Archives For November 30, 1999

Chi segue questo blog da qualche tempo sa bene che uno dei temi – forse IL tema per eccellenza – di cui mi occupo è quello legato a come costruire organizzazioni maggiormente agili, resilienti e collaborative.

Negli ultimi 10 anni ho speso buona parte del mio tempo a supportare organizzazioni di medie e grandi dimensioni e a complessità variabile nella definizione della migliore strategia di cambiamento che rimettesse le persone al centro del business.
Modelli di aziende maggiormente innovative, trasparenti, collaborative sono possibili e generano un vantaggio competitivo notevole all’interno del mercato di cui fanno parte.
Non solo: questi modelli rimettono al centro le persone, motivandole a dare il meglio e costruendo con loro una nuova era di valore della quale possano beneficiare tutti gli stakeholder coinvolti.

Stefano Besana - Collaborative Company

Stefano Besana – Collaborative Company EGEA – Tag Innovation School Books

Da una collaborazione con Alessandro Rimassa e Talent Garden Innovation School è nato, quindi, “Collaborative Organization“: un piccolo breviario ricco di esempi e di considerazioni che assommano un decennio di lavoro nelle aziende e che si propone di divenire una piccola guida che possa contribuire a un cambiamento – anche minimo – all’interno del nostro modo di concepire le aziende.

Come si legge nel volume:

Il concetto non è nuovo e si applica a molte delle svolte che hanno condizionato il pensiero occidentale: Randall Collins nel suo The Sociology of Philosophies (1998) sottolinea come la Mittwochsgesellschaft (la società del mercoledì di Berlino, gruppo di pensatori tedeschi liberali) si ampliò progressivamente nel corso degli anni; o come Pisarro e Degas si iscrissero alla Ecole des Beaux Arts nello stesso momento e di come fecero poi la conoscenza di Cézanne e Renoir al Café Guerbois; cambiando paradigma di riferimento, le jam session funzionano allo stesso modo sviluppando una vera e propria group mind durante le sessioni e, ancora, Hegel, Schelling e Hölderlin furono compagni di scuola a Tubinga. Secondo Collins queste interazioni non casuali generano dei veri e propri rituali che si traducono in un capitale culturale di altissimo valore mettendo a fattor comune esperienze, conoscenze e soprattutto relazioni che un soggetto acquisisce nel corso della sua vita.

Si tratta di un modello che rimette al centro la nostra capacità di avere un impatto concreto sul mondo, poiché – come sottolinea tra gli altri Mihaly Csikszentmihalyi:

“Non si può condurre una vita che sia veramente eccellente senza sentire che si appartiene a qualcosa di più grande e permanente di se stessi”.

Un nuovo modello di lavoro è possibile e – per certi versi – è già in atto.

Curiosi?
Potete trovare – edito da Egea – sul sito ufficiale della casa editrice o su Amazon: http://amzn.eu/d/4GAi3rg

Qualche anno fa – nel 2013 – assieme a Emanuele Quintarelli (http://www.socialenterprise.it/it/) abbiamo lanciato la prima Social Collaboration Survey in Italia, con l’obiettivo di indagare lo stato delle aziende Italiane rispetto al tema della collaborazione e del supporto che questa può fornire all’interno dei progetti di trasformazione digitale.

Si è trattato di un progetto ambizioso che ha visto il coinvolgimento di oltre 300 aziende che hanno partecipato alla prima mappatura del nostro mercato.
I dati – pubblicati e a disposizione di tutti – hanno messo in evidenza diverse dimensioni tra cui: l’ambizione, il valore che le tecnologie collaborative possono portare in azienda, le barriere che impediscono i processi di trasformazione digitale il cambiamento culturale, l’impatto sul business della componente collaborativa e molto altro. 
Se foste interessati, trovate i vecchi risultati e maggiori informazioni in un post di questo blog (https://sociallearning.it/2013/12/02/il-report-sulla-collaborazione-nelle-aziende-italiane-e-disponibile-social-collaboration-survey-2013-socialcollabsurvey/). 

Ma cosa è la Social Collaboration? La definiamo come: 

Un insieme di strategie, processi, comportamenti e piattaforme digitali che consentono a gruppi di persone all’interno dell’azienda di connettersi, interagire, condividere informazioni e lavorare ad un comune obiettivo di business

Si tratta quindi di una dimensione profondamente connessa al business a un nuovo modello di lavoro che ha una forte connessione al come possiamo ripensare e riconsiderare l’azienda all’interno del percorso di digitalizzazione, come sappiamo – oggi come ieri – non è possibile essere digitali a metà.
Risulta quindi cruciale e fondamentale guardare all’interno dei processi organizzativi e ai propri dipendenti. 

