realizzazione dell’automobile del futuro. La compagnia di Torino ha già realizzato un primo prototipo basato proprio sulle idee più votate e selezionate. In generale, comunque, sono convinto che le cose più interessanti in questo ambito nel nostro paese le vedremo nei prossimi mesi. 

[Original version (english) follows]

Ecco un breve profilo di George per farlo conoscere a chi non lo dovesse aver mai sentito nominare.

 

George Siemens, è direttore associato del Learning Technologies Centre presso l’Università di Manitoba e autore di Knowing Knowledge, un’esplorazione su come il contesto e le caratteristiche della conoscenza siano cambiati, e cosa questo significhi per le organizzazioni di oggi. George è anche fondatore e presidente di Complexive Systems Inc., un learning lab focalizzato sull’assistenza alle organizzazioni nello sviluppo di strutture di apprendimento integrate che incontrino le esigenze di strategie di esecuzione globale.

 

Siemens sarà presente al Social Business Forum 2011 – http://www.socialbusinessforum.it/

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Veniamo ora all’intervista vera e propria.

Pensi che il nuovo trend del “Social Learning” sia assimilabile a quello che tu hai definito – in tempi non sospetti – connettivismo? Oppure credi che siano due concetti differenti? In che modo le due aree si possono conciliare o sovrapporre?

Il Social Learning non è un nuovo trend. I modelli di apprendimento come quelli corporativi delle Gilde e dell’apprendistato hanno invocato molto tempo fa quello che noi oggi chiamiamo Social Learning. Andando ancora più indietro nel tempo, i primi filosofi si appoggiavano quasi esclusivamente al Social Learning, come ci ricordano molto bene le storie che ancora si raccontano su Socrate, Platone ed Aristotele. Ciò che c’è – oggi – di veramente innovativo è la scala sulla quale possiamo essere coinvolti in un processo di Social Learning. Le tecnologie basate sul web riducono moltissime delle barriere che i discenti erano costretti ad affrontare nel passato (tempo e geografia sono solo due delle molte possibili variabili). Con lo sviluppo dei social-network e strumenti come Skype, Google Talk, i device mobili, il livello e la scala rispetto alla quale possiamo essere “social” sono aumentati in modo consistente. In questo senso il “Social Learning” è un ritorno più naturale al nostro modo di apprendere e di interagire con gli altri.

 

In termini di Connettivismo e Social Learning personalmente vedo le attività del Social Learning come parte del Connettivismo. Entrambi i concetti si riferiscono a come si distribuisce la conoscenza ed enfatizzano come problemi complessi possano essere risolti assumendo un’ottica reticolare e sistemica. Il punto in cui il connettivismo differisce dal Social Learning è sull’accesso a risorse e fonti anche non-social. Per esempio: le nuove idee, molto spesso, non sono altro che rielaborazioni di idee che si sono susseguite nei secoli passati. William Rosen nel suo libro The Most Powerful Idea in the World  mette in evidenza proprio questo. Il modo, cioè, in cui le persone connettono tra loro le idee non è sempre sociale. Inoltre, il modo in cui le organizzazioni creano la loro struttura manageriale influenza il modo in cui l’informazione scorre all’interno dell’organizzazione stessa. Il Connettivismo è legato al come queste informazioni, tecniche e strutture sociali impattino e contribuiscano allo sviluppo di innovazione, invenzione e adattamento dinamico dell’individuo e dell’azienda.

Parlando di Social Learning io credo possa essere, in poche righe, definito come un fenomeno emergente che origina a partire dalle reti di conoscenza (knowledge networks) e dai flussi di valore siano essi formali o informali. Cosa ne pensi?

