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Chi segue questo spazio sa che, oltre al digitale, uno dei temi a me più cari è quello che riguarda i nuovi modelli di lavoro e le modalità attraverso le quali è possibile disegnare un’impresa differente, maggiormente collaborativa, resiliente e capace di adattarsi ai cambiamenti che il mercato impone.
L’anno 2020, con la pandemia da Covid-19, è stato – in questo senso – maestro e ci ha mostrato in modo evidente quanto inadatte e inefficaci fossero le nostre organizzazioni ad attraversare scenari inediti. Ha rappresentato, a conti fatti, anche un’importante occasione per riflettere sul futuro che vogliamo disegnare.

E’ per questo che il volume edito da Hoepli Milano e che ho scritto in questo periodo: Future of Work: le Persone al Centro, costruire il lavoro e la società del futuro rappresenta un punto saldo di partenza per tutti quei professionisti e per quelle imprese che intendano seriamente mettersi in discussione e prendere in mano la direzione dei propri modelli organizzativi.
Il libro offre casi, spunti, riflessioni teoriche ed esempi pratici attraverso i quali ripensare quello che facciamo quotidianamente.

Come scrive Jacob Morgan nella postfazione del volume:

Che cos’è il futuro del lavoro? 

Questa è una domanda che mi viene spesso posta durante le conferenze, gli eventi, e anche online, dalla mia community.
Nessuno può predire il futuro, ma la verità è che, questa, è una domanda sbagliata.
Chiedersi “che cosa è il futuro del lavoro” dimostra un atteggiamento passivo; assume che il futuro sia un qualcosa che accade e che non ci sia niente che possiamo fare per modificarlo. Tutto quello che è in nostro potere è attendere e subire l’impatto del cambiamento. È un’attitudine sbagliata verso il ciò che deve arrivare: non dobbiamo pensarlo in questo modo. Il futuro è qualcosa che immaginiamo, costruiamo e definiamo noi stessi, come protagonisti del cambiamento: dobbiamo cambiare il nostro punto di vista, dobbiamo riformulare la domanda. È tempo di chiedersi: “quale futuro del lavoro vuoi vedere realizzato?” e pensare a cosa puoi fare per vederlo accadere.
Cambiare il modo in cui pensiamo al futuro del lavoro ci mette al posto di guida e rende ognuno di noi un protagonista attivo della narrazione. 
Le persone che prenderanno posizione e si spenderanno in prima persona per il futuro del lavoro giocheranno un ruolo chiave nella trasformazione e nel cambiare il mondo in cui viviamo. 

Quindi domandiamoci: qual è il futuro del lavoro che vogliamo vedere realizzato? 

È ora di renderlo reale. 

Il libro vanta preziosi contributi da parte di esperti di settore e di personalità di spicco nel mondo del lavoro. Oltre a rendermi molto orgoglioso, sono convinto possano rappresentare una efficace bussola per navigare il futuro del lavoro e il mondo delle nostre organizzazioni.

Tra i principali contributi che troverete all’interno del volume:

  • Carlo Bozzoli, CIO di ENEL Group, che ha curato la prefazione del volume
  • Jacob Morgan, autore di best seller e speaker di fama internazionale, che ha curato la postfazione del volume
  • Carlo Chiattelli, economista e Associate Partner EY
  • Alessandro Antonini, Senior Manager di EY
  • Manuela Cantoia, Professore di Psicologia Generale presso l’Università eCampus
  • Andrea Gaggioli, Professore di Psicologia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore
  • Cosimo Accoto, MIT research affiliate e autore di “il mondo ex machina” e “il mondo dato”
  • Luigi Centenaro, autore del Personal Branding Canvas, consulente e autore di diversi volumi sul tema del personal branding
  • Paolo De Caro, Senior Manager di EY e responsabile del centro di innovazione e sviluppo (Brain)

Il volume si articola in diversi capitoli che comprendono analisi specifiche, casi d’uso ed esempi pratici per comprendere in che modo il mondo del lavoro sia cambiato e si modificherà nel prossimo – immediato – futuro.

Di seguito l’elenco dei capitoli:

  • Capitolo 1 – Resilienza, trasformazione e il futuro del lavoro
  • Capitolo 2 – Casi d’uso, modalità di approccio e contesti operativi per il lavoro del futuro
  • Capitolo 3 – Errori e ostacoli che impediscono la trasformazione delle organizzazioni
  • Capitolo 4 – Una roadmap per costruire organizzazioni resilienti
  • Capitolo 5 – Progettare e costruire il Future of Work: creare esperienze trasformative e Positive Innovation Network
  • Capitolo 6 – Automazione e intelligenza artificiale nel futuro del lavoro
  • Capitolo 7 – Skill e competenze: il ruolo delle persone
  • Capitolo 8 – Verso un ripensamento dei modelli educativi e di formazione
  • Capitolo 9 – Purposeful Organization e il ruolo della leadership nella trasformazione
  • Capitolo 10 – Agile, Holacracy e nuovi modelli di organizzazione
  • Capitolo 11 – Costruire valore per l’intero ecosistema

Il mondo che costruiamo – e che costruiremo – passerà dalla nostra capacità di organizzarci secondo comunità e modelli relazionali.

Come si legge nel volume:

In un’analisi famosa relativa alla natura della comprensione scientifica dei fenomeni, il fisico quantistico Werner Heisenberg ha avuto occasione di sottolineare come capire significhi in un’ultima istanza saper individuare il legame che riconduce fenomeni diversi allo stesso insieme coerente. La vera comprensione della realtà sa superare la complessità superficiale dei fenomeni e mettere in evidenza la struttura coerente che sta dietro di essi. 

Il futuro della società e del senso delle organizzazioni e del lavoro di ognuno di noi passa per le parole, visionarie e illuminate di Adriano Olivetti, che nella sua azienda e il territorio del Canavese sono diventati poi laboratorio e ispirazione per molte realtà nel mondo.
È facile riconoscere nelle sue parole quei concetti propri di collaborazione, di innovazione partecipata, ma anche di smart cities, di green valley, di sostenibilità dell’innovazione e del modo di lavorare delle persone, dei digital district periferic, ma che sono poi centri di eccellenza della nuova e futura società dell’informazione. Scrive Olivetti: “Comunità, io nome lo dice, e il programma lo afferma, è un movimento che tende a unire, non a dividere, tende a collaborare, desiderare, insegnare, mira a costruire […].
Tecnica e cultura conducono verso il decentramento, verso la federazione di piccole città dalla vita intensa, ove sia armonia, pace, silenzio, lontano dallo stato attuale delle metropoli sovraffollate come dall’isolamento e dallo sgomento dell’uomo solo.”

Non vi resta che procurarvene una copia e poi proseguire la discussione su questo spazio o sui miei canali social: fatemi sapere cosa ne pensate!

