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Qualche anno fa – nel 2013 – assieme a Emanuele Quintarelli (http://www.socialenterprise.it/it/) abbiamo lanciato la prima Social Collaboration Survey in Italia, con l’obiettivo di indagare lo stato delle aziende Italiane rispetto al tema della collaborazione e del supporto che questa può fornire all’interno dei progetti di trasformazione digitale.

Si è trattato di un progetto ambizioso che ha visto il coinvolgimento di oltre 300 aziende che hanno partecipato alla prima mappatura del nostro mercato.
I dati – pubblicati e a disposizione di tutti – hanno messo in evidenza diverse dimensioni tra cui: l’ambizione, il valore che le tecnologie collaborative possono portare in azienda, le barriere che impediscono i processi di trasformazione digitale il cambiamento culturale, l’impatto sul business della componente collaborativa e molto altro. 
Se foste interessati, trovate i vecchi risultati e maggiori informazioni in un post di questo blog (https://sociallearning.it/2013/12/02/il-report-sulla-collaborazione-nelle-aziende-italiane-e-disponibile-social-collaboration-survey-2013-socialcollabsurvey/). 

Ma cosa è la Social Collaboration? La definiamo come: 

Un insieme di strategie, processi, comportamenti e piattaforme digitali che consentono a gruppi di persone all’interno dell’azienda di connettersi, interagire, condividere informazioni e lavorare ad un comune obiettivo di business

Si tratta quindi di una dimensione profondamente connessa al business a un nuovo modello di lavoro che ha una forte connessione al come possiamo ripensare e riconsiderare l’azienda all’interno del percorso di digitalizzazione, come sappiamo – oggi come ieri – non è possibile essere digitali a metà.
Risulta quindi cruciale e fondamentale guardare all’interno dei processi organizzativi e ai propri dipendenti. 

In collaborazione con EY e l’Università di Padova abbiamo deciso di lanciare la seconda edizione della Social Collaboration Survey, rivolgendoci – questa volta – a un pubblico internazionale ed europeo, allargando il focus e provando a esplorare dimensioni molto più ampie. 

Il link per la compilazione (che richiede una decina di minuti) è questo: https://it.surveymonkey.com/r/EUSocialCollab

Inutile dire che i risultati saranno resi pubblici e oggetto di numerosi articoli qui e altrove, il supporto da parte di tutti è fondamentale per la buona riuscita dell’esperimento e per avere un numero maggiore di risposte che ci aiutino, non solo a mappare al meglio il mercato, ma – soprattutto – a immaginare un migliore futuro per le organizzazioni di cui facciamo parte. Un futuro più a misura d’uomo e maggiormente piacevole nel quale lavorare, oltreché – inevitabilmente – in grado di generare maggiore valore.

Da sempre il mercato cinese è stato una forza della natura in termini di crescita del digitale e del mondo tecnologico ad esso legato.

Un interessante report di McKinsey di qualche giorno fa (maggiori informazioni qui se siete interessati all’approfondimento: https://www.mckinsey.com/global-themes/china/digital-china-powering-the-economy-to-global-competitiveness) mette in luce molto bene l’evoluzione al quale questo mercato è stata soggetta negli ultimi anni e quale prospettiva di crescita possa esserci ancora nel prossimo futuro.

Chi mi segue sa molto bene che ho sempre messo l’accento in modo evidente sulla differenza digitale tra il nostro mercato e quello cinese. L’impatto di questo cambiamento non riguarda solo l’impiego di nuovi e differenti canali (e.g. Ren Ren, Sina Weibo, WeChat…) al posto di quelli che conosciamo molto bene e che impiegano le nostre aziende, o un modello culturale differente. Le ragioni sottese a questa differenza sono molteplici e differenziate e richiedono una seria riflessione da parte delle imprese perché quello di cui stiamo parlando è un mercato globale che influenzerà in modo consistente anche quello che avverrà nel nostro continente.

Come si legge nel report:

As China digitizes, industries will experience huge shifts in revenue and profit pools across the value chain. This creative destruction is happening globally as the world digitizes, but it is likely to happen more quickly and on a relatively larger scale in China given a combination of inefficiencies in traditional sectors and massive potential for commercialization.