In collaborazione con EY e l’Università di Padova abbiamo deciso di lanciare la seconda edizione della Social Collaboration Survey, rivolgendoci – questa volta – a un pubblico internazionale ed europeo, allargando il focus e provando a esplorare dimensioni molto più ampie. 

Il link per la compilazione (che richiede una decina di minuti) è questo: https://it.surveymonkey.com/r/EUSocialCollab

Inutile dire che i risultati saranno resi pubblici e oggetto di numerosi articoli qui e altrove, il supporto da parte di tutti è fondamentale per la buona riuscita dell’esperimento e per avere un numero maggiore di risposte che ci aiutino, non solo a mappare al meglio il mercato, ma – soprattutto – a immaginare un migliore futuro per le organizzazioni di cui facciamo parte. Un futuro più a misura d’uomo e maggiormente piacevole nel quale lavorare, oltreché – inevitabilmente – in grado di generare maggiore valore.

Le nostre aziende se la passano tutt’altro che bene!

E’ questa l’impressione, assolutamente confermata, che emerge da moltissimi report internazionali e nazionali che mettono in luce alcune delle mancanze fondamentali che stanno impedendo alle imprese di costruire un orizzonte di senso esteso in grado, non solo di generare risultati di business significativi, ma di ingaggiare in modo valido dipendenti e clienti.

Questo processo è stato amplificato da una serie di sfide che si è affacciata da qualche anno sul mondo organizzativo: in primo luogo la vita media delle nostre organizzazioni si è notevolmente accorciata. Imprese che fino a qualche anno fa dominavano il mercato non esistono più (Blockbuster, Nokia, Kodak sono solo alcuni degli esempi più famosi) e altre, nate solo qualche anno fa, regnano incontrastate sia nei mercati finanziari sia nelle crescite esponenziali che le caratterizzano (Facebook, Uber, AirBnB e Netflix solo per citarne alcune). Il tema però ha risvolti molto più ampi e riguarda una effettiva incapacità delle organizzazioni nel gestire i processi chiave che ne costituiscono la struttura stessa.

In primo luogo non siamo in grado – come organizzazioni – di gestire i nostri dipendenti, secondo le analisi di Gallup [1], la maggior parte della forza lavoro è attualmente dis-ingaggiata, e rema contro i principi e i valori dell’organizzazione di cui fa parte: è solo il 13% dei dipendenti a partecipare in modo proattivo alla costruzione di valore dell’impresa. Non siamo in grado nemmeno di gestire la conoscenza: il 50% del lavoro collaborativo, secondo McKinsey, va sprecato e sempre su questo tema, IDC sottolinea come ¼ della settimana lavorativa venga attualmente speso nel trasformare conoscenza (parliamo di circa 5.6 milioni di dollari all’anno per ogni 1.000 dipendenti). La conoscenza rappresenta oggi uno dei pilastri fondamentali delle organizzazioni ed è profondamente connessa al loro modo di operare e alla capacità di gestire il mercato: non è un caso che si parli sempre più spesso di knowledge worker: si tratta della maggior parte della forza lavoro di oggi, persone che – quotidianamente – gestiscono e scambiano conoscenza per generare valore per se stessi e per le imprese di cui fanno parte. E’ quindi evidente che una inefficienza così elevata nella gestione della conoscenza all’interno delle organizzazioni non può che portare a un danno economico estremamente ingente.

Dal punto di vista dell’innovazione le aziende di oggi stanno avendo non pochi problemi nella creazione di nuove idee che permettano loro di generare vantaggio competitivo: da un lato la crescente pressione del mercato (e dei competitor che spesso provengono da un settore completamente differente [2]) e dall’altro, l’impossibilità di rimanere allineati alla velocità con la quale si muovono i consumatori con solo il proprio ufficio di Ricerca e Sviluppo. Non è un caso che i brand maggiormente maturi abbiano iniziato un percorso di trasformazione digitale che abbattesse le barriere canoniche tra interno ed esterno dell’azienda abilitando i clienti a partecipare in modo attivo ai processi di innovazione. [3]

Le organizzazioni non sono in grado nemmeno di gestire le eccezioni ai processi, come sostengono Hagel e Brown:

“While 95% of IT investment goes to support business process (to drive down costs), most employee time isn’t spent on process but exceptions to process”

lontani sono – infatti – i tempi in cui le aziende potevano basarsi sull’assioma di Henry Ford riportato anche nella sua biografia del 1922:

“Ogni cliente può ottenere una Ford T di qualunque colore desideri, purché sia nero. […]”;

oggi la richiesta di personalizzazione del consumatore raggiunge la sua massima espressione e si riflette su tutti gli aspetti organizzativi. Offrire servizi sempre all’altezza delle richieste e delle aspettative del modello di consumatore che è presente oggi sul mercato diviene una sfida complessa e articolata che non sempre le organizzazioni sono in grado di cogliere appieno.