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Chi mi segue da un po’ di tempo – sia su questo blog sia altrove – sa bene che mi sono sempre occupato di trasformazione digitale, iniziando a lavorare nell’ambito nell’ormai lontano 2008.
In questi anni ho avuto il piacere di aiutare moltissime organizzazioni italiane e internazionali nell’evoluzione dei loro modelli di business e di lavoro verso scenari maggiormente partecipati, inclusivi, collaborativi, efficaci e – per l’appunto – digitali. In questo spazio, e su tanti altri canali, abbiamo avuto modo di riflettere come il digitale, e ormai lo sappiamo con certezza, sia molto più legato a una trasformazione di modelli culturali, di mindset e di pratiche organizzative che non una mera implementazione tecnologica di piattaforme (per quanto importante e non trascurabile).

Grazie alla collaborazione con Ninja Academy / Ninja Marketing nasce un volume che vuole tentare di essere una sintesi di tutto quanto appreso negli ultimi anni di lavoro. Un manuale per disegnare il futuro delle nostre imprese che sia sempre più abilitato da piattaforme e tecnologie collaborative.

Digital Transfomer – Stefano Besana

Nel corso dell’opera saranno – infatti – affrontati tutti i temi che riguardano l’evoluzione dei nostri modelli di lavoro, prendendo in esame in che modo marketing, innovazione, governance, processi interni, collaborazione, educazione si modificano e cambiano su sollecitazione delle innovazioni tecnologiche.

Al libro, per chi fosse interessato, è associato anche un corso che prevede diverse ore di lezione e molte esercitazioni che costituiscono un percorso di apprendimento davvero verticale sul tema. Per coloro che volessero approfondire i temi e avere una formazione completa sull’argomento è assolutamente consigliato.

Tornando ai temi del volume è bene sottolineare come quello dell’evoluzione tecnologica e digitale sia un tema rilevante ed è da considerarsi parte integrante del nostro mondo e del modo attraverso cui ci relazioniamo con le persone che ci circondano.

Come sostiene anche Fritjof Capra ne La scienza della Vita, parlando della tecnologia:

«Le sue origini risalgono ai primordi della specie umana, quando il linguaggio, la coscienza riflessiva e la capacità di fabbricare utensili (la prima forma di tecnologia) si evolsero assieme. Di conseguenza, alla prima specie umana, fu dato il nome di Homo Habilis, proprio a indicare la sua abilità nel fabbricare sofisticati utensili. La tecnologia è quindi una caratteristica essenziale della natura umana: nella sua storia è racchiuso l’intero cammino dell’evoluzione umana.»

Come anticipato, il libro si compone di diversi capitoli che analizzano, approfondendole, le diverse tematiche relative al mondo digitale e a come questo abbia profondamente modificato il nostro modo di fare innovazione, marketing e – in senso più allargato – impresa.

E’ al tempo stesso un saggio e un manuale che vuole, da un lato, analizzare i profondi cambiamenti che la nostra società ha vissuto nel corso degli ultimi anni e – dall’altro – fornire uno strumento utile per interpretare i fenomeni organizzativi e per indirizzare nuovi modelli di lavoro all’interno delle imprese.

Le sezioni del volume sono:

  • Capitolo 1 – Digital trends. Essere digitali oggi
  • Capitolo 2 – Digital operating model.
  • Capitolo 3 – Digital customer. Ascoltare, attrarre e gestire i clienti grazie al digitale
  • Capitolo 4 – Digital marketing. Comunicare in modo integrato e digitale
  • Capitolo 5 – Digital Governance. Processi, organizzazione e strumenti per rendere concreta la trasformazione
  • Capitolo 6 – Digital Collaboration: abilitare il cambiamento organizzativo
  • Capitolo 7 – Digital Training ed Education. Cambiare i modelli di formazione
  • Capitolo 8 – Digital Innovation: ripensare il modo di fare innovazione
  • Capitolo 9 – Digital Analytics e misurazione
  • Capitolo 10 – Digital Society. Quali evoluzioni e prospettive ci aspettano?

Che dire? Se siete interessati al tema non vi resta che procurarvene una copia e discuterne qui o altrove per darmi la vostra opinione. Mi trovate su tutti i social o nei commenti qui sotto!

Per chiudere con una citazione di Antoine de Saint-Exupéry, l’autore de Il Piccolo Principe:

«La tecnologia non tiene lontano l’uomo dai grandi problemi della natura, ma lo costringe a studiarli più approfonditamente».

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Chi segue questo blog da qualche tempo sa bene che uno dei temi – forse IL tema per eccellenza – di cui mi occupo è quello legato a come costruire organizzazioni maggiormente agili, resilienti e collaborative.

Negli ultimi 10 anni ho speso buona parte del mio tempo a supportare organizzazioni di medie e grandi dimensioni e a complessità variabile nella definizione della migliore strategia di cambiamento che rimettesse le persone al centro del business.
Modelli di aziende maggiormente innovative, trasparenti, collaborative sono possibili e generano un vantaggio competitivo notevole all’interno del mercato di cui fanno parte.
Non solo: questi modelli rimettono al centro le persone, motivandole a dare il meglio e costruendo con loro una nuova era di valore della quale possano beneficiare tutti gli stakeholder coinvolti.

Stefano Besana - Collaborative Company

Stefano Besana – Collaborative Company EGEA – Tag Innovation School Books

Da una collaborazione con Alessandro Rimassa e Talent Garden Innovation School è nato, quindi, “Collaborative Organization“: un piccolo breviario ricco di esempi e di considerazioni che assommano un decennio di lavoro nelle aziende e che si propone di divenire una piccola guida che possa contribuire a un cambiamento – anche minimo – all’interno del nostro modo di concepire le aziende.

Come si legge nel volume:

Il concetto non è nuovo e si applica a molte delle svolte che hanno condizionato il pensiero occidentale: Randall Collins nel suo The Sociology of Philosophies (1998) sottolinea come la Mittwochsgesellschaft (la società del mercoledì di Berlino, gruppo di pensatori tedeschi liberali) si ampliò progressivamente nel corso degli anni; o come Pisarro e Degas si iscrissero alla Ecole des Beaux Arts nello stesso momento e di come fecero poi la conoscenza di Cézanne e Renoir al Café Guerbois; cambiando paradigma di riferimento, le jam session funzionano allo stesso modo sviluppando una vera e propria group mind durante le sessioni e, ancora, Hegel, Schelling e Hölderlin furono compagni di scuola a Tubinga. Secondo Collins queste interazioni non casuali generano dei veri e propri rituali che si traducono in un capitale culturale di altissimo valore mettendo a fattor comune esperienze, conoscenze e soprattutto relazioni che un soggetto acquisisce nel corso della sua vita.

Si tratta di un modello che rimette al centro la nostra capacità di avere un impatto concreto sul mondo, poiché – come sottolinea tra gli altri Mihaly Csikszentmihalyi:

“Non si può condurre una vita che sia veramente eccellente senza sentire che si appartiene a qualcosa di più grande e permanente di se stessi”.

Un nuovo modello di lavoro è possibile e – per certi versi – è già in atto.