Vediamo di analizzare i dati principali che emergono dal report e di interpretarli.
Più nel dettaglio:

  • L’evoluzione del mercato digitale in Cina è sorprendente. Giusto per citare un dato su tutti, nel 2016 il valore dei pagamenti mobile è stato di 790 miliardi di $, 11 volte quello degli Stati Uniti

Exhibit 1

  • I venture capitalist cinesi stanno investendo consistentemente nel settore digitale. Giganti come Baidu. Alibaba e Tencent (o BAT) stanno costruendo imperi digitali che integrano differenti e molteplici funzioni, la loro evoluzione è pari – se non superiore – a quella delle piattaforme “occidentali” come Google e Facebook
  • Anche gli investimenti in intelligenza artificiale sono considerevoli e assieme ai big data e fintech rappresentano il principale veicolo di crescita dell’economia digitale del paese. Si tratta – secondo gli analisti – del trend principale che ri-organizzerà l’economia del prossimo – immediato – futuro
  • Il governo cinese sta fornendo alle compagnie digitali notevole spazio per sperimentare favorendo un ecosistema flessibile che consenta di innovare. In questo senso le normative sono davvero interessanti e devono essere prese in seria considerazione dalle aziende che intendono evolvere in questa direzione
  • Le aziende cinesi stanno recuperando rapidamente il passo e la distanza, colmando il gap con i paesi maggiormente industrializzati

Overall, digitization of industries in China still lags behind that of the United States by a considerable margin, but that gap is narrowing rapidly. In 2013, the United States was 4.9 times more digitized than China; in 2016, that figure had fallen to 3.7 times.

  • Entro il 2030 tre trend principali: disintermediazione, dematerializzazione, disaggregazione, saranno responsabili di un profitto pari a una cifra dal 10 al 45% della industry

Exhibit 4 - Sources

L’articolo si chiude poi con una serie di best practice utili per il sostentamento del mercato digitale in Cina e per la pianificazione dei passi successivi.

Vediamo quali sono:

  • Adottare strategie consistenti considerando l’enorme potenziale che esiste in questo mercato. Non si tratta – infatti – di un “mestiere” che può essere improvvisato
  • Utilizzare l’ecosistema digitale cinese nella maniera più ampia possibile. Come abbiamo visto l’ecosistema è molto vasto e i canali molteplici. Le aziende devono comprendere in quale modo si possa impiegare al meglio l’opportunità offerte dalla piattaforma
  • Massimizzare i ritorni grazie all’impiego massivo dei dati e alla loro declinazione all’interno delle strategie di business. I big data possono rappresentare, per il mercato cinese molto più che in altri casi, il fattore differenziante in grado di creare la differenza sostanziale e consentire un cambiamento costante e duraturo nel tempo
  • Costruire un’organizzazione agile: utilizzare gli strumenti descritti e integrarli in un contesto che consenta all’impresa di lavorare in modo maggiormente veloce, rispondere in modo efficace agli stimoli esterni e reagire alle sollecitazioni che provengono dal mercato
  • Digitalizzare le operation e la parte interna dell’impresa. E’ l’unico modo per garantire il funzionamento delle strategie che abbiamo impostato. Chi segue questo blog sa che il tema è cruciale – ad oggi – per permettere all’impresa di scalare davvero
  • Adattarsi alla regolamentazione e alle policy previste dal governo cinese. E’ nell’interesse delle aziende che intendono investire nel settore muoversi rapidamente in questa direzione evitando successive rincorse che penalizzerebbero i ritorni di business

Di recente mi è capitato a vario titolo di collaborare con alcune delle nostre principali università italiane all’interno di alcuni progetti di digitalizzazione e di definizione di nuovi modelli operativi basati sulla rivoluzione digitale.

All’interno del percorso di ricerca condotto mi sono imbattuto in un report dedicato all’università digitale redatto – tra gli altri – dal buon George Siemens (padre del connettivismo e del social learning più volte citato e anche intervistato in questa stessa sede). Per chi fosse interessato il report è disponibile qui e analizza in modo molto approfondito e dettagliato tutti i trend emersi negli ultimi anni su questo tema. Vediamo in sintesi quali sono i messaggi principali che emergono dal report.