Questo nuovo modello di consumatore, molto più esigente, molto più informato e molto più consapevole delle sue scelte di acquisto e di consumo, ha molta più voce rispetto al passato (i social media ne sono l’espressione principale) e riesce a stabilire con i brand un relazione molto più paritetica basata su fiducia e trasparenza. Quando questi due assunti vengono a mancare la relazione non solo si interrompe, ma può radicalmente trasformarsi e mettere in crisi l’intera reputazione dell’azienda.

Fiocca et alii (2016) nel volume Brand Experience, relazioni impresa-cliente e valore di marca (citato in G. Besana – 2016 –  Brand engagement e social customer. La relazione tra azienda e consumatore nell’era digital: Il caso Oreo) definisce e riassume in questo modo i comportamenti che caratterizzano questo nuovo modello di consumatore:

  • Frenesia: il nuovo consumatore è un soggetto volubile, difficile da attirare e da coinvolgere, ha un livello di attenzione disperso e le forme relazionali e comunicative alle quali siamo abituati non sono spesso efficaci per coinvolgerlo.
  • Competenza: il consumatore di oggi è chiaramente più informato e più esperto, molto più complesso risulta quindi il processo di costruzione dei contenuti che stanno alla base del suo coinvolgimento
  • Atteggiamento esigente, ma al tempo stesso disincantato: il nuovo consumatore pretende che il brand sia in grado di rispondere appieno alle sue esigenze in termini qualitativi (e non solo quantitativi come siamo stati abituati per anni). Si tratta di un nuovo modello di soddisfazione del consumatore completamente differente. Il cliente è consapevole e pretenzioso.
  • Aggregazione e community: i consumatori tendono – in modo spontaneo – ad aggregarsi in gruppi con i quali condividere emozioni, interessi, pensieri e ricercare informazioni sul brand. Le community che sorgono in rete diventano veicoli fondamentali di informazioni per i brand che sanno ascoltare [4]
  • Selettività: il nuovo modello di cliente che stiamo raccontando adotta anche comportamenti selettivi, dimostrando capacità decisionale e autonomia nella definizione dei brand che intende utilizzare e dei quali intende circondarsi
  • Integrazione: il social customer si aspetta una completa integrazione dell’esperienza offerta dal brand, è per questo motivo che si parla di multicanalità e di esperienza utente in senso esteso

Iron customer

E’ in questo scenario che si innesta il ruolo della social e digital collaboration e della creazione di un nuovo modello di azienda che riparta e riconsideri al centro dei propri processi il ruolo – costitutivo e centrale – dei proprio dipendenti. Con social collaboration intendiamo, infatti:

un insieme di strategie, processi, comportamenti e piattaforme digitali che consentono a gruppi di persone all’interno dell’azienda di connettersi, interagire, condividere informazioni e lavorare ad un comune obiettivo di business [5]

Si tratta quindi di un processo che rivede le logiche organizzative secondo alcuni principi fondamentali:

  • Non esistono più barriere tra interno ed esterno dell’organizzazione
  • L’azienda ha come scopo ultimo quello di massimizzare lo scambio e la co-creazione di valore tra tutti gli attori coinvolti (siano essi partner, dipendenti, clienti o fornitori esterni)
  • Il dipendente e il cliente sono intimamente connessi e dialogano in una logica inside-in e outside-out
  • Il modo di lavorare cambia radicalmente e rende l’organizzazione più efficiente, più agile e in grado di rispondere al meglio alle sfide del mercato
  • Il potere è decentrato e si affermano modelli di leadership basati sulla competenza e sui singoli progetti
  • L’organizzazione è adattiva e diventa in grado di cambiare la propria configurazione a seconda delle sfide che il consumatore e il mercato impongono

In sostanza si tratta di un modo di lavorare completamente nuovo che rimette al centro di tutti i processi le persone, siano essi dipendenti interni all’impresa o clienti esterni.