Curiosi?
Potete trovare – edito da Egea – sul sito ufficiale della casa editrice o su Amazon: http://amzn.eu/d/4GAi3rg

Già Wenger (1991; 2006) nel suo celebre lavoro sulle comunità di pratica ha sottolineato l’importanza, sia per le organizzazioni sia per gli individui, di cogliere quell’apprendimento inafferrabile, intangibile che rappresenta – però – il vero nucleo di conoscenze che si possiedono. Considerato in questo modo, l’apprendimento diviene un fenomeno emergente che si colloca in un orizzonte di riflessione sulle pratiche e sugli interessi soggettivi delle persone che fanno parte di comunità in cui scambi e relazioni oltreché attività concrete fanno da collante strutturale. La riflessione sulle CdP non riguarda però semplicemente l’apprendimento ma considera molto da vicino anche i cambiamenti organizzativi che sono connessi a un approccio di questo tipo. A livello molto generale possiamo considerare le tecnologie di digital collaboration – se opportunamente organizzate – come un’evoluzione del concetto di comunità di pratica teorizzato da Wenger.

In questa stessa direzione Lipari (2009) definisce la pratica come

un processo d’azione stabilizzato e al tempo stesso dinamico, ha luogo in un contesto storico-sociale determinato e coinvolge individui e gruppi nello svolgimento di attività le cui caratteristiche tecniche, operazionali e di significato si strutturano nel tempo consolidandosi in abitudini che a loro volta si fissano nella memoria collettiva, diventando tradizione e punto di riferimento per l’azione di tutti” (pp. 24-26).

A livello organizzativo le comunità di pratica rappresentano quindi un anello di congiunzione fondamentale tra la conoscenza tacita e non strutturata presente all’interno dell’impresa e la conoscenza formale, gerarchizzata e strutturata all’interno dei silos organizzativi. In questo la social collaboration si pone come veicolo ideale per: (1) portare alla luce e far emergere pratiche consolidate all’interno del modus operandi dei dipendenti, spesso inconsapevoli di quello che – effettivamente – conoscono; (2) cristallizzare la conoscenza all’interno di unità definite e organizzabili (e.g. un wiki, un forum, un’area di discussione condivisa); (3) diffondere e rendere riutilizzabile nel tempo la conoscenza acquista e formalizzata all’interno dell’impresa [1].

Il concetto di CdP non è però l’unico al quale il percorso di digitalizzazione dell’azienda fa riferimento. Un’altra dimensione importante è quella di cultura organizzativa, primariamente teorizzata da Jacques nel volume The Changing Culture of a Factory (1951) e ripresa da Schein (1990) in diversi studi. Sommariamente possiamo definire la cultura organizzativa come un insieme di assunti di base che si sono rivelati particolarmente validi tanto da essere trasmessi ed indicati come modo corretto di percepire, pensare e sentire all’interno dell’impresa. Il sapere e le conoscenze accumulate nel tempo dall’organizzazione sono poi trasmessi attraverso specifici processi di comunicazione. Secondo Schein la cultura organizzativa si compone di:

  • Artefatti: creazioni ed espressioni artistiche, tecnologie impiegate, comportamenti manifesti e linguaggio scritto e orale proprio di un’organizzazione
  • Valori: modalità operative, principi, credenze e idee, codici morali ed etici
  • Assunti di base: assunzioni implicite e inconsapevoli, modalità di percepire e di pensare, indicazioni fondamentali circa l’organizzazione.

A livello di digital transformation risulta fondamentale indagare la cultura organizzativa con un duplice scopo: (1) valutare e comprendere la prontezza individuale e dell’impresa nell’intraprendere un percorso di cambiamento organizzativo. Non necessariamente il digitale rappresenta una strada che l’impresa intende intraprendere e lanciare un progetto di questo tipo senza aver opportunamente indagato la cultura sottesa può rappresentare un rischio enorme per il successo del progetto. (2) Indagare la cultura e la prontezza dell’impresa risulta utile per identificare in anticipo eventuali possibili problemi e resistenze che potrebbero impedire l’adozione di un approccio collaborativo e indirizzarli in anticipo per poter trovare soluzioni significative.

Altre dimensioni di analisi che toccano il fenomeno della digital collaboration e che riguardano più da vicino il tema dell’employee engagement inteso come uno stato psicologico positivo dell’individuo sono rintracciabili nel percorso di evoluzione verso un modello maggiormente digitale e collaborativo. Sono molte – in questa direzione – le ricerche che hanno dimostrato gli effetti positivi che un elevato engagement dei dipendenti ha sull’intera azienda. Miglioramento dell’impegno organizzativo e alte prestazioni (Salanova, Agut e Peirò, 2005), basso assenteismo, capacità di servire meglio il cliente, migliore soddisfazione personale, riduzione del rischio di burn-out. Un migliore engagement stimolato dalle community interne di dipendenti basate sulla collaboration non solo darebbe numerosi benefici ai dipendenti, ma sarebbe in grado – in modo indiretto – di migliorare la produttività dell’impresa in una dinamica win-win.

A questo concetto strettamente si correla quello di clima organizzativo, un costrutto psicologico che sottolinea l’importanza di trovare un buon equilibrio tra produttività e soddisfazione personale dei dipendenti intesa anche come qualità della vita professionale condotta. Il clima organizzativo ci aiuta a porre in evidenza in che modo i processi di digital e social collaboration vadano a contribuire al rafforzamento di un clima positivo, basato su modalità di lavoro più snelle, immediate, agili e in grado di rispondere più velocemente alle sfide che sono imposte dal mercato. Il clima organizzativo influenza (ed è influenzato) da numerosi punti chiave sui quali si basano gli approcci collaborativi:

  • gerarchia e ruoli all’interno dell’azienda, contribuendo a rendere maggiormente rilevante la competenza rispetto alla posizione occupata all’interno dell’organizzazione;
  • sistemi di riconoscimento e incentivi nell’adozione di meccanismi che premino non soltanto i risultati, ma il modo attraverso cui si raggiungono, non solo l’ambito economico ma anche la reputazione personale e la visibilità interna ed esterna all’impresa;
  • responsabilità individuale: fornendo a tutti la capacità di esprimersi in prima persona e di rispondere delle proprie azioni aumentando il senso di autoefficacia complessivo e la capacità delle persone di costruirsi un network di fiducia personale;
  • motivazione delle persone: dell’employee engagement abbiamo parlato in precedenza, in questa sede basti sottolineare l’importanza e l’impatto – molto elevato – che ambienti collaborativi hanno nell’aumento della motivazione individuale delle persone che – a sua volta – gioca un ruolo decisamente significativo sul clima organizzativo
  • senso di appartenenza all’azienda: nessun uomo è un’isola e l’appartenenza a un gruppo rappresenta uno dei bisogni fondamentali dell’individuo. All’interno dell’azienda questo bisogno si esprime tramite il senso di appartenenza che può fortemente essere influenzato dalle modalità di lavoro collaborativo che consentono di socializzare esperienze (anche non necessariamente lavorative) e di mettere a fattor comune idee e progetti;
  • accesso alle informazioni: l’accesso alle informazioni viene notevolmente semplificato e il riutilizzo della conoscenza reso molto più immediato. Questo consente di ridurre i livelli di frustrazione complessiva e di migliorare l’ambiente di lavoro;
  • autonomia e coordinamento complessivi: ambienti collaborativi influiscono sul clima aziendale contribuendo alla creazione di spazi di maggiore autonomia e di coordinamento. Strumenti di questo tipo permettono – infatti – di rimanere allineati sul lavoro degli altri, di perdere meno tempo in riunioni e meeting di allineamento e di aggiornamento e di avere migliore visibilità su quanto accade all’interno dell’impresa. Tutto questo contribuisce, in maniera più o meno diretta a generare un clima aziendale più trasparente e meritocratico.

