Archives For November 30, 1999

Di recente mi sono imbattuto in un articolo molto interessante del Professor Pier Cesare Rivoltella dell’Università Cattolica del Sacro Cuore su come ripensare e immaginare l’educazione a distanza alla luce dei recenti fatti che stiamo vivendo.

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Sono presenti un paio di concetti all’interno dell’articolo che – a mio avviso – è bene sottolineare. Questi medesimi concetti possono essere applicati al mondo delle organizzazioni ed estesi a tutti quei professionisti che si interessano – a vario titolo – al mondo del futuro del lavoro / future of work.

Il primo dei messaggi che sono condivisi è nihil sub sole novi: le pratiche di smart schooling, di FAD (formazione a distanza), ma – aggiungo io – di smart e remote working o di “telelavoro” come l’hanno chiamato alcuni non sono una novità. Il momento storico che stiamo vivendo e le reazioni che le persone stanno mettendo in campo, non sono frutto del caso, né episodi isolati che sorgono come spontanea e immediata risposta a una crisi.

Queste trasformazioni sono – infatti – figlie di un lungo e articolato percorso di preparazione che ci ha resi in grado di rispondere in modo più o meno adeguato.

Occorre ricordare questi passaggi per capire che quel che di positivo sta succedendo oggi tra classi di scuola e aule universitarie non è frutto del caso ma di un lungo percorso di preparazione. Anche se poi, nell’opinione diffusa, alla formazione a distanza si è finito per associare l’idea di qualcosa che ha meno valore rispetto alla formazione fatta in aula, in presenza.

L’altro passaggio fondamentale che questa trasformazione sta accelerando è che le persone si stanno rendendo conto che non si tratta quasi mai e sempre di un problema solamente tecnologico. Non basta una regia e o un tool che funzioni per far accadere le cose.

Occorre che tutto questo si inserisca all’interno di una progettazione didattica, si avvalga di una regia metodologica. L’apprendimento on line richiede un’attenzione particolare allo studente, ne vanno gestite la motivazione e l’attenzione. Non basta ‘mandare in onda’ la lezione e continuare a parlare come si sarebbe fatto in aula. Va studiata una sceneggiatura: materiali da mettere a disposizione prima, indicazioni di lavoro precise, ricorso alla comunicazione sincrona (chat e videocomunicazione) per chiarire i dubbi, discutere i problemi. E poi si tratta di favorire la cooperazione tra gli studenti: il vero valore aggiunto della tecnologia è la possibilità della condivisione, di lavorare in gruppo. 

Un punto ulteriore è quello dell’alfabetizzazione. Ci stiamo rendendo conto che non tutti sono pronti, che molti vanno aiutati e che – spesso e volentieri – molte delle azioni da fare prima della formazione con la tecnologia è la formazione alla tecnologia, per tutti coloro che avvertono un divario. Serve porsi il problema, eliminarlo, significa chiedersi come fare inclusione nei confronti di chi fa più fatica e di come allestire delle tecnologie che siano tecnologie di comunità. Strumenti che consentano davvero l’emersione di modelli di lavoro nuovi e di collaborazione tra i diversi istituti scolastici, ma anche tra le differenti organizzazioni.

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Ma cosa dobbiamo evitare? A cosa dobbiamo prestare attenzione una volta che saremo tornati alla nostra routine? Come dobbiamo impedire una volta che torneremo alla normalità?

Dobbiamo recuperare – e forse costruire – un senso diverso: è importante che a valle di tutto quello che viviamo ci sia una #resilienza attiva, per ripristinare qualcosa di meglio rispetto a quello che c’era prima.

Non è un qualcosa che accade in modo naturale.

Dobbiamo lavorare per fare in modo che non avvenga un ritorno a un chiacchiericcio e a una svalutazione di quanto abbiamo vissuto. E’ necessario imparare velocemente un modello differente di gestire i nostri processi formativi e le nostre modalità di relazione con gli altri, sia in ambito educativo sia in ambito organizzativo.
E’ il solo modo che abbiamo per reagire in modo corretto alla trasformazione in atto.