Personalmente ho una visione abbastanza anticonvenzionale del Social Learning. La maggior parte degli esperti e dei consulenti enfatizzano la dimensione sociale e come le nuove tecnologie – Facebook, Twitter e i Blog – contribuiscano a far divenire “social” le persone. Trattano l’aspetto sociale come il più critico all’interno del processo di apprendimento. Io no. Credo che le persone siano mosse prima di tutto dalle informazioni. Processiamo l’informazione costantemente. Da quando siamo bambini, cerchiamo di dare un senso al mondo cercando di rifletterci sopra, di valutare, di connettere le informazioni che incontriamo. E’ un tratto evoluzionistico: siamo esseri viventi basati sulle informazioni.
Ci sviluppiamo in relazione alle informazioni intorno a noi.
Tornando indietro all’epoca in cui l’uomo era un cacciatore-raccoglitore quelli che sopravvivevano erano coloro che erano in grado di dare un senso alle informazioni presenti nel contesto in cui vivevano: quali piante raccogliere, quali animali evitare, di cosa cibarsi e via dicendo.

 

La mia teoria è che il tratto dominante dell’umanità sia l’acquisizione, la processazione e la creazione di informazioni. Impieghiamo approcci sociali che ci consentono di gestire meglio le informazioni. Troppe persone che parlano di Social Learning vedono la dimensione sociale come il punto di arrivo. Io vedo nella ricerca di senso e di una via lo scopo primario che ci fa utilizzare gli approcci sociali per assisterci in un’evoluzione personale e nella sopravvivenza. Questo mi porta alla mia personale definizione di Social Learning: l’appoggiarsi a reti sociali e interazioni per avere assistenza nella propria ricerca di attribuzione di un senso alle informazioni presenti nel nostro contesto.
 

Quale pensi che sarà la prossima “next big thing” parlando di sistemi di apprendimento emergenti e di organizzazioni che si evolvono?

Ho qualche dubbio sulla prossima “next big thing” nell’ambito dell’apprendimento, le scuole, le università e le organizzazioni saranno basate sull’analisi della conoscenza. Produciamo flussi di dati in quasi tutto quello che facciamo (processo amplificato dalle tecnologie mobili). Le nostre idee, le nostre posizioni, quello che leggiamo, con chi interagiamo… Tutto è immortalato in Facebook, Foursquare, Twitter e sui nostri blog. Molte compagnie brancolano nel buio in termini di conoscenza e apprendimento organizzativo. Riconoscere l’enorme quantità di dati e flussi di informazioni che vengono prodotti è il primo passo per muoversi verso un approccio analitico nei confronti degli scopi e degli obiettivi dell’azienda, oltreché un modo per costruire competenza. Attraverso l’analisi dei flussi di informazione le aziende possono comprendere in che modo la conoscenza si muove nelle reti, come le persone collaborano, quali persone dovrebbero lavorare assieme a seconda delle attività che hanno precedentemente svolto e come fronteggiare efficacemente problemi complessi (come ad esempio l’ingresso in un nuovo mercato, l’acquisizione di una nuova azienda, o il lancio di un nuovo prodotto). Le analisi – in sostanza – possono aiutare le aziende a comprendere meglio se stesse.

In che modo pensi che possa essere valutato questo nuovo modello di apprendimento di cui stiamo parlando? E’ chiaro che non possono essere utilizzate logiche vecchie applicate semplicemente a nuovi paradigmi, ma che deve essere rivisto l’intero framework del processi di apprendimento (dell’individuo e dell’organizzazione in generale). Molte ricerche stanno andando nella direzione dell’utilizzo della Social Network Analysis (SNA) per valutare la formazione e l’apprendimento. Cosa ne pensi?

Sono d’accordo con la tua affermazione q
uando sostieni che è necessario che ripensiamo i nostri sistemi di valutazione. Nei primi anni 2000 ho guidato un progetto di Social Network Analysis che ha coinvolto il dipartimento di una grande università degli US. Abbiamo valutato oltre 100 persone del dipartimento e abbiamo cercato di comprendere in che modo essi collaborassero gli uni con gli altri, dove andassero per chiedere aiuto e come usassero le reti sociali a loro disposizione per risolvere i problemi di tutti i giorni.
Comprendere i nodi essenziali della rete del dipartimento è stato un importante primo passo per dare l’avvio ad un cambiamento organizzativo.