Un’ulteriore riflessione che si collega fortemente alla dimensione psicologica può essere fatta prendendo in considerazione direttamente lo strumento tecnologico che rende possibile l’introduzione di ambienti collaborativi nell’organizzazione. Le piattaforme digitali che entrano in gioco all’interno dei processi di definizione di social e digital collaboration, rappresentano di fatto dei medium. Riva (2008) rileva come i nuovi media portino sempre con sé quattro caratteristiche peculiari legate – appunto – al passaggio da un’informazione analogica a una digitale. Queste caratteristiche sono:

  • Modularità: riguarda la possibilità di scomporre il contenuto in una serie di elementi discreti (detti appunto moduli) ed è il coronamento della separazione tra i contenuti e il supporto fisico del medium.
  • Interattività: la possibilità di fruire il contenuto mediante la navigazione tra una serie di nodi che sono collegati tra loro.
  • Automazione: la possibilità di svolgere azioni in automatico, senza che l’utente ne sia necessariamente consapevole.
  • Variabilità: la possibilità che i nuovi media possiedono di essere riutilizzati e impiegati in modi differenti, producendo più versioni dello stesso oggetto.

L’introduzione di un medium all’interno di una cultura non implica una semplice rivoluzione tecnologica, ma, come sostenuto anche da Mantovani (1995) una vera e propria riconfigurazione delle opportunità di mediazione culturale a disposizione dei soggetti. Ancora una volta, e casomai ce ne fosse ancora bisogno, viene sottolineata l’importanza che la cultura gioca all’interno di processi di trasformazione di questo tipo. L’introduzione di un medium all’interno della situazione esperita dai soggetti – infatti – li impone e li obbliga ad adattarsi al cambiamento. Sempre Mantovani (1998) riprende l’interessante metafora del bastone del cieco elaborata da Gregory Bateson nel 1972 all’interno del suo celebre volume Verso un’ecologia della mente: il bastone di Bateson (il medium dei giorni nostri)

è una protesi che filtra l’informazione disponibile e rende accessibili solo determinate esperienze. Tutti noi siamo cechi, in un certo senso, ed esploriamo la realtà con l’aiuto di strumenti, gli artefatti, attraverso cui conosciamo le cose e agiamo nel mondo” (Mantovani, 1998 pp. 121-122).

In questo senso le piattaforme digitali di social collaboration possono essere lette non solo come un medium, ma come un’affordance in grado di fornire all’utente una vasta serie di potenzialità esplorabili che prima non erano nemmeno ipotizzabili.

Un altro concetto fondamentale per la comprensione dell’esperienza e di come questa viene modificata dai media digitali è quello di interfaccia. L’interfaccia può essere definita come

l’insieme di caratteristiche del medium che si pone in mezzo tra i diversi utenti consentendogli di raggiungere la propria intenzione” (Riva, 2008).

Ll’interfaccia assume una dimensione fondamentale e richiede una riflessione specifica non solo perché responsabile di come – effettivamente – è costruita l’intera esperienza, ma anche perché in grado di inibire o facilitare l’attuazione delle intenzioni all’interno del medium stesso [2]. L’interfaccia ha poi una funzione anche sulle informazioni che l’utente desidera fruire, attraverso la loro presentazione – infatti – guida l’utente nella scelta di ciò che deve essere colto dalla sua attenzione orientando la lettura della realtà che lo circonda. Riva (2008) rileva come – poi – l’interfaccia nei media digitali assuma caratteristiche specifiche che la portano a separarsi dal medium stesso e a porsi come una sorta di meta-medium, essendo caratterizzata da dimensioni fisiche, simboliche e pragmatiche proprie.

In sintesi si può dire che l’interfaccia all’interno dell’universo dei media digitali ricopra tre ruoli fondamentali:

  1. Rappresenta le caratteristiche del medium attraverso un modello.
  2. Rende “visibili” gli oggetti digitali contenuti al suo interno.
  3. Facilita l’uso mediante un’opera di filtro e selezione degli stimoli e dei contenuti.

Gli ambienti digitali possono essere, poi, analizzati alla luce della teoria dell’inter-azione situata che consente di comprendere meglio come i processi comunicativi e relazionali siano influenzati dall’essere all’interno di una situazione “aumentata” dai media.

Cercando di riassumere i concetti alla base di questa teoria, Riva (2008) chiarifica le dimensioni fondamentali che entrano in gioco durante una comunicazione mediata.

  • Intenzione: ogni comportamento è espressione di una complessa rete intenzionale organizzata su più livelli e messa in atto mediante una pluralità di canali, questa definizione è un’integrazione delle posizioni di Anolli (2006) e Pacherie (2008) con quelle della pragmatica della comunicazione (Watzlawick, Beavin e Jackson 1971). Le intenzioni sono una struttura dinamica organizzata su più livelli, questa si sviluppa gerarchicamente secondo tre fasi specifiche:
    • le intenzioni motorie (prensione, contrazione…): sono innate e la loro soddisfazione è data dall’azione stessa, l’oggetto di queste intenzioni è sempre il “semplice” movimento del corpo;
    • le intenzioni prossimali: nascono come combinazione di diverse intenzioni motorie dirette verso un oggetto del mondo presente, la loro soddisfazione dipende dal rapporto tra il contenuto intenzionale (prendere la macchina fotografica) e l’oggetto del mondo reale a cui è diretto (la macchina fotografica);
    • le intenzioni distali: sono composte da una catena d’intenzioni motorie e prossimali dirette verso un oggetto che può non far parte del mondo reale ma dell’universo del possibile.

La soddisfazione delle intenzioni motorie e prossimali riguarda sempre il rapporto tra il soggetto, il corpo e il mondo degli oggetti. La verifica delle intenzioni distali – invece – è sempre “situata”, in riferimento al rapporto tra il soggetto, le sue rappresentazioni e i suoi mondi possibili.