La relazione educativa, come ogni relazione umana e qualunque processo di trasformazione è frutto dell’intenzionalità.

Chi segue questo blog da qualche tempo sa bene che uno dei temi – forse IL tema per eccellenza – di cui mi occupo è quello legato a come costruire organizzazioni maggiormente agili, resilienti e collaborative.

Negli ultimi 10 anni ho speso buona parte del mio tempo a supportare organizzazioni di medie e grandi dimensioni e a complessità variabile nella definizione della migliore strategia di cambiamento che rimettesse le persone al centro del business.
Modelli di aziende maggiormente innovative, trasparenti, collaborative sono possibili e generano un vantaggio competitivo notevole all’interno del mercato di cui fanno parte.
Non solo: questi modelli rimettono al centro le persone, motivandole a dare il meglio e costruendo con loro una nuova era di valore della quale possano beneficiare tutti gli stakeholder coinvolti.

Stefano Besana - Collaborative Company

Stefano Besana – Collaborative Company EGEA – Tag Innovation School Books

Da una collaborazione con Alessandro Rimassa e Talent Garden Innovation School è nato, quindi, “Collaborative Organization“: un piccolo breviario ricco di esempi e di considerazioni che assommano un decennio di lavoro nelle aziende e che si propone di divenire una piccola guida che possa contribuire a un cambiamento – anche minimo – all’interno del nostro modo di concepire le aziende.

Come si legge nel volume:

Il concetto non è nuovo e si applica a molte delle svolte che hanno condizionato il pensiero occidentale: Randall Collins nel suo The Sociology of Philosophies (1998) sottolinea come la Mittwochsgesellschaft (la società del mercoledì di Berlino, gruppo di pensatori tedeschi liberali) si ampliò progressivamente nel corso degli anni; o come Pisarro e Degas si iscrissero alla Ecole des Beaux Arts nello stesso momento e di come fecero poi la conoscenza di Cézanne e Renoir al Café Guerbois; cambiando paradigma di riferimento, le jam session funzionano allo stesso modo sviluppando una vera e propria group mind durante le sessioni e, ancora, Hegel, Schelling e Hölderlin furono compagni di scuola a Tubinga. Secondo Collins queste interazioni non casuali generano dei veri e propri rituali che si traducono in un capitale culturale di altissimo valore mettendo a fattor comune esperienze, conoscenze e soprattutto relazioni che un soggetto acquisisce nel corso della sua vita.

Si tratta di un modello che rimette al centro la nostra capacità di avere un impatto concreto sul mondo, poiché – come sottolinea tra gli altri Mihaly Csikszentmihalyi:

“Non si può condurre una vita che sia veramente eccellente senza sentire che si appartiene a qualcosa di più grande e permanente di se stessi”.

Un nuovo modello di lavoro è possibile e – per certi versi – è già in atto.

Curiosi?
Potete trovare – edito da Egea – sul sito ufficiale della casa editrice o su Amazon: http://amzn.eu/d/4GAi3rg

As you may know, together with Emanuele Quintarelli we have developed in the last months the Social Collaboration Survey 2013. Here some insights about what we discovered in the last months.

Along with the many projects recently carried out in Italy, the attention on collaborative dynamics and best practices is evidenced by the numerous international reports (Gartner, Forrester, MIT, Deloitte, Capgemini, Dachis …) who analyze the phenomenon from a human, organizational and technological point of view. While interesting, such data have rarely focused on Italy, on its network of small and medium-sized enterprises with its specific socio-economic conditions. The Social Collaboration Survey 2013, conducted by Stefano Besana and Emanuele Quintarelli, finally fills this gap by mapping collaborative practices and bringing to light their secrets and strategies for success.