[1] Per maggiori informazioni sulle statistiche di Gallup consigliamo il sito ufficiale: http://www.gallup.com/home.aspx

[2] In questo senso basti pensare alla rivoluzione introdotta nel mercato dei trasporti da Uber (https://www.uber.com/it/) o da Apple nel mondo della telefonia e degli smartwatch (http://www.apple.com)

[3] Per maggiori informazioni in questo senso si vedano gli esperimenti delle piattaforme di innovazione collaborativa volute da Lego (https://ideas.lego.com/) e Starbucks con la sua MyStarbucks Idea (http://mystarbucksidea.force.com/)

[4] Non è un caso che moltissime organizzazioni tra le maggiormente mature abbiano messo in atto strategie di web monitoring e social media listening per utilizzare le informazioni spontaneamente condivise dai consumatori per migliorar e il proprio prodotto o servizio. L’importanza e la tendenza naturale degli utenti a unirsi all’interno di community gioca un ruolo fondamentale – come vedremo – anche nella dimensione interna all’azienda e non solo in riferimento ai propri clienti

[5] La definizione è riportata nella Social Collaboration Survey 2014 (http://socialcollaborationsurvey.it/) di Stefano Besana ed Emanuele Quintarelli

Le organizzazioni sono – da sempre – abituate a ragionare per compartimenti stagni, a distinguere, in modo anche abbastanza netto ciò che sta fuori da ciò che invece sta all’interno. Consumatori e dipendenti dell’azienda molto raramente si parlano e – molto spesso – nessuna organizzazione ritiene che debbano farlo.

Ma siamo sicuri che questa sia la strategia e la soluzione migliore per le nostre imprese? Siamo sicuri che non ci sia un modo migliore, più efficiente e maggiormente intelligente di lavorare?

Le domande sono chiaramente provocatorie, ma gli assunti di fondo rimangono.

Due report molto recenti di Aberdeen mettono a fuoco questi temi e si chiedono in che modo la collaborazione interna e dall’interno verso l’esterno (quindi tra dipendenti e tra dipendenti e consumatori, ma anche tra consumatori stessi) sia in grado di migliorare il processo di servizio al cliente.

I due report in oggetto – di cui vi consiglio la lettura – sono: Enterprise Social Collaboration. Driving Customer Experience Excellence through Teamwork  e Enterprise Social Collaboration in Customer Service: Better Teamwork Unlocks Customer Delight

Cerchiamo di analizzare quelli che sono i principali dati che emergono dal mercato e dall’analisi dei due report

  • I consumatori sono sempre più digital, nel 2013 il 10% degli utenti globali ha effettuato un acquisto di beni elettronici via smartphone (giusto per citare uno dei dati maggiormente significativi)
  • Il 70% dei consumatori compra online perché è sicura di trovare un prezzo migliore rispetto a quello che gli viene normalmente proposto
  • Consapevoli – chi più chi meno – di questo fenomeno, le organizzazioni stanno adottando servizi di social customer care in modo sempre più consistente. E’ il 60% delle aziende a farlo. Oltre il 68% – invece – riconosce il valore del customer care fatto via social media con Facebook considerato come canale principale e più utilizzato da chi è già più maturo (86.2%)
  • Nel 2010 la percentuale di aziende che utilizzavano i social media per la loro strategia di customer care era del 12%, questo stesso valore si è alzato fino a raggiungere il 70% nel 2014

Aberdeen2

Tuttavia, il percorso non è affatto semplice e privo di ostacoli. Le barriere che le organizzazioni si trovano a dover fronteggiare sono ancora molte. Nel 48% dei casi le aziende hanno difficoltà nell’allocazione delle risorse del customer care e nel 31% dei casi manca una sponsorship del top management che sappiamo essere fondamentale per la riuscita di queste iniziative che – prima di tutto – rappresentano un cambio culturale della mentalità organizzativa.

La Social Collaboration in questo caso interviene nella definizione e nell’aiutare le organizzazioni a sviluppare una visione integrata del consumatore. Per il 42% il driver principale dell’adozione è la riduzione della comunicazione interna e la facilità che questi strumenti consentono nel coordinamento di team dispersi anche geograficamente. Per il 34% delle aziende – invece – il driver chiave è l’impossibilità dei dipendenti di accedere ad informazioni che sono fondamentali per il loro lavoro.

Capite che il ruolo della collaborazione diviene dunque fondamentale per aiutare le organizzazioni anche solo a lavorare meglio al loro interno.

La collaborazione interna può sbloccare anche un potenziale estremamente significativo a livello di:

  • Miglioramento del “handle-time” totale delle richieste e dei problemi dei clienti
  • Fidelizzazione dei clienti anno su anno
  • Riduzione del tempo totale di risposta (16%)
  • Migliorare i margini operativi riducendo la dispersione di tempo, facilitando l’onboarding delle nuove risorse, rendendo più semplice la possibilità di identificare Subject Matter Expert che possano aiutare nella risoluzione del problema. In parole povere, migliora la capacità dell’organizzazione di accedere a ciò che già conosce e a capitalizzare meglio la conoscenza.
  • Aumentando il numero di problematiche risolte anno su anno (16.8%)

Sembra quindi implicito dedurre che la Social Collaboration e in generale l’adozione di soluzioni di social enterprise, a livello più ampio,  generino un beneficio effettivo alle organizzazioni sia sui processi maggiormente interni sia su quelli esterni che – apparentemente – non dovrebbero beneficiarne.