Accanto al concetto d’intenzione e del suo ruolo specifico nell’esperienza del soggetto, la teoria dell’inter-azione situata richiede l’ingresso in gioco di altri concetti ugualmente importanti, questi assunti riguardano la capacità di cogliere gli stimoli provenienti dall’ambiente (affordance) e la sensazione che sperimenta il soggetto (presenza e presenza sociale). Con il termine affordance s’intende l’opportunità di azione offerta dall’ambiente all’utente, una sorta d’invito – cioè – che l’ambiente rivolge a essere usato in un determinato modo . Le affordance si suddividono in due categorie:

  • Dirette: se sono il risultato di un flusso d’informazione. Sono stabili e non si modificano se non cambiando le proprietà fisiche dell’oggetto
  • Mediate: risultato di un’interpretazione che il soggetto attribuisce all’ambiente; a caratterizzare questo tipo di affordance è invece la sua relatività, infatti, è il risultato sia del significato attribuito all’oggetto, sia dell’analisi del contesto

L’affordance ha quindi carattere dinamico ed è il risultato di un’interpretazione di ciò che l’utente è in grado di cogliere dall’ambiente e non solo di ciò che l’ambiente (reale o digitale) è in grado di offrirgli.

Ma cosa ne è dell’esperienza del soggetto?  Quali sensazioni è possibile sperimentare all’interno di un ambiente digitale? Per rispondere a queste domande è possibile introdurre due concetti che forniscono una dimensione chiara di dove si collochi l’esperienza del soggetto all’interno di situazioni in cui entrano in gioco i media digitali.

  • Presenza: con questo termine s’intende la sensazione di “essere” all’interno di un ambiente fisico o digitale, che risulta dalla capacità/possibilità di attuare le proprie intenzioni (Riva, 2008: p. 127). Si divide, anch’essa, in tre livelli fondamentali:
    • protopresenza: ovvero, la capacità di attuazione delle intenzioni motorie attraverso il solo movimento del corpo;
    • presenza nucleare: la capacità – cioè – di attuazione delle intenzioni prossimali attraverso l’identificazione delle affordance dirette;
    • presenza estesa: capacità di attuazione delle intenzioni distali, attraverso l’identificazione delle affordance mediate.
  • Presenza sociale: la sensazione di “essere con altri da Sé” all’interno di un ambiente fisico o digitale, che risulta dalla capacità/possibilità di comprendere le intenzioni degli altri (Riva, 2008: p. 49). Anche in questo caso si possono distinguere tre differenti livelli:
    • proto-presenza sociale: la capacità di riconoscimento delle intenzioni motorie, che permettono al Sé di riconoscere un Altro intenzionale;
    • presenza sociale oggettuale: la capacità di riconoscimento delle intenzioni motorie e prossimali che consente al Sé di riconoscere un Altro la cui intenzione è rivolta verso di lui;
    • presenza sociale empatica: la capacità di riconoscimento delle intenzioni motorie, prossimali e distali, che consente al Sé di riconoscere un Altro le cui intenzioni corrispondano a quelle del Sé.

La teoria dell’inter-azione situata, quindi,

suppone che la coerenza dell’azione non sia spiegata adeguatamente da schemi cognitivi preconcetti, né da norme sociali istituzionali. Piuttosto, l’organizzazione dell’azione situata è una priorità emergente delle interazioni momento per momento degli attori” (Riva, 2008: p. 90).

Essere presenti all’interno di una specifica situazione riveste un ruolo importantissimo per l’apprendimento e per i processi di conoscenza ad esso legati: l’essere umano è tale in quanto immerso sempre in una situazione, in un ambiente che ne determina i confini e le possibilità. La situazione formativa e l’esperienza di apprendimento che ne deriva (sia essa auto-diretta dal soggetto o etero-diretta) è sempre la combinazione di più elementi che concorrono a determinare uno “sfondo” specifico (tempi, modalità, azioni, vincoli, relazioni…) all’interno del quale si muovono i soggetti (Reggio, 2003). A livello organizzativo questo legame si esplica molto bene nella relazione tra gestione della conoscenza e piattaforme collaborative e/o di apprendimento digitale.

Più in generale, sul duplice rapporto e influenza tra media (canali digitali e non) e cultura, esperienza del soggetto è stato scritto parecchio. Tra le posizioni maggiormente interessanti e in linea con la riflessione presentata all’interno di questo lavoro vi è sicuramente quella di Huges, che afferma:

un sistema tecnologico può essere la causa o l’effetto: può influenzare la società o essere influenzato da essa. Man mano che crescono e diventano più complessi, i sistemi tendono più a influenzare che a essere influenzati. Per questo motivo, il momento dei sistemi tecnologici è un concetto che può essere collocato a metà strada tra i poli del determinismo tecnologico e del costruttivismo sociale” (Hughes, 1994: pp. 103-104).

In questa stessa direzione si collocano anche le riflessioni del più recente modello bi-circolare bi-direzionale sviluppato da Antonietti & Colombo (2008) inizialmente introdotto per spiegare il rapporto tra studenti e Computer Supported Learning Tools (CSLT), ma il cui impianto si presta molto bene a descrivere il rapporto tra nuove pratiche, rappresentazioni mentali degli utilizzatori e media digitali in generale. Tale modello consente di tenere in considerazione come le rappresentazioni e le credenze (implicite o esplicite) delle persone circa il mezzo che utilizzano, influenzino concretamente i processi che sono attuati; al contempo, sottolinea anche le dinamiche bi-direzionali esercitate dal medium o dall’uso sull’utente e viceversa. La novità e insieme il pregio di questo modello è di porre l’accento su una dimensione spesso non considerata nelle ricerche che è quella relativa alle credenze implicite delle persone riguardo ad un determinato oggetto (tecnologia), sottolineandone il ruolo fondamentale sia nell’accettazione sia nell’utilizzo del nuovo strumento

Provando, quindi, a tracciare una sintesi di quanto espresso in queste prime pagine possiamo sostenere come l’influenza tra tecnologia, media ed esperienza umana sia una storia costellata da rapporti circolari e da feedback retroattivi più che da nessi di causalità lineare. L’analisi del rapporto tra uomo e tecnologia deve dunque – come sostenuto anche da Watzlawick (1976) – integrare le differenti prospettive al fine di allargare il più possibile l’orizzonte di comprensione.

A titolo conclusivo di questa breve rassegna, risulta quindi evidente il contributo fattivo che la psicologia della comunicazione può fornire nella comprensione dei contesti digitali e in particolar modo nel supportare il percorso di transizione dalle organizzazioni tradizionali a modelli maggiormente flessibili e agili basati sulla collaborazione e su una dimensione maggiormente umana, culturale e centrata sulla qualità dell’esperienza che viene percepita. In questo senso la psicologia della comunicazione può rappresentare sia il veicolo per comprendere al meglio i vari termini in gioco sia per supportare un cambiamento che sia più semplice ed efficace.