Carried out online from July to September 2013, the Social Collaboration Survey has involved more than 300 Italian companies in an unprecedented X-ray analysis on 4 collaboration axes: culture, organization and processes, technology, measurement.
Among the main dimensions analyzed:
  • Relevance: To what extent is collaboration considered as a strategic topic both today and in the near future?
  • Drivers: What are the business drivers that lead companies to introduce tools and participatory approaches?
  • Sponsors: Which departments have the responsibility to launch and / or support collaborative initiatives?
  • Maturity: At what level of maturity are companies in our country?
  • Budget: How large are the available budgets and how are they spent among the different areas of the project?
  • Measurement: Which performance indicators and metrics are in place and how much is performance measurement already an integral part of existing initiatives?
  • Best & worst practices: Which strategies have been particularly effective in achieving high levels of adoption and what is important to avoid?
  • Processes: How deeply is collaboration intertwined into business processes?
  • Tools: Which tools are most often used by employees?

The results of Social Collaboration Survey 2013 underline that:

Collaboration is much more than a fad. The importance that companies assign to it is high and most likely to grow over the next three years up to 75% of the sample.

Collaboration generates value for the company. A targeted deployment of social platforms increases the efficiency of the company (43%), facilitates knowledge reuse (40%), improves project coordination (30%) and allows employees to stay up to date on what is done by their colleagues (30%).

Without adoption there is no return. Although it cannot be considered the end goal, pervasive adoption of new ways of working is instrumental to materialize the economic returns expected by management. For the majority of respondents, this still doesn’t happen, since only a small percentage of employees (<30%) is already involved in 2.0 tools. Less than 10% of companies have instead reached the milestone of almost complete adoption (>75% of employees).

Top Management sponsorizes the initiative. Even with bottom-up initiatives, real change requires a high level of sponsorship and a strong buy-in from the top management (70% vs. 34%).

No orphans. A careful, continuous and qualified cultivation is certainly not optional for those who aim to conquer the entire company. Successful projects show a lack of resources 5 times less (9% vs. 49%) than less mature initiatives.

Budget for change. Although still limited, the investment on collaboration grows hand in hand with its importance. The lack of budget (less than 10K Euro) is much rarer (36% vs. 64%) for the firms with proven experience on collaboration. This budget is also spent less on technology and more on people and strategy.

Measure to ROI. Measurement is correlated to success. Successful projects have metrics in plance 2 times more than others (91% vs 50%). More than participation metrics, business KPIs are core inthe most advanced projects (61% vs 22%).

A more collaborative culture. Large companies are more willing to recognize the value of collaboration (82% vs. 70% in 3 years).

More focus on business needs. Bigger firms have stakeholders most often positioned in specific units such as Innovation, HR, Customer Support, Training and Education.

ROI as the main barrier. Apart from the overall lack of understanding of the potential of collaboration by the top management (50%), the most clear resistance in the large company is the difficulty of measuring the return on investment or the impact of intangible benefits (49%). In smaller companies it is rather the culture to represent the most obvious obstacle (58%).

For more information visit: http://socialcollaborationsurvey.com/

We just published some excerpts and insights from our Social Collaboration Survey.
Here you can find more information about what we discovered

In a connected and digital society, expectations and behaviors individuals expose are everyday more influenced by the weight of the communities they belong to. Well beyond the personal dimension, this same social capital is now making its way into organizations, changing work practices, engagement mechanisms and even the drivers behind firms’ existence.

The Social Collaboration Survey 2013 analyses connection, communication, motivation and sharing dynamics among employees to surface the business potential, barriers and acceleration factors towards a new idea of firm. One that is able to address the huge economic challenges of the coming years.

To us, Social Collaboration is

A set of strategies, processes, behaviors and digital platforms that enable groups of individuals inside the organization to connect, interact, share information and work towards a common business goal

With the hope that this study will help in proving the value Social Collaboration can unlock, increasing the awareness between senior managers, identifying effective roll-out strategies, discovering the most impacted business processes, understanding how various organizational characteristics influence project outcomes.

The first quantitative study on the maturity level, the potential, the barriers and successful strategies for Social Enterprise initiatives. While conducted in Italy, its results seem to resonate very well with European and non European countries, as verified by presenting them at the recent Enterprise 2.0 Summit Paris

Methodology

  • Online survey between July – Sept 2013 on 300 italian companies, both large and small, across major sectors
  • The study has addressed culture, organization, processes, technology, measurement to provide a 360° perspective on the state of enterprise collaboration.