  • Le modalità di formazione a distanza rappresentano ormai una delle modalità di educazione e di apprendimento maggiormente note e i benefici dell’adozione di questi modelli sono ormai palesati. Non tutti però hanno deciso di intraprendere questa strada e non tutti hanno predisposto i necessari investimenti che dovrebbero coprire questo tipo di approccio, creando esperienze significative per i discenti
  • In questo senso il margine di miglioramento è molto ampio sia all’interno degli scenari di formazione online sia in quelli di blended education che appare per varie ragioni quello scelto dalla maggior parte delle università per ragioni di immediatezza e di semplicità rispetto alle tematiche trattate

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  • Gli investimenti all’interno di questo ambito sono crescenti e nei prossimi anni promettono di aumentare in modo ancora più considerevole. Anche se molto spesso la direzione non è molto ben definita e tracciata e richiede un costante lavoro di ritaratura da parte degli addetti ai lavori
  • Il segnale che proviene dal mercato – anche in termini di innovazione tecnologica – è molto forte e promette di aumentare in modo consistente nel prossimo e immediato futuro. E’ un trend al quale guardare con attenzione soprattutto per la realizzazione e l’implementazione di nuovi formati legati alla didattica. Il mondo e il mercato sono cambiati e gli atenei di tutto il mondo si stanno adeguando, in modo più o meno forte, a queste tendenze

Il report si concentra, come avrete intuito, solamente sugli aspetti maggiormente legati alla didattica e alla modalità di apprendimento, ma le università di oggi in realtà ricevono sollecitazioni e sfide notevoli anche da altre aree. Il tema dell’apprendimento è solamente uno degli scenari da prendere in considerazione.

In che modo, quindi, la rivoluzione digitale è in grado di migliorare i processi di cui stiamo parlando e quale contributo effettivamente può dare alle università italiane e internazionale nell’evolvere verso un modello migliore e maggiormente efficace sia per gli studenti che per gli stessi atenei?

A mio modo di vedere ci sono alcuni interessanti punti di convergenza che il digitale obbliga a prendere in considerazione quando si parla di università:

  • La formazione e l’apprendimento a distanza. Non si tratta certo di un nuovo trend, quello dell’e-learning (e del social learning che non a caso dà il titolo a questo blog) è uno dei temi che in modo maggiormente significativo ha toccato le università negli ultimi anni. Lo scenario è nuovamente cambiato e la capacità che le università devono fornire ai propri iscritti sono sicuramente maggiori, o perlomeno dovrebbero esserlo. E’ questa l’aspettativa di un nuovo pubblico di studenti e di stakeholder che sono sempre più digitalizzati e richiedono un numero di servizi sempre maggiore. Su questo rimando al report già citato per gli approfondimenti del caso
  • Non solo studenti. Il network e il contesto nel quale le università di oggi si muovono è estremamente complesso e include studenti delle scuole superiori, studenti già laureati, professionisti in cerca di una formazione di alto livello, istituzioni, enti pubblici e via dicendo. La capacità di offrire un servizio personalizzato a tutti e di diversificare la propria offerta su canali e touchpoint differenti è una richiesta ben precisa del mercato che deve essere seriamente presa in considerazione da parte degli atenei
  • Alumni. Sulla falsa riga del modello americano le community alumni stanno prendendo sempre più piede anche in Italia. Il network degli ex studenti rappresenta un’occasione di business fondamentale per l’ateneo che si riflette a differenti livelli: dalla comunicazione all’immagine complessiva senza dimenticare il fundrasing e la possibilità di dare visibilità ai brand ambassador. La possibilità di costruire un network serio da questo punto di vista è una chiara indicazione di una tendenza molto forte nel voler comunicare un’immagine di ateneo nuova che si occupa dei suoi studenti durante tutto l’arco della loro vita. In questo senso si guardi l’esempio ottimo di quello che sta facendo la UCLA in California su questo tema: https://alumni.ucla.edu/
  • Verso un’idea di brand. Anche in questo caso sulla scia del modello americano ci sono sempre più atenei che vanno nella direzione della definizione di un modello di comunicazione sempre più simile a quello delle organizzazione e delle aziende di tutto il mondo. Università americane come Standford, Harvard, MIT, UCLA raggiungono dimensioni in termini di visibilità sul web paragonabili a quelle di un brand di largo consumo, la macchina comunicativa alle spalle di questi atenei è enorme e rappresenta la leva fondamentale grazie alla quale sono in grado di raggiungere i risultati che tutti conosciamo
  • Riprogettare la governance e il modello comunicativo complessivo. Come sa molto bene chi mi segue e chi legge i miei post, la dimensione interna quando si parla di digitale è altrettanto importante. Non è possibile essere digitali a metà ed è per questo che si rende necessario trovare internamente le leve per questo tipo di trasformazione e per questo tipo di rivoluzione in termini di gestione e di comunicazione
  • Valorizzare gli asset nascosti e il potenziale invisibile. Le iniziative a livello italiano sono molte ma sono spesso sconnesse e poco coordinate. In questo senso potrebbe essere molto interessante ragionare in ottica di network e in ottica collaborativa per costruire scenari di comunicazione e di socializzazione della conoscenza completamente nuovi
  • Misurare e tracciare per capire chi si è e dove si vuole andare. Darsi delle metriche e dei KPI, non soltanto legati all’engagement ma legati effettivamente a quello che si è in grado di fare e soprattutto al valore di business che gli atenei sono in grado di generare è fondamentale per capire la direzione da intraprendere e misurarsi rispetto ad essa