Bibliografia e riferimenti consultati

Anolli L. (2006), Fondamenti di psicologia della comunicazione, Il Mulino: Bologna

Antonietti A., Colombo B., (2008), Computer-supported learning tools: a bi-circular bi-directional framework, New Ideas in Psychology, 26, pp. 120-142

Hughes T.P. (1994), Technological momentum, in Smith M.R. e Leo M. (a cura di), Does technology drive history? The dilemma of technological determinism, MIT press: Cambridge, pp. 101-114

Lave’ J., Wenger E. (1991), Situated Learning: Legitimate Peripheral Participation, Cambridge University Press: Cambridge

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[1] Su questo tema risulta estremamente significativa la citazione di Lew Platt sul sistema di knowledge management di HP, la famosa azienda produttrice di PC: “If only HP knew what HP knows, we would be three times more productive”. Per maggiori informazioni e una trattazione più approfondita del tema knowledge management all’interno di HP si rimanda a https://www.researchgate.net/publication/235269396_If_only_HP_knew_what_HP_knows_The_roots_of_knowledge_management_at_Hewlett-Packard

[2] Sull’importanza dell’interfaccia e della user experience all’interno di portali digitali di collaboration, intranet e – più in generale – di siti web è stato scritto parecchio. Tra i report e le fonti degne di nota si segnala, per approfondimenti, il lavoro che – ogni anno – Nielsen Group rilascia sulle Intranet: https://www.nngroup.com/reports/intranet-design-annual/

Un processo di trasformazione digitale basato sulla social organization e sui principi ispiratori della collaboration è un percorso circolare, fatto di sperimentazione, tentativi e co-progettazione assieme alle persone.

Ma qual è la ricetta perfetta impiegata dalle aziende che sono riuscite a trasformarsi ed evolversi secondo il paradigma della trasformazione digitale massimizzando i ritorni della social collaboration?

  • Valutare la prontezza e l’attitudine dell’organizzazione. Non tutte le organizzazioni esprimono il medesimo grado di accettazione rispetto ai temi della collaborazione organizzativa. Valutare la prontezza individuale e quella complessiva dell’azienda rappresenta il punto di partenza fondamentale per la creazione di un progetto di successo. L’assessment iniziale è in grado anche di sottolineare potenziali problematiche connesse all’adozione e barriere che potrebbero rallentare il processo di cambiamento (ad esempio specifiche unit organizzative, persone con seniority aziendale elevata, stakeholder esterni…)
  • Progettare con le persone al centro. Senza un adeguato coinvolgimento delle persone e degli utenti finali il progetto, molto semplicemente, non funziona. E’ impossibile ottenere il giusto risultato se le persone che compongono l’azienda non si sentono parte del medesimo processo. E’ proprio per questo motivo che il modello proposto è circolare e impone un approccio di costante revisione rispetto a quello che si sta progettando.

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  • Educare al cambiamento. I progetti che riguardano percorsi di cambiamento come quelli illustrati richiedono una propensione alla gestione dell’incertezza molto elevata. Le modifiche strutturali e organizzative presenti saranno molteplici ed è necessario predisporre le persone a questa nuova modalità di lavoro.
  • Assicurarsi la sponsorship del top management. E’ impossibile cambiare un’azienda senza coinvolgere la testa, sarebbe un’azione tanto difficile quanto stupida. Garantire il coinvolgimento del top management è uno dei punti chiave che distinguono progetti di successo da progetti che non hanno funzionato
  • Utilizzare il codesign per facilitare l’adozione. Il coinvolgimento estensivo dell’intera popolazione aziendale è possibile solo se si tiene in alta considerazione il contributo che possono dare tutti gli utenti. Lavorare con le persone al centro significa anche – e soprattutto – fare ampio uso di metodologie collaborative di progettazione del nuovo modello di lavoro. Strutturare questi processi assieme agli utenti finali rende possibile il raggiungimento degli obiettivi di business e la massima soddisfazione ottenibile considerando che le nuove modalità rispondono alle esigenze espresse dagli utenti
  • Prevedere incentivi e riconoscimento adeguato. Il cambiamento a parole non è sufficiente. La cultura aziendale deve essere parte dell’intero processo. E’ necessario prevedere meccanismi di riconoscimento formali e informali che premino i comportamenti positivi delle persone in modo che l’intera azienda riesca ad apprendere
  • Misurare non solo l’engagement ma anche il business. Le metriche sono un aspetto fondamentale e spesso trascurato dell’intero processo di trasformazione in atto. Sono cruciali per determinare se la direzione intrapresa sia quella efficace e per fare il “punto nave” in modo costante. E’ necessario altresì misurare non solo l’engagement ma anche gli effettivi ritorni di business dell’iniziativa di trasformazione
  • Coinvolgere l’intera azienda. HR, IT, Marketing, Comunicazione, Finance & Control: tutti i dipartimenti aziendali devono essere coinvolti e poter contribuire in modo fattivo al percorso di trasformazione digitale
  • Provare il valore della collaboration. Un business case e una roadmap che prevedano l’impatto che la collaboration può avere sull’intera organizzazione sono sicuramente consigliati e previsti all’interno dei progetti che hanno successo. Questo passaggio risulta strettamente connesso anche alla capacità dell’azienda di stanziare gli investimenti adeguati (in termini di risorse, tempo, denaro) per sostenere il percorso di trasformazione digitale
  • Adottare una strategia ibrida. Le aziende che hanno successo investono equamente tra IT, cambiamento e strategia di implementazione senza dimenticare il business. Troppo spesso si vedono approcci – in coloro che non hanno successo – che riguardano solo la dimensione tecnologica e di implementazione degli strumenti collaborativi. Ancora una volta: non stiamo parlando di un progetto tecnologico ma di un cambio di modelli di lavoro e di processi di organizzazione interna
  • Definire policy, linee guida e modelli di governance. Più che rappresentare modelli limitanti e impedire errori da parte dei dipendenti, linee guida e policy devono rappresentare lo strumento in grado di stimolare l’atteggiamento proattivo dei dipendenti. Questi strumenti servono anche a fornire esempi di comportamenti positivi e definire con chiarezza i comportamenti da tenere all’interno delle community che verranno costruite all’interno del progetto
  • Rispondere alla domanda “che cosa ci guadagno io?”. Perché il tutto funzioni, le persone devono poter rispondere alla domanda riportata e comprendere l’effettivo valore del nuovo modo di lavorare. Dal punto di vista delle HR risulta cruciale – come già sottolineato – stabilire dei percorsi di carriera e di riconoscimenti che premino le risorse che maggiormente sono in grado di investire all’interno del percorso di trasformazione digitale e che siano in grado di stimolare il cambiamento organizzativo. Se i dipendenti non vedono il valore di quello che stanno facendo difficilmente si sentiranno ingaggiati e si faranno promotori del cambiamento, la dimensione umana – ancora una volta – gioca un ruolo preponderante
  • Formare le proprie risorse. Il ruolo dei community manager è fondamentale: l’iniziativa – perlomeno nelle fasi iniziali – sarà assolutamente “spintanea” e degli attivatori e ambassador all’interno dell’organizzazione sono fondamentali per mantenere acceso il fuoco del cambiamento

Per concludere con una citazione di Norman:

la tecnologia ci pone di fronte a problemi fondamentali che non possono essere superati basandoci su quanto abbiamo fatto nel passato. Abbiamo bisogno di un approccio più tranquillo, più affidabile, più a misura d’uomo.”