Main dimensions analyzed

  • Importance
  • Business drivers
  • Internal sponsors
  • Available budget
  • Outcomes measurement
  • Integration with processes
  • Organizational maturity
  • Best and worst practice in top performers
  • Adoption of collaborative tools

Da qualche mese ci siamo concentrati – come ben sapete – nella definizione del futuro della collaborazione nelle aziende del nostro paese. Lo studio (54 pagine di approfondimenti, spunti e grafici) – lo trovate, come ampiamente detto qui: http://socialcollaborationsurvey.it/. Disponibile in modo gratuito nell’intenzione di aumentare la consapevolezza sui nostri temi anche in questo paese.
Da poche ore è online anche uno studio di Deloitte realizzato per Google titolato: “Digital Collaboration. Delivering Innovation, productivity and happiness”. 

Ci sono però alcune differenze sostanziali che vorrei rimarcare e alcuni dati interessanti che emergono in modo interessante da entrambe le analisi.
Cerchiamo di approfondire.

Di sicuro ciò che emerge è che la dimensione della collaborazione in azienda è un asset fondamentale, trasversale e che promette di rappresentare una delle prossime sfide per le organizzazioni di tutte le dimensioni e industry, come a dire: collaborare o sparire.

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La collaborazione all’interno delle aziende è in grado non solo di migliorare il modo in cui le persone lavorano e di generare maggiori vantaggi per l’ecosistema aziendale (migliorando efficienza, servizio al cliente, capacità di fare innovazione, supporto e tanti altri processi aziendali) ma anche di rendere le persone più motivate, di migliorare la comunicazione tra dipendenti e di intensificare, in un certo senso,anche il benessere sul posto di lavoro.

Rispetto alla dimensione tecnologica ancora molto è, però, il lavoro da fare.
Dato trasversale che emerge dall’analisi di Deloitte e dalla nostra.

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Qui sotto invece la nostra analisi sulle medesime dimensioni e sull’uso delle tecnologie in contesti collaborativi

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E’ tuttavia sulla dimensione culturale il problema maggiore nell’adozione di processi di questo tipo. Ed è necessario fare una distinzione anche rispetto al come viene analizzata la social collaboration all’interno delle aziende.

La dimensione individuale, di come cioè la persona utilizza “nel suo piccolo” le tecnologie di collaborazione e digitali all’interno del contesto lavorativo, è sì importante, ma non sufficiente di per sé a spiegare correttamente la complessità degli attori in gioco.

E’ – infatti – necessario adottare differenti angolature per leggere il problema soprattutto rispetto a come la collaborazione interna alle organizzazioni può effettivamente impattare e modificare processi chiave per le aziende.
In che modo cioè questo modello e questo tipo di tecnologia riesce a cambiare il modo in cui le persone sono chiamate a lavorare.
Dimensione alla quale noi abbiamo dato molto peso all’interno della nostra analisi e che emerge in modo consistente da alcune grafiche realizzate, come quella che riporto qui:

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Di sicuro è vero quanto detto da Deloitte:

We are not suggesting that organisations embark on wholesale, top to bottom programmes to redesign around them, merely that collaboration tools are moved from the box marked “nice to have”, to the one marked “core applications”.

Si tratta quindi di andare davvero in profondità del processo di trasformazione e capire come sia possibile migliorare le organizzazioni in cui spendiamo buona parte della nostra vita (non solo lavorativa).

Tanto simili i titoli quanto distanti gli approcci, a testimonianza di come lo stesso tema possa essere declinato in modalità completamente differenti.
Qui siamo, quasi, a un approccio quasi antitetico rispetto al nostro. Una indagine analizza l’uso individuale che le persone fanno della tecnologia, l’altra l’uso organizzativo, con le ricadute e con i benefici in termini di processi aziendali core.
Maggiore focus – anche come è normale che sia – per la tecnologia nell’analisi di Deloitte, tecnologia che sappiamo essere fondamentale ma non indispensabile nel processo di trasformazione e che – anzi – può rappresentare un ostacolo se non correttamente declinata e calata nel contesto organizzativo a partire dalle esigenze delle persone e dagli obiettivi di business che si vogliono ottenere.