Aberdeen1

Qualche caso interessante? Tra i tanti che si possono citare Emanuele Quintarelli ha prodotto una lista qui: http://www.socialenterprise.it/en/index.php/2014/01/04/social-customer-service-pays-off-45-case-studies/
alla quale vi consiglio di dare un’occhiata.

Alle aziende tocca quindi ragionare come “fully social” considerando che essere digitali solo a metà, non solo non è efficace, ma semplicemente non è possibile.
Chiudo con una citazione sul tema di Lew Platt, ex CEO HP:

If only HP knew what HP knows, we would be three times more productive.

Un interessante e recente report di Accenture (per chi fosse interessato ad approfondire lo trovate qui – http://www.accenture.com/SiteCollectionDocuments/PDF/Accenture-2040-CMO-CIO.pdf) mette l’accento su una dimensione estremamente importante del contesto organizzativo che stiamo vivendo in questi anni e soprattutto in questi ultimi mesi anche nel nostro paese.
La rivoluzione digitale, come più volte abbiamo analizzato e ripetuto in questa e in altre sedi, ha impatti significativi e trasversali su diverse aree del business costruendo contesti e scenari nuovi e aprendo nuove sfide e opportunità.

In particolare questo report si concentra sull’integrazione di due ruoli che come abbiamo visto anche in passato (qui l’articolo che riprende la conversazione a due tra Esteban Kolsky e Ray Wang dello scorso Giugno) risultano essere fondamentali nelle organizzazioni di oggi: il Chief Marketing Officer e il Chief Information Officer.
In questo senso il digitale e i cambiamenti introdotti dalla “social media revolution” risultano cruciali e impattano fortemente sulle dinamiche e sulle esigenze che questi due ruoli esprimono all’intero delle organizzazioni di cui fanno parte.

Cerchiamo di analizzare però nel dettaglio quali sono le informazioni principali che emergono dal report:

  • qualunque tipologia di business è – oggi – un business digitale: un’affermazione forte che comunque sottolinea un cambiamento epocale e pone l’accento sul fatto che ormai non sia più in discussione se evolvere la propria azienda verso una strategia digitale o meno. La vera sfida sta nel farlo correttamente assicurandosi risultati e processi che siano integrati con gli obiettivi di business delle aziende.
  • Il crescente potere del consumatore che si è evoluto in social customer e le maggiori aspettative nei confronti delle aziende unite a una maggiore consapevolezza e capacità di esprimere opinioni (positive e negative) pongono il CMO di fronte a nuove sfide che prima non erano attese, sfide che richiedono di essere assunte con consapevolezza e che non possono più essere ignorate.
  • Dal canto suo anche il CIO è stimolato da nuovi aspetti che non sono affatto trascurabili considerando la pervasività della tecnologia e l’evoluzione rapidissima che sta subendo. Gli investimenti in tecnologia entro il 2017 saranno condotti – secondo alcune proiezioni – molto più da i CMO che da i CIO.
  • Dall’analisi condotta da Accenture emerge in modo significativo (8 su 10 rispondenti) la necessità di un allineamento tra le due funzioni: un coordinamento centrale che permetta di studiare in maniera strutturata e strategica le azioni da intraprendere. Sono pochissime – tristemente – le aziende che hanno deciso di investire seriamente in questa direzione e che credono profondamente nell’integrazione e nella collaborazione delle due funzioni.
  • Allo stesso modo la collaborazione tra le due figure non è percepita come efficace (solo 1 su 10 si considera soddisfatto)
  • La percezione del CMO vede nel CIO un mero braccio operativo, il che impedisce corrette sinergie e strategie di coordinamento che valorizzino entrambi i ruoli consentendo la massimizzazione del valore generato dall’impresa.
  • Le credenze del CMO e del CIO divergono radicalmente. Una maggioranza di CIO (oltre il 61%) è convinta che l’azienda sia pronta per la sfida digitale, mentre è meno del 49% dei CIO a pensarla allo stesso modo. La differenza di visione si riflette anche a livelli maggiormente operativi, mentre i CIO vedono l’integrazione e la dimensione IT come maggiormente critica i CMO tendono a non preoccuparsi troppo della dimensione di implementazione, molto spesso alzando di troppo l’asticella e contribuendo al fallimento di progetti di digital transformation.