A mio avviso il mercato in questo momento è estremamente maturo e le opportunità da cogliere sono parecchie. Il mondo americano in particolar modo (ma anche quello anglosassone in generale) ha già cominciato a ragionare in modo molto approfondito su questi temi.

Se vogliono mantenere il loro ruolo di leadership intellettuale le università non possono esimersi da questo modello trasformativo che impone ritmi e modalità del tutto innovative e un modello di pensiero molto più vicino all’impresa che all’accademia tradizionale.

Chi frequenta questo blog e legge gli articoli che ho scritto negli ultimi anni, sa perfettamente che il tema in oggetto non è cosa nuova. Vale – forse – comunque la pena di metterlo ben in chiaro: la rivoluzione digitale non è una rivoluzione che riguarda il marketing. 
Di recente il MIT in partnership con la Deloitte University Press ha pubblicato un’analisi che mette in luce proprio questo concetto (la trovate qui se siete interessati ad approfondire il tutto: http://sloanreview.mit.edu/projects/moving-beyond-marketing/). Le aziende di oggi che hanno intenzione di intraprendere un serio percorso di evoluzione digitale, devono comprendere che la rivoluzione di cui stiamo parlando è – ormai – qualcosa che tocca tutta l’organizzazione, non solo il marketing e i processi di comunicazione, ma che è piuttosto collegata a un cambiamento radicale nel modo di concepire il lavoro, le relazioni con i propri dipendenti e clienti e gli spazi aziendali.
Si tratta – oggi più che mai – di generare del valore concreto per tutto l’ecosistema organizzativo (all’interno dell’impresa così come al suo esterno).

Vediamo insieme alcuni dei dati principali che emergono dall’analisi e che può essere utile commentare.

  • Il social business sta continuando a crescere di importanza e di valore. Se nel 2011 erano solo il 52% delle organizzazioni a intravederne possibilità e rilevanze strategiche, oggi è oltre il 90% a ritenere che sia fondamentale in una strategia organizzativa da qui a 3 anni. Un numero in forte crescita che ci aiuta a comprendere come si stia parlando di un fenomeno che è ben lontano dall’essere semplicemente una moda.
  • Il 90% delle aziende mature misura ROI, risultati e KPI e sta cominciando a notare apprezzabili benefici dall’introduzione di tecnologie e approcci social e digital all’interno dell’organizzazione
  • Basta con le logiche B2C. Anche la convinzione che il social business e la rivoluzione digitale siano solo legate al mondo business to consumer è da sfatare. Molte iniziative hanno preso piede e stanno avendo grande successo anche nel settore B2B. E’ oltre il 60% delle organizzazioni di questa seconda categoria a credere che le iniziative social possano rappresentare un enorme valore aggiunto per l’organizzazione.
  • I dipendenti richiedono di lavorare per aziende che adottano modelli di lavoro nuovi e social. E’ oltre il 57% degli intervistati a manifestare questo interesse e a insistere su questo punto di attenzione.
  • I dati e la misurazione provano il valore di quello che si fa. La rotta tracciata e la bussola in mano sono i due strumenti delle aziende che sanno e che possono fare. Il 67% delle organizzazioni più mature integrano perfettamente strumenti di misurazione con i centri decisionali dell’organizzazione riuscendo a fornire risposte migliori, più veloci e maggiormente efficaci a clienti e dipendenti stessi.
  • La voce dall’alto. Oltre il 90% delle aziende che hanno successo ha al vertice un CEO o un amministratore delegato illuminato che crede fortemente nelle iniziative di trasformazione digitale e se ne fa portavoce in prima persona
  • Andare oltre il marketing. Le aziende più mature stanno usando il social per raggiungere obiettivi differenti dalla semplice promozione: l’87% lo impiega a fini di innovazione (per stimolare e coinvolgere masse di utenti nella creazione e nella definizione di prodotti e servizi nuovi); l’83% per gestire al meglio i talenti e il 60% integra il social business all’interno dei processi chiave dell’azienda rivendendoli in chiave digitale e collaborativa.