E’ quindi necessario un approccio maggiormente olistico che riesca a tenere insieme tutti i pezzi: dalla dimensione tecnologica a quella organizzativa, dai bisogni dell’individuo a quelli dell’azienda, dalla soddisfazione del singolo alla generazione di valore per tutto l’ecosistema dell’impresa. 

Il cambiamento non può che partire dalle persone per le persone.

Ce l’abbiamo fatta!
Qualche notte insonne e qualche faticata non da poco per l’elaborazione dei dati ma alla fine… ce l’abbiamo fatta!
E’ online il sito dell’iniziativa che ho lanciato insieme all’amico Emanuele Quintarelli e lo trovate qui: Social Collaboration Survey 2013.

Un lavoro complesso che ci ha impegnati negli ultimi tre mesi nel tentativo tanto ambizioso quanto importante di provare a mappare lo stato della collaborazione all’interno delle aziende italiane, tentando di identificare: le metriche di successo, i problemi, le risorse coinvolte, le tecnologie, i processi e gli approcci strategici delle aziende che nel nostro paese stanno provando o hanno già avviato iniziative di trasformazione digitale al loro interno.

Collaboration in Italia

Come si legge sul sito abbiamo provato a dare risposta ad alcuni aspetti chiave per la comprensione del fenomeno della social collaboration e dell’importanza che sta avendo – e che sempre di più avrà nei prossimi anni:
  • Rilevanza: Quanto il tema della collaboration è sentito dalle aziende oggi e nel prossimo futuro?
  • Driver: Quali sono i driver di business che spingono le aziende ad introdurre strumenti ed approcci partecipativi?
  • Sponsor: Quali dipartimenti hanno la responsabilità di lanciare e/o di supportare le iniziative?
  • Maturità: Che livello di maturità hanno raggiunto le imprese del nostro paese da un punto di vista di collaboration?
  • Budget: Quanto consistenti sono i budget disponibili ed in quale aree del progetto vengono spesi?
  • Misurazione: Quali indicatori di performance e metriche sono utilizzati e quanto la misurazione dei risultati è già parte delle iniziative?
  • Best e worst practice: Quali strategie si sono rivelate particolarmente efficaci nel raggiungere alti livelli di adozione e quali errori è importante evitare?
  • Processi: Fino a che punto la collaboration interseca e migliora flussi di lavoro e processi di business esistenti in azienda?
  • Strumenti: Quali tool sono utilizzati più frequentemente dai dipendenti?

Ma che cosa intendiamo con il termine Social Collaboration?

Un insieme di strategie, processi, comportamenti e piattaforme digitali che consentono a gruppi di persone all’interno dell’azienda di connettersi, interagire, condividere informazioni e lavorare ad un comune obiettivo di business

Finalita

Ma che cosa abbiamo scoperto, in sintesi?