Il report riporta poi le sfide e le frustrazioni dei due ruoli, dai grafici è possibile estrarre alcune significative considerazioni sull’andamento e il disallineamento delle due funzioni.
Di seguito il punto di vista del CMO:

CMO

Qui invece il punto di vista del CIO: sfide differenti e prospettive differenti che richiedono una integrazione per fare in modo che l’intera organizzazione riesca a muoversi in una direzione condivisa e unica.

CIO

Un altro dato molto interessante è il “cortocircuito” che si innesta nei C-Level dell’azienda: la funzione maggiormente strategica per questi due ruoli sembra essere quella del CFO (contrariamente alla credenze che vedono la funzione maggiormente strategica nel CEO) che rappresenta un “appiglio” estremamente importante per entrambi.
Per quanto riguarda entrambi i livelli comunque la collaborazione è percepita ancora come un forte tallone d’Achille a testimonianza del fatto che i silos e le divisioni interne all’azienda rappresentano una forte barriera per la crescita delle organizzazione. L’abbattimento delle classiche separazioni è quindi estremamente utile per efficientare i processi di crescita e il differenziale strategico che l’organizzazione mette in atto.
La riflessione non è nuova per chi si occupa di social organization e di social business dove – come ben sappiamo – ragionare in termini di barriere e di suddivisioni risulta poco efficace e utile all’interno di un contesto come quello del digitale.

Scollamenti significativi, frutto di incomprensioni e strategie errate si riscontrano anche rispetto alle differenti priorità che i due ruoli esprimono all’interno dell’organizzazione. Visioni spesso antitetiche che contribuiscono a peggiorare sia la collaborazione interna sia la direzione verso la quale “naviga” l’azienda.

Priorita

A livello operativo il report si chiude con alcuni consigli strategici per poter realizzare una strategia di marketing e di trasformazione digitale di sicuro successo, o – perlomeno – per limitare al massimo le possibilità di errore.

  • Evolvere il ruolo del CMO verso un CXO dove la X sta per eXperience: in modo che sia – in azienda – la figura di riferimento per tutto il customer journey e per tutto il percorso evolutivo del consumatore. Dalla fase di awareness a quella di ingaggio più esteso e fidelizzazione. Deve essere in grado di ragionare per obiettivi strategici e per KPI in modo da valutare costantemente la riuscita o meno delle iniziative e l’allineamento con quanto impostato a livello aziendale come obiettivi strategici.
  • Accettare il ruolo dell’IT manager come strategico ed estremamente importante nella realizzazione di una strategia digitale.
  • Concordare sugli obiettivi e trovare allineamento tra le sfide comuni, investendo nelle medesime in modo da massimizzare gli sforzi e i amplificare i risultati.
  • Realizzare in azienda il giusto mix di competenze tra visione ed execution, tra idee e implementazione, tra professionisti orientati al risultato e visionario orientati alla massima innovazione: in questo modo si riescono a tenere insieme due dimensioni apparentemente discordanti che rappresentano due ingredienti fondamentali per il sicuro successo dell’impresa.
  • Costruire fiducia e legami significativi: sperimentando e lavorando insieme, sia all’interno dell’azienda sia coinvolgendo consumatori nella catena estesa di generazione del valore dell’organizzazione.

“This requires a top-down setting of priorities starting with CEO expectations and calibrating with all verticals. For example,  including key IT employees in marketing meetings, sales conventions, etc., would give them more context to their work and better appreciation for timelines. There could be some reciprocity here with key marketing employees appropriately involved with IT work”

Di recente mi è capitato di scambiare alcune visioni sia con alcuni amici sia con alcuni colleghi su come il mercato del Social Business sia cambiato negli ultimi mesi e anni.
Dalla storica teorizzazione del concetto di Enterprise 2.0 di Andrew McAfee* è passata molta “acqua sotto ai ponti” e le aziende – anche quelle apparentemente meno mature e meno adatte al cambiamento – hanno cominciato, chi più chi meno, chi in maniera più strutturata, chi in maniera meno solida a intraprendere iniziative di socializzazione dei processi aziendali: da chi ha iniziato veri e propri progetti di digital workplace a chi si limita – ancora – a aprire qualche canale social senza una strategia ben precisa.

* Enterprise 2.0 is the use of emergent social software platforms within companies, or between companies and their partners or customers.

Superato però un’iniziale momento di aspettative inflazionate e di forte slancio verso questo tipo di strumenti, le aziende – e i consulenti – si stanno rendendo conto che “non è tutto oro quello che luccica”.