 

In modo molto simile, le organizzazioni di oggi hanno bisogno di prendere in considerazioni analitiche nuove e modelli di valutazione innovativi per riconfigurare la loro struttura. La conoscenza che giace nella maggior parte delle organizzazioni non è connessa adeguatamente. Molto spesso certe persone lavorano su alcuni problemi senza sapere cosa fanno gli altri, senza consapevolezza. Per muoversi sul piano dell’apprendimento significativo e di una corretta gestione e crescita della conoscenza, abbiamo bisogno di fare un migliore lavoro nel conoscere cosa sappiamo noi e chi all’interno della nostra azienda conosce cosa. Gli strumenti di analisi giocano un ruolo importante nel mappare la conoscenza organizzativa. In questo senso, le analisi ci forniscono un modello dal quale partire per riconfigurare la nostra azienda. Nel passato i leader hanno preso le decisioni con angoli di visuale completamente ciechi. Per esempio, l’unione di due dipartimenti è stata condotta perché aveva senso dal punto di vista finanziario. Poca è sempre stata l’attenzione posta alla conoscenza e al come l’apprendimento e la costruzione di sapere potrebbero essere influenzati. Con questo tipo di analisi possiamo comprendere meglio alcuni punti ciechi ed eliminare i rischi nella riconfigurazione dei reparti della nostra azienda.

Di che cosa parlerai al prossimo Social Business Forum dell’8 Giugno a Milano?

Assumerò una posizione controversa che metterà in evidenza l’errata concezione che la maggior parte delle organizzazioni possiede quando si parla di Social Learning (come specificato prima vedo le componenti sociali come una sotto-componente della ricerca di senso in contesti complessi, che rappresentano la nostra disposizione evoluzionistica e genetica all’interazione con l’informazione). Partendo da questo presupposto proverò a definire meglio il ruolo che i sistemi di analisi possono giocare nel miglioramento dei processi di apprendimento e nello sviluppo della conoscenza in contesti organizzativi.

Infine vi lascio con una sua vecchia riflessione (ma sempre attuale) sulla concezione Connettivista: the Network is the Learning

English Version

Here’s the original version of the interview made with George Siemens.

George Siemens, is an Associate Director with the Learning Technologies Centre at University of Manitoba and author of Knowing Knowledge, an exploration of how the context and characteristics of knowledge have changed, and what it means to organizations today. George is also Founder and President of Complexive Systems Inc., a learning lab focused on assisting organizations develop integrated learning structures to meet the needs of global strategy execution.

Geroge Siemens will be at the Social Business Forum 2011 – http://www.socialbusinessforum.it/

What do you think about this new “Social Learning” trend? Is it similar to what you have defined – some years ago – as Connectivism? Or do you think these are two different themes? How can we reconcile, or overlay, the two areas ?

Social learning isn’t a new trend. Guild and apprentice models of learning have long relied on social learning. Going back even further, early philosophers relied almost exclusively on social learning, as the lineage of Socrates, Plato, and Aristotle affirms. What is new today is the scale at which we can be involved in social learning. The web reduces many of the barriers learners faced in the past – such as time and geography. With the development of social networks and communication tools such as Skype, Google Talk, and mobile devices, the scale at which we can be social has increased dramatically. In this regard, the “social learning” trend is really more of a return to more natural ways of learning and interacting with others.