  • In un momento di congiuntura economica negativa strumenti come quelli offerti dal digitale e dalla social collaboration sono in grado di insistere su nuove leve di produttività rilanciando con forza la capacità delle aziende di capitalizzare creatività, conoscenza e relazioni.
  • La collaboration è ben più di una moda passeggera. L’importanza che le aziende le attribuiscono è molto elevata. E’ il 75% delle aziende intervistate a ritenerla cruciale per i prossimi 3 anni.
  • Collaborare genera valore. Le imprese che usano in modo mirato le piattaforme social all’interno dell’organizzazione sono quelle che riescono a ottenere i maggiori benefici in termini di efficientamento del lavoro, riuso della conoscenza, e miglioramento nel coordinamento dei progetti.
  • Senza adozione non c’è ritorno. La collaboration semplicemente non funziona per le aziende che non sanno come misurare e non sanno come coinvolgere in maniera estesa tutto l’ecosistema aziendale.
  • Il Top Management ci mette la faccia. Le iniziative di successo sono quelle che partono da una forte sponsorship dall’alto e che coinvolgono in maniera estesa anche i dipendenti.
  • Serve del budget. Non è possibile pensare di innovare e di cambiare le modalità di lavoro interne all’azienda senza destinare del budget per queste iniziative che favoriscano il cambiamento e le modalità di gestione.
  • Misurare, misurare e misurare. Poche le aziende che lo fanno con indicatori, KPI e metrriche davvero significative, molte quelle che hanno un approccio ancora naive che impedisce un corretto processo. Le aziende più mature sono anche quelle che misurano di più e che più spesso fanno “un punto nave”.
  • Il Social Business è realtà. L’integrazione tra processi interni ed esterni per molte aziende è qualcosa di compreso e qualcosa che sta cominciando ad essere implementato e che promette di esserlo sempre di più nell’arco dei prossimi anni.
  • Grande e piccolo. Forte e debole. Aziende più grandi si comportano in modo differente dalle piccole e aziende di successo hanno processi completamente differenti rispetto a quelle che non riescono a sfruttare e capitalizzare il valore della social collaboration. Nell’indagine spieghiamo anche questo nel dettaglio.Ingaggio.

Per approfondire altri dati e altre informazioni vi lascio alla lettura completa del report che trovate su:
www.socialcollaborationsurvey.it e ricordatevi di farci sapere cosa ne pensate con l’hashtag #socialcollabsurvey. 

Ricordo infine che l’iniziativa è stata condotta a titolo gratuito da due persone – come me ed Emanuele – che lavorano da molto tempo in questo settore e che hanno voluto fornire un contributo – seppur modesto – sia alla comprensione dello stato dell’arte della collaborazione nel nostro paese sia alla diffusione di best practice e di modalità di impiego corretto di processi e strategie digitali all’interno delle organizzazioni.

Un grazie speciale – tra in tanti che ci hanno aiutato nell’iniziativa e nel farla circolare – ad Alessandro Fontana che è stato un valido e prezioso aiuto non solo dal punto di vista dell’information visualization ma anche nel fornirci spunti e rilfessioni di valore arricchendo notevolmente il report.

L’obiettivo?
Evolvere il nostro modo di lavorare, le nostre aziende, le nostre organizzazioni verso un modello più social, verso un modello più centrato sulle persone, più aperto, più collaborativo, più resiliente, un modello di organizzazione pensato dalle persone per le persone
.

Buona lettura!

Collaborare, collaborare, collaborare. Sembra essere la parola chiave del nuovo modo di fare impresa, delle nuove teorie organizzative che, da qualche anno, spinte anche dall’evoluzione sul mercato di tool e strumenti social, si stanno affermando.
Ma collaborare è davvero così semplice? E ha davvero un valore così interessante per le aziende di tutto il mondo?
Jacob Morgan (Chess Media Group), studioso delle organizzazioni, nonchè autore del bestseller di fama mondiale “The Collaborative Organization“, ha rilasciato sul suo sito un paio di whitepaper che analizzano proprio questa dimensione.

In primo luogo l’analisi fa emergere il valore della collaboration come strumento fondamentale per le aziende che intendano efficientare i propri processi interni e la propria capacità di impattare sul mercato.
Come mostra agilmente lo schema il valore “nascosto” della collaboration all’interno delle aziende è un qualcosa di estremamente concreto. Le aziende che collaborano tra loro e al loro interno, le aziende che sfruttano i cardini della “Collaborative Economy” come la definisce Owyang e che sanno creare relazioni significative con tutto il loro ecosistema aziendale (clienti, fornitori, partner, stakeholder, dipendenti…) sono in grado di essere molto più performanti e di rispondere al meglio alle sfide di un mercato in crisi come quello a cui stiamo assistendo in questi anni.