In questo senso una serie di ragioni ben precise fanno ipotizzare anche che la maggior parte dei progetti di social enterprise e di social business vadano verso una direzione assolutamente fallimentare. (Si vedano anche le ottime riflessioni di Emanuele Quintarelli sul tema, ricche di dati e di spunti molto utili http://www.socialenterprise.it/index.php/2013/02/11/80_socialbusiness_fallira/ ).
Come è possibile? Come si spiega che possa fallire qualcosa che per molti non è nemmeno iniziato? Perché qualcuno riesce a ottenere benefici enormi dall’adozione delle social technologies e qualcun altro – invece – non sa nemmeno da dove cominciare?

Una serie di ragioni ben precise (lo stesso Jacob Morgan nel suo ultimo volume The Collaborative Organization evidenzia alcuni di questi temi) ci consente di prendere le mosse da adozioni e progetti fallimentari per capire cosa spesso va storto.

  • Mancanza di commitment da parte del Top Management: le iniziative di maggior successo non sono quelle che nascono dal basso, né quelle che vengono calate dall’alto. Sono quelle che uniscono entrambi gli aspetti. Un serio commitment, non solo sulla carta del top management (e dal giorno 0 del progetto) aiuta tutta l’azienda nel passaggio più difficile: un cambio di mentalità radicale. 
  • Il “Social Business non è una nostra priorità”: argomentazione difficile questa contro la quale ribattere, resta importante in questo senso focalizzarsi sugli obiettivi e mostrare – a chi non ci crede – quale sia il valore che questo tipo di approcci possono generare sull’intero ecosistema aziendale. Nelle aziende – non nascondiamocelo – le priorità vengono associate a ciò che permette di creare business. Far capire che l’adozione delle tecnologie digitali non è un gioco ma una cosa molto seria sta ai consulenti.
  • “Non vogliamo imparare a fare cose nuove!”
    Anche in questo caso, è inutile nasconderselo: ogni cambiamento richiede fatica, richiede rischio e richiede un investimento in termini di risorse, impegno, apprendimento che non è assolutamente da sottovalutare. Assistere le persone nel cambiamento e nel passaggio è assolutamente fondamentale.
  • “Qual è il ROI di questa roba?”
    Molte aziende non riescono a comprendere i vantaggi di questi approcci. Il meccanismo ricorsivo che si innesta può essere devastante. In questo senso risulta – ancora una volta – assai importante il ruolo della formazione e dell’accompagnamento. Per smentire questa tesi basterebbero le molte ricerche e studi condotti da McKinsey (non ultimo https://sociallearning.it/2012/10/31/il-valore-e-il-mercato-del-social-business/ ): tra i più recenti una survey condotta su oltre 1’600 persone ha mostrato significativi passi in avanti. Il 77% delle persone ha riscontrato un miglioramento dell’accesso all’informazione, il 52% una velocità nell’accesso agli esperti e nel contattare referenti aziendali, il 44% un abbattimento di costi di viaggio e di riunione.
    Tuttavia non è sufficiente. I benefici non tangibili che si possono avere da queste lezioni sono molti ed evidenti ma il tema è sempre quello di collocarli nel concreto della propria azienda.
  • Mancanza di Budget: uno dei punti altrettanto fondamentali è la mancanza di budget rispetto alle iniziative che nascono o che si vogliono far nascere. La riduzione delle risorse è in questo senso uno dei fattori maggiormente critici, senza questo le cose non possono funzionare. E’ bene quindi destinare o capire come sbloccare le risorse necessarie per portare un cambiamento che possa – sul breve sul medio e sul lungo termine – migliorare l’efficacia e l’efficienza della nostra organizzazione.
  • Chi se ne occupa? “Ho del lavoro in più da fare?”
    Oltreché a livello culturale le resistenze maggiori si possono incontrare nel momento in cui le persone percepiscono questo cambiamento come un carico aggiuntivo o non vengono ben esplicitati nemmeno i ruoli e le responsabilità aziendali connesse a questo processo. E’ sempre opportuno esplicitare ruoli, funzioni, compiti da svolgere e allineare tutti i referenti sul processo in atto. Una mancanza di coordinamento e di coesione in questo senso può portare a risultati disastrosi o all’abbandono delle piattaforme.
  • Mantenimento: un’altra delle cose fondamentali – come ben illustrato dallo stesso Jacob Morgan – è quella del mantenere l’iniziativa. Capita di frequente che oltre l’entusiasmo del primo momento ci si scontra con quelli che sono i tempi e le modalità naturali del corso delle cose (e del lavoro) e le iniziative – non correttamente mantenute – vadano piano piano morendo o adagiandosi in uno stato poco utile o non efficace per l’azienda. Cogliere la tendenza, invertirla e considerare il processo di social transformation non come un interruttore acceso/spento ma come un qualcosa da coltivare costantemente è fondamentale.
  • Obiettivi di business: molte aziende intraprendono il percorso (o perlomeno il tentativo di un percorso) di social transformation senza aver dichiarato a priori quali obiettivi di business vogliono ottenere. Senza chiarire quali sono tutto il resto perde di senso: sarà impossibile ottenere il commitment, misurare il valore e gli impatti aziendali, e via dicendo…
    Mi interessa il mondo degli Enterprise Social Network? Benissimo: prima di partire con un progetto che vada in questa direzione è opportuno domandarsi se è realmente funzionale per la mia realtà, quali benefici può portare e quali obiettivi voglio ottenere con questi strumenti.
  • Integrazione e operatività: le strategie social non devono essere improvvisate o inserite casualmente in un flusso aziendale ma correttamente integrate con i processi e i flussi esistenti. In una frase: bisogna risolvere i problemi concreti delle persone e dare una risposta ai loro bisogni. 
  • Misurazione e valutazione: stabilire degli indicatori di successo, misurare e analizzare i fenomeni che accadono e avere una chiara valutazione di quello che sta succedendo risulta fondamentale per tarare e misurare il successo o meno della nostra iniziativa. In questo senso risulta molto importante per poter correggere il tiro (si pensi anche nel caso di eventuali – suggeriti – pilot per sedimentare gli apprendimenti e fare le dovute valutazioni) e per poter costantemente migliorare i processi nei quali siamo coinvolti.
  • Talenti e competenze: progetti di questo tipo non si improvvisano. Non si diventa strategist aprendo una startup di consulenza o leggendo un paio di libri. La sfida del futuro è quella di aggregare competenze, talenti e persone che siano davvero in grado di fare la differenza sul piano del cambiamento delle aziende e del nostro modo di lavorare.