Questo recente articolo di McKinsey circa i bias che affliggono la presa di decisione nelle organizzazioni ben si presta a sottolineare uno dei punti chiave nella definizione di una strategia organizzativa che sia funzionale e adatta ai nostri obiettivi di business.

Che le persone non sappiano prendere una decisione, o che quantomeno, facciano estremamente fatica a essere dei decisori razionali ci viene confermato dalla psicologia cognitiva. Famosi in questo senso sono gli esperimenti condotti da Kahneman e Tversky (tra gli altri):

Dopo aver selezionato due gruppi di candidati, Tversky e Kahneman hanno posto il seguente problema chiedendo ai partecipanti cosa avrebbero fatto se la scelta fosse dipesa da loro: negli Stati Uniti sta per giungere una nuova malattia proveniente dall’Asia, sono a rischio le vite di 600 persone; al primo gruppo è stato proposto quanto segue:

  • Programma A: 200 persone si salvano
  • Programma B: 1/3 di probabilità di salvare tutti, 2/3 di probabilità di non salvare nessuno

I programmi per il secondo gruppo erano invece i seguenti:

  • Programma C: 400 persone muoiono
  • Programma D: 1/3 di probabilità che nessuno muoia, 2/3 di probabilità che muoiano tutti

Da un punto di vista di contenuto i programmi A e B sono del tutto equivalenti rispettivamente ai programmi C e D, eppure le risposte dei due gruppi sono state profondamente diverse. Nel primo gruppo è stato scelto il programma A nel 72% dei casi e il programma B nel restante 28%; nel secondo gruppo la scelta prioritaria (78%) è caduta sul programma D mentre il programma C è stato preferito solo nel restante 22% dei casi.

È evidente che al primo gruppo di candidati è stato sottoposto un messaggio in cui prevalevano elementi positivi, mentre il secondo gruppo è stato esposto a contenuti negativi. Si può notare che nel primo caso i candidati si sono orientati verso una risposta di tipo certo, nel secondo caso la polarizzazione delle risposte è invece avvenuta intorno alla soluzione di tipo probabilistico.

Si tratta di un classico esempio di come il “framing”, il modo – cioè – in cui viene presentato un problema, influenza il nostro modo di rispondere e di fornire una soluzione. 

Le organizzazioni, in questo senso, essendo composte da persone e da esseri umani – con i loro pregi e difetti – non sono esenti da questo tipo di problematiche.

Bias organizational

Come persone, all’interno delle organizzazioni di cui facciamo parte, e all’esterno di esse, siamo costantemente coinvolti in bias che ci fanno credere di: essere più competenti di quello che in realtà siamo, sottostimare la possibilità di fallire, sottostimare i nostri difetti e punti deboli, essere non soggetti agli errori che commettono gli altri…
Alcuni di questi errori all’interno della definizione di una strategia di business di un’azienda possono portare a vere e proprie crisi “esistenziali” che minano i presupposti stessi dell’organizzazione.

L’ottima ruota dei bias cognitivi mostra in modo semplice ed efficace l’enorme quantità di errori alla quale siamo soggetti quotidianamente

Cognitive Biases

Uno scenario tutt’altro che roseo che mostra quanto difficile sia realizzare strategie consapevoli che coinvolgano livelli di decisione differente.

Ma come possiamo muoverci in un contesto di questo genere? Come possiamo fare in modo che all’interno delle organizzazioni non si innestino questi meccanismi che ci portano – inevitabilmente – ad essere dei terribili decisori?

McKinsey consiglia alcuni punti chiave da tenere presente:

  • Diffondere una cultura basata sul dialogo e sul confronto. Il “non essere d’accordo” ha un valore fondamentale: in termini psicologici il group-think rappresenta uno dei rischi maggiori nella presa di decisione
  • Aumentare la propria consapevolezza e utilizzare meccanismi meta-cognitivi per analizzare i propri processi decisionali, sia nelle organizzazioni sia all’esterno di esse
  • Ingegnerizzare – per quanto possibile – la presa di decisione attraverso tool e strumenti che possano aiutarci a comprendere in che modo commettiamo errori

Come si legge anche in chiusura dell’articolo:

Companies can’t afford to ignore the human factor in the making of strategic decisions. They can greatly improve their chances of making good ones by becoming more aware of the way cognitive biases can mislead them, by reviewing their decision-making processes, and by establishing a culture of constructive debate.

Il grosso del lavoro da fare è dunque su se stessi: diventare migliori decisori, aumentare la propria consapevolezza sul funzionamento di questi processi ci aiuterebbe a diventare non solo dipendenti migliori ma anche persone maggiormente consapevoli e in grado di risolvere problemi e di pensare in modo strategico.

Le nostre aziende se la passano tutt’altro che bene!

E’ questa l’impressione, assolutamente confermata, che emerge da moltissimi report internazionali e nazionali che mettono in luce alcune delle mancanze fondamentali che stanno impedendo alle imprese di costruire un orizzonte di senso esteso in grado, non solo di generare risultati di business significativi, ma di ingaggiare in modo valido dipendenti e clienti.

Questo processo è stato amplificato da una serie di sfide che si è affacciata da qualche anno sul mondo organizzativo: in primo luogo la vita media delle nostre organizzazioni si è notevolmente accorciata. Imprese che fino a qualche anno fa dominavano il mercato non esistono più (Blockbuster, Nokia, Kodak sono solo alcuni degli esempi più famosi) e altre, nate solo qualche anno fa, regnano incontrastate sia nei mercati finanziari sia nelle crescite esponenziali che le caratterizzano (Facebook, Uber, AirBnB e Netflix solo per citarne alcune). Il tema però ha risvolti molto più ampi e riguarda una effettiva incapacità delle organizzazioni nel gestire i processi chiave che ne costituiscono la struttura stessa.

In primo luogo non siamo in grado – come organizzazioni – di gestire i nostri dipendenti, secondo le analisi di Gallup [1], la maggior parte della forza lavoro è attualmente dis-ingaggiata, e rema contro i principi e i valori dell’organizzazione di cui fa parte: è solo il 13% dei dipendenti a partecipare in modo proattivo alla costruzione di valore dell’impresa. Non siamo in grado nemmeno di gestire la conoscenza: il 50% del lavoro collaborativo, secondo McKinsey, va sprecato e sempre su questo tema, IDC sottolinea come ¼ della settimana lavorativa venga attualmente speso nel trasformare conoscenza (parliamo di circa 5.6 milioni di dollari all’anno per ogni 1.000 dipendenti). La conoscenza rappresenta oggi uno dei pilastri fondamentali delle organizzazioni ed è profondamente connessa al loro modo di operare e alla capacità di gestire il mercato: non è un caso che si parli sempre più spesso di knowledge worker: si tratta della maggior parte della forza lavoro di oggi, persone che – quotidianamente – gestiscono e scambiano conoscenza per generare valore per se stessi e per le imprese di cui fanno parte. E’ quindi evidente che una inefficienza così elevata nella gestione della conoscenza all’interno delle organizzazioni non può che portare a un danno economico estremamente ingente.