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Sono per altro identificati alcuni dei benefici specifici (tratti anche dal famoso report di McKinsey sul valore che la social economy ha generato e genererà sul mercato nei prossimi anni) che la social collaboration può portare all’interno delle imprese:

  • migliore coinvolgimento dei dipendenti e della forza lavoro: motivazione, egagement e senso di partecipazione e di appartenenza a un progetto comune, con tutti i benefici riflessi che questo comporta
  • maggiore facilità nel trovare persone, risorse e informazioni
  • migliore comunicazione
  • più chance per l’innovazione: come abbiamo visto – in questa e in altre sedi – più e più volte l’innovazione non è un fenomeno che nasce in modo casuale ma un qualcosa di estremamente preciso che si genera da meccanismi di collaborazione e condivisione. Il mito del genio solitario è appunto una comune leggenda.
  • serendipità

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Tuttavia – come spesso accade – anche per il mondo della collaboration non è tutto oro quello che luccica.
Vediamo dunque quali sono alcuni dei problemi che la collaboration incontra all’interno delle organizzazioni e cosa impedisce il corretto sviluppo di sinergie che vadano in questa direzione.

  • difficoltà nel trovare le persone e le informazioni corrette: in media i dipendenti di un’organizzazione spendono il 25/30% del loro tempo nella ricerca delle risorse o delle informazioni che servono loro per lavorare correttamente. Il tutto si traduce in perdita dell’efficienza e in dispendio di tempo che impattano in modo negativo sugli indicatori economici
  • le persone non sono motivate nel loro lavoro e nell’operatività quotidiana mostrando comportamenti anche negativi nei confronti dell’azienda in cui lavorano
  • la cultura organizzativa è spesso non allineata
  • i silos e le barriere comunicative dell’azienda impediscono la corretta comunicazione e circolazione del sapere all’interno impedendo una corretta socializzazione dei processi interni e dell’innesto di meccanismi virtuosi che consentano la collaborazione cross e inter azienda
  • mancanza di un allineamento e di un ingaggio dei livelli alti dell’organizzazione che consenta di avere le leve necessarie per trasformare digitalmente l’organizzazione

Vi ricordo che con Emanuele Quintarelli stiamo indagando lo stato della Social Collaboration all’interno delle aziende italiane, una ricerca di prestigio, mai condotta nel nostro paese che vuole appunto provare a sondare queste dinamiche all’interno delle organizzazioni che viviamo e frequentiamo tutti i giorni.
Alcuni dei dati preliminari che abbiamo cominciato ad analizzare negli scorsi giorni (l’analisi vi ricordo è attiva fino a fine settembre e i risultati verranno resi disponibili e pubblici in forma completamente gratuita) e che vedono la partecipazione di oltre 250 aziende fanno riflettere su alcune significative dimensioni.

Tra le dimensioni che cominciano ad emergere possiamo sottolineare:

  • l’importanza di definire una strategia coordinata che sia in grado di tenere in considerazione e coinvolgere in modo esteso l’intera organizzazione è un fattore chiave (anche se non l’unico importante) per il successo di queste iniziative.
  • un’allocazione sensata del budget: investire in modo serio e sensato destinando parti eque dell’investimento alla parte tecnologica quanto a quella strategica risulta di importanza chiave per definire
  • una sponsorship che conta: avere l’appoggio dei c-level aziendali è tanto importante quanto strategicamente significativo per ottenere progetti che non naufraghino nel breve
  • la definizione di un piano e di un team di risorse: risorse, pianificazione e misurazione del ROI come dei risultati ottenuti sono fattori chiave per la buona riuscita del progetto. Senza questi elementi e senza una corretta definizione della rotta è difficile che il progetto funzioni. In questo senso mi piace riprendere la famosa frase di Seneca che sottolinea “Non esistono venti favorevoli per il marinaio che non sa dove andare

Molti altri risultati (con anche numeri e dati) verranno resi disponibili dal mese di Ottobre, ma vi ricordo che il successo dell’iniziativa dipende in massima parte da voi e dal vostro contributo. Per ogni azienda che collabora alla compilazione della survey un pezzo del puzzle si aggiunge e il quadro che andremo a delineare assieme sarà un importante passo in avanti sulla strada dell’implementazione della social collaboration nel nostro paese!