Come visibile dall’elenco sopra riportato (che sia chiaro è incompleto e vuole essere solo una disamina generale) le sfide e le difficoltà sono molte ma la possibilità di crescita sono altrettante.

Le aziende che hanno in mente di fare davvero la differenza in questo settore devono considerare seriamente i punti sopra e comprendere come i social media, il social business, l’intera trasformazione digitale deve essere pianificata e non può certo essere lasciata al caso o alla fortuna.
Solo attraverso una pianificazione e dei progetti concreti e precisi, le persone giuste, le competenze di eccellenza, saremo in grado di migliorare il nostro modo di fare impresa.

Continuo con questo la serie di post dedicati allo Young Digital Lab che si è svolto in questi due giorni a Milano.
Evento come sempre ricco di spunti mi ha permesso di porre l’accento su alcune delle strategie su cui stiamo lavorando in OpenKnowledge e che possono aiutare le organizzazioni ad evolvere verso un modello di Social Business sempre più maturo e concreto.

Oggi ho parlato di Social CRM.

 

Anche in questo caso ho voluto iniziare con alcune citazioni che reputo significative per comprendere al meglio il cambio di paradigma da un approccio tradizionale a uno di Social CRM. Le conversazioni e la centralità dei consumatori hanno assunto ormai dimensioni che rendono impossibile la mancanza di una seria riflessione sul tema.
Il noto video di Lithium fornisce anche alcune indicazioni aggiuntive per comprendere esattamente cosa sia il Social CRM:

Ho voluto poi riprendere anche il celebre video sul DELL Listening Center che mostra molto chiaramente quale sia l’importanza per un’organizzazione di monitorare costantemente le conversazioni su se stessi e sui propri diretti competitor.

 

Qui il video a cui faccio riferimento:

Da DELL ho anche preso spunto per parlare di come il Social CRM possa essere in realtà inserito in una strategia più ampia e diffusa di crescita dell’intera organizzazione (lo schema che vedete deriva dalla presentazione che Bill Johnston ha fatto allo scorso Social Business Forum – la trovate qui: http://www.socialbusinessforum.com/agenda/ )

 

Infine, in chiusura lo schema proposto da Emanuele Quintarelli che consente di comprendere a che punto sia posizionata la propria organizzazione sulla strada verso il Social Business, come visibile oltre al Social CRM ci sono altri passaggi ulteriori che consentono un’evoluzione ancora più intensa dell’organizzazione nel tentativo di raggiungere un vero e proprio Social Business: un’organizzazione – cioè – in cui lo scambio di valore tra tutto l’ecosistema divenga la ragione stessa di esistenza dell’azienda.