Dal punto di vista dell’innovazione le aziende di oggi stanno avendo non pochi problemi nella creazione di nuove idee che permettano loro di generare vantaggio competitivo: da un lato la crescente pressione del mercato (e dei competitor che spesso provengono da un settore completamente differente [2]) e dall’altro, l’impossibilità di rimanere allineati alla velocità con la quale si muovono i consumatori con solo il proprio ufficio di Ricerca e Sviluppo. Non è un caso che i brand maggiormente maturi abbiano iniziato un percorso di trasformazione digitale che abbattesse le barriere canoniche tra interno ed esterno dell’azienda abilitando i clienti a partecipare in modo attivo ai processi di innovazione. [3]

Le organizzazioni non sono in grado nemmeno di gestire le eccezioni ai processi, come sostengono Hagel e Brown:

“While 95% of IT investment goes to support business process (to drive down costs), most employee time isn’t spent on process but exceptions to process”

lontani sono – infatti – i tempi in cui le aziende potevano basarsi sull’assioma di Henry Ford riportato anche nella sua biografia del 1922:

“Ogni cliente può ottenere una Ford T di qualunque colore desideri, purché sia nero. […]”;

oggi la richiesta di personalizzazione del consumatore raggiunge la sua massima espressione e si riflette su tutti gli aspetti organizzativi. Offrire servizi sempre all’altezza delle richieste e delle aspettative del modello di consumatore che è presente oggi sul mercato diviene una sfida complessa e articolata che non sempre le organizzazioni sono in grado di cogliere appieno.

Questo nuovo modello di consumatore, molto più esigente, molto più informato e molto più consapevole delle sue scelte di acquisto e di consumo, ha molta più voce rispetto al passato (i social media ne sono l’espressione principale) e riesce a stabilire con i brand un relazione molto più paritetica basata su fiducia e trasparenza. Quando questi due assunti vengono a mancare la relazione non solo si interrompe, ma può radicalmente trasformarsi e mettere in crisi l’intera reputazione dell’azienda.

Fiocca et alii (2016) nel volume Brand Experience, relazioni impresa-cliente e valore di marca (citato in G. Besana – 2016 –  Brand engagement e social customer. La relazione tra azienda e consumatore nell’era digital: Il caso Oreo) definisce e riassume in questo modo i comportamenti che caratterizzano questo nuovo modello di consumatore:

  • Frenesia: il nuovo consumatore è un soggetto volubile, difficile da attirare e da coinvolgere, ha un livello di attenzione disperso e le forme relazionali e comunicative alle quali siamo abituati non sono spesso efficaci per coinvolgerlo.
  • Competenza: il consumatore di oggi è chiaramente più informato e più esperto, molto più complesso risulta quindi il processo di costruzione dei contenuti che stanno alla base del suo coinvolgimento
  • Atteggiamento esigente, ma al tempo stesso disincantato: il nuovo consumatore pretende che il brand sia in grado di rispondere appieno alle sue esigenze in termini qualitativi (e non solo quantitativi come siamo stati abituati per anni). Si tratta di un nuovo modello di soddisfazione del consumatore completamente differente. Il cliente è consapevole e pretenzioso.
  • Aggregazione e community: i consumatori tendono – in modo spontaneo – ad aggregarsi in gruppi con i quali condividere emozioni, interessi, pensieri e ricercare informazioni sul brand. Le community che sorgono in rete diventano veicoli fondamentali di informazioni per i brand che sanno ascoltare [4]
  • Selettività: il nuovo modello di cliente che stiamo raccontando adotta anche comportamenti selettivi, dimostrando capacità decisionale e autonomia nella definizione dei brand che intende utilizzare e dei quali intende circondarsi
  • Integrazione: il social customer si aspetta una completa integrazione dell’esperienza offerta dal brand, è per questo motivo che si parla di multicanalità e di esperienza utente in senso esteso

Iron customer

E’ in questo scenario che si innesta il ruolo della social e digital collaboration e della creazione di un nuovo modello di azienda che riparta e riconsideri al centro dei propri processi il ruolo – costitutivo e centrale – dei proprio dipendenti. Con social collaboration intendiamo, infatti:

un insieme di strategie, processi, comportamenti e piattaforme digitali che consentono a gruppi di persone all’interno dell’azienda di connettersi, interagire, condividere informazioni e lavorare ad un comune obiettivo di business [5]

Si tratta quindi di un processo che rivede le logiche organizzative secondo alcuni principi fondamentali:

  • Non esistono più barriere tra interno ed esterno dell’organizzazione
  • L’azienda ha come scopo ultimo quello di massimizzare lo scambio e la co-creazione di valore tra tutti gli attori coinvolti (siano essi partner, dipendenti, clienti o fornitori esterni)
  • Il dipendente e il cliente sono intimamente connessi e dialogano in una logica inside-in e outside-out
  • Il modo di lavorare cambia radicalmente e rende l’organizzazione più efficiente, più agile e in grado di rispondere al meglio alle sfide del mercato
  • Il potere è decentrato e si affermano modelli di leadership basati sulla competenza e sui singoli progetti
  • L’organizzazione è adattiva e diventa in grado di cambiare la propria configurazione a seconda delle sfide che il consumatore e il mercato impongono

In sostanza si tratta di un modo di lavorare completamente nuovo che rimette al centro di tutti i processi le persone, siano essi dipendenti interni all’impresa o clienti esterni.


[1] Per maggiori informazioni sulle statistiche di Gallup consigliamo il sito ufficiale: http://www.gallup.com/home.aspx

[2] In questo senso basti pensare alla rivoluzione introdotta nel mercato dei trasporti da Uber (https://www.uber.com/it/) o da Apple nel mondo della telefonia e degli smartwatch (http://www.apple.com)

[3] Per maggiori informazioni in questo senso si vedano gli esperimenti delle piattaforme di innovazione collaborativa volute da Lego (https://ideas.lego.com/) e Starbucks con la sua MyStarbucks Idea (http://mystarbucksidea.force.com/)

[4] Non è un caso che moltissime organizzazioni tra le maggiormente mature abbiano messo in atto strategie di web monitoring e social media listening per utilizzare le informazioni spontaneamente condivise dai consumatori per migliorar e il proprio prodotto o servizio. L’importanza e la tendenza naturale degli utenti a unirsi all’interno di community gioca un ruolo fondamentale – come vedremo – anche nella dimensione interna all’azienda e non solo in riferimento ai propri clienti

[5] La definizione è riportata nella Social Collaboration Survey 2014 (http://socialcollaborationsurvey.it/) di Stefano Besana ed Emanuele Quintarelli