 

In terms of connectivism and social learning – I view social learning activities as part of connectivism. Both concepts address how knowledge is distributed and emphasize that complex problems can  best be addressed through relying on connected specialization. Where connectivism differs is in its emphasis on non-social information sources. For example, new ideas are often “assemblies” of ideas that span centuries. William Rosen details the heritage of new ideas and inventions the steam engine and industry in general in his book The Most Powerful Idea in the World. How people connect ideas is not always social. And how organizations create their managerial structure determines how information will flow through the company. Connectivism is concerned with how these broad information, technical, and social structures contribute to individual and organizational capacity for innovation, invention, and adaptation.
Speaking again of Social Learning I believe that could be roughly defined as an emerging phenomenon that originates from  knowledge networks
and value streams whether formal or informal. What do you think? What is your definition of Social Learning?
I have a fairly unconventional view of social learning. Most pundits and consultants emphasize the social dimension and how new technologies – Facebook, Twitter, blogs – contribute to helping people be “social”. They treat the social aspect as the most critical aspect of the learning process. I don’t. I believe that humans are first and foremost information-driven beings. We process information constantly. From infant stage onward, we seek to make sense of the world by taking in, evaluating, and connecting the information that we encounter. This is an evolutionary trait – we are information-based beings. We develop in relation to the information around us. Back in hunter-gatherer era of human history, incoming information could be in the form of which plants to eat, which animals were dangerous, and so on. Those who were capable of making sense of the information in their context survived.

 

My argument is that humanity’s dominant trait is information acquisition, processing, and creation. We employ social aspects to the extend that it enables us to manage information. Too many people advocating for social learning see the social dimension as the end. I view our sensemaking and wayfinding attributes as primary and that we employ social mechanisms to assist in our evolution and survival. Which leads me to my definition of social learning: The reliance on social networks and interactions to assist us in making sense of the information in our context.
Talking about the future of learning (and also about organizational learning) what do you think will be the “next big thing”?
I have little doubt that the next big thing in learning – schools, universities, and organizations – will be based on learning and knowledge analytics. We produce data trails in almost everything we do – a process amplified by the prevalence of mobile devices. Our ideas, our locations, what we’ve read, and who we interacted with are captured on Facebook, Foursquare, Twitter, and our blogs. Most companies fly blindly in terms of organizational knowledge and learning. Recognizing the incredible value of the data trails that employees produce is the first step toward an analytics-based  approach to organizational goal achievement and capacity building. By analyzing data trails, organizations can understand how information flows through the network, how people collaborate, which people would best work together based on previous activities in organizational teams, and how to cost effectively address complex problems (such as entering a new market, acquiring a new company, or rolling out a new product). Analytics helps organizations to understand themselves.
How do you think could be evaluated this new model of learning we are talking about? It is clear that is not possible to simple apply old methodologies to new paradigms. Instead – I believe – we must completely reconfigure and redesign our assessment framework. Many studies are underlining the value of Social Network Analysis (SNA) to assess training processes and to better unrestrained the whole organization, trying to define new metrics and a way to measure the ROI. What is your experience in this field? And what do you think about this approach?
I agree with your statement of a need to reconfigure and redesign assessment frameworks. In early 2000, I lead a social network analysis project of a department at a major US university. We evaluated over 100 members in the department and tried to evaluate how people connected with each other, where they went for information help, and how they used social networks for solving problems. Understanding the networked-backbone of the department was an important first step in making organizational changes.

 

Similarly, organizations today need to consider advanced analytics models as the basis for reconfiguring their company. The knowledge that exists in most companies is not well connected. Often people are working on similar problems without awareness of the work of others. To address quality of learning and knowledge growth, we need to do a better job of knowing what we know and who in the company knows what. Analytics play an important role in mapping organizational knowledge. In a sense, analytics provide us with a blueprint for reconfiguring a company. In the past, leaders made decisions with large blind spots in their vision. For example, merging two departments was done because it made sense financially. Little attention was paid to how knowledge, learning, and capacity building would be impacted by the merger, which could produce unintended drops in productivity, and loss of key staff. With analytics, we can eliminate some of the decision blind spots involved in reconfiguring departments.
Your speech here in Milan is planned for the next 8th of June: which themes you will address?
I will take the controversial stance that most organizations misunderstand the purpose of social learning (as detailed earlier, I view the social aspects of learning as being a sub-component of sensemaking and wayfinding in complex settings – i.e. our genetic and evolutionary disposition for interacting with information). After making this argument, I will detail the role that analytics can play in improving learning and knowledge development in organizational settings.