The idea is to infuse and integrate social tools into the entirety of what the organization does.
– Wendy Harman, director of management and situational awareness, American Red Cross

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L’importanza che il social business sta assumendo è in forte crescita e tutte le industry – in modo più o meno consistente – sono toccate dal fenomeno e – come si diceva poco sopra – il fenomeno di cui stiamo parlando è cross rispetto al settore di riferimento e non riguarda – come spesso si tende e si è portati a pensare – solo le organizzazioni del mondo B2C. E’ il 21% delle aziende del B2B a essere fortemente d’accordo (il 37% è d’accordo) che il social business possa rappresentare un ottimo asset sia per la crescita sia per la differenziazione dell’azienda sul mercato e all’interno di una strategia più ampia e vasta che coinvolge l’intero ecosistema aziendale.

Altro punto interessante – che ritorna rispetto al nostro lavoro della Social Collaboration Survey iniziato l’anno scorso – è il “cosa” misurare rispetto al “come” e al “quanto”.
Le organizzazioni più mature hanno infatti compreso da tempo l’importanza delle metriche di successo delle iniziative digitali. Non si fa quindi, tanto per fare, ma per raggiungere risultati precisi.
Le organizzazioni che sono maggiormente avanti nell’adozione di tecnologie e di approcci di questo tipo lo sanno bene e uniscono metriche di partecipazione e di engagement a metriche di business e maggiormente legate alla dimensione organizzativa.

Altro punto fondamentale dell’analisi riguarda l’intima connessione tra la maturità dell’approccio di social business e i risultati che si riescono a ottenere. Maggiore è la sensibilità, la prontezza organizzativa e maggiori sono le sperimentazioni in atto, tanto più alti sono i risultati che l’organizzazione è in grado di ottenere. Una versione moderna del “chi più spende meglio spende” insomma…
Le organizzazioni che quindi stanno lavorando su più dimensioni: innovazione, marketing, supporto al cliente, re-ingegnerizzazione dei processi, community, intranet, sono quelle che stanno avendo i ritorni maggiori in termini di investimento e in termini di partecipazione degli utenti. In che modo? E’ molto semplice. Le organizzazioni che adottano processi estesi si considerano fuori dalla fase di sperimentazione e riescono a raggiungere quel “plateu di produttività” che fa entrare una tecnologia o un nuovo approccio strategico all’interno di un’area differente rispetto a quella precedente abilitando nuovi modelli di lavoro e fornendo un servizio migliore a tutta la popolazione aziendale.

Il grafico sotto riportato esprime meglio di molte parole questo concetto:

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L’aspetto maggiormente interessante di questa ricerca del MIT sembra proprio essere quello di aver messo finalmente in luce – una volta per tutte e casomai ce ne fosse ancora bisogno – che gli strumenti social al servizio dell’azienda non sono solo i social media, ma che all’interno dell’impresa si apre un mondo che è altrettanto interessante e utile esplorare. Un mondo che genera – finalmente – un valore tangibile per l’organizzazione. Un mondo di cambiamento fatto dalle persone per le persone. Una rivoluzione silente ma non troppo che si sta affermando sul mercato e che coloro che hanno già saputo cogliere e “imbracciare” con coraggio.