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Di recente mi è capitato di seguire più da vicino il fenomeno dell’Intelligenza Artificiale. Un tema apparentemente nuovo che, in realtà, affonda le sue radici molto più indietro nel passato e si collega in modo molto forte alla filosofia della mente e alla storia del pensiero umano.

Ho studiato il fenomeno dal punto di vista più “umanistico” (posto che questo termine abbia ancora un senso al giorno d’oggi) occupandomi di cercare quei collegamenti tra la psicologia cognitiva, le neuroscienze, la filosofia e le interfacce di intelligenza artificiale che sono presenti sul mercato.
Tralasciando per un attimo questo aspetto – oggetto della mia tesi di laurea in Intelligenza Artificiale e, appunto,processi cognitivi – mi preme, in questa sede, analizzare il fenomeno da un punto di vista di applicazioni e ricadute sul mercato e – in senso esteso – sulla società nella quale viviamo.

Un recente discussion paper di McKinsey analizza il fenomeno proprio da questo punto di vista sottolineando prospettive interessanti che meritano di essere approfondite (per chi fosse interessato il report completo è disponibile a questo indirizzo: https://www.mckinsey.com/featured-insights/artificial-intelligence/notes-from-the-ai-frontier-applications-and-value-of-deep-learning).

Prima di tutto è opportuno definire i confini dell’Intelligenza Artificiale e mappare quelli che sono gli ambiti di applicazione entro i quali è possibile spendere questa tecnologia. Come si legge nell’articolo di McKinsey:

As artificial intelligence technologies advance, so does the definition of which techniques constitute AI. For the purposes of this briefing, we use AI as shorthand for deep learning techniques that use artificial neural networks. We also examined other machine learning techniques and traditional analytics techniques

A livello complessivo possiamo dire che se fino a qualche anno fa l’Intelligenza Artificiale si concretizzava in una “semplice” imitazione della mente umana e delle sue caratteristiche matematico-logiche e linguistiche specifiche, oggi è un costrutto che riguarda molto di più la capacità di apprendere dei sistemi. In sostanza abbiamo compreso che l‘apprendimento è forse la caratteristica più importante che ci rende umani e stiamo progettando i sistemi uomo-macchina e macchina-macchina di conseguenza.

Nello schema sotto si ritrovano moltissimi ambiti di applicazione dell’AI che riguardano proprio questo processo evolutivo.

AI Sectors for McKinsey

La prima evidenza che emerge dal report di McKinsey è che l’Intelligenza Artificiale e il machine learning in senso esteso possono essere applicati ad una infinità di ambiti lavorativi e a moltissime industry che regolano il nostro mercato. I risultati sono differenti a seconda dell’ambito applicativo, ma i vantaggi sono comuni alle differenti realtà.
Tra i principali che si possono ottenere:

  • Manutenzione predittiva, sfruttando il machine learning e i sistemi di intelligenza artificiale per comprendere e anticipare possibili anomalie nei sistemi.
  • Miglioramento della logistica anticipando flussi di traffico e prevedendo possibili soluzioni alternative in caso di problemi. Nell’ambito trasporti e logistica si ha – infatti – uno delle aree principali dell’AI con l’evoluzione dei sistemi classici in chiave intelligente, in modo da essere in grado di gestire in modo dinamico anche situazioni imprevedibili.
  • Personalizzazione del customer service e della capacità di servire al meglio il cliente. Una delle sfide principali imposte dalla digitalizzazione è quella che riguarda il mutato ruolo del social customer di cui abbiamo più volte dibattuto in questa e in altre sedi. La capacità aggiuntiva fornita dall’AI è quella di essere più efficienti ed efficaci nella capacità di rispondere – in tempo quasi reale o reale – alle molteplici sollecitazioni ed esigenze del cliente.

Inoltre, come si legge nel report:

In 69 percent of the use cases we studied, deep neural networks can be used to improve performance beyond that provided by other analytic techniques. Cases in which only neural networks can be used, which we refer to here as “greenfield” cases, constituted just 16 percent of the total

L’intelligenza artificiale è in grado di fornire un enorme supporto all’interno della definizione e della comprensione dell’analisi di dati. L’incremento rispetto alle classiche tecniche di gestione dell’informazione è notevole e merita una seria riflessione da parte delle aziende che ancora non hanno intrapreso questo percorso di evoluzione. Quantomeno è necessario – specie per le realtà più grosse – che ci sia un tavolo di riflessione su questi temi all’interno dell’impresa.

Analytics

Sono proprio i dati a giocare un ruolo fondamentale nei processi di digitalizzazione del futuro. Il modello deve essere il più articolato possibile in modo da permetterci di migliorare la nostra capacità di gestire, comprendere e maneggiare dati.

Il potenziale di mercato è davvero enorme. Come si legge nel report:

We estimate that the AI techniques we cite in this briefing together have the potential to create between $3.5 trillion and $5.8 trillion in value annually across nine business functions in 19 industries. This constitutes about 40 percent of the overall $9.5 trillion to $15.4 trillion annual impact that could potentially be enabled by all analytical techniques

Si tratta di cifre molto elevate che meritano di essere prese in seria considerazione specie per quelle industry nominate sopra dove questo potenziale è ancora più amplificato.

Non è tutto oro quello che luccica però. Sono presenti anche alcune barriere e alcune difficoltà che impediscono l’introduzione di queste tecnologie o ne limitano la massimizzazione dei risultati.

  • La difficoltà nel gestire l’etichettatura dei dati che spesso deve essere fatta manualmente
  • La difficoltà nell’ottenere set di dati che siano sufficientemente ampi e onnicomprensivi da poter essere utilizzati per il training degli algoritmi
  • La difficoltà nello spiegare i processi umani che stanno dietro alle decisioni importanti e alle scelte chiave. Come sappiamo dalla psicologia della decisione, siamo esseri che prendono decisioni non sempre su basi razionali e concrete.
  • La generalizzazione dell’apprendimento. L’essere umano è in grado di estendere quello che ha imparato in una situazione a determinate altre situazioni della sua vita. Si tratta di un processo fondamentale che i sistemi di intelligenza artificiale ancora faticano a fare
  • Un ulteriore rischio è rappresentato dai bias che si concretizzano quando si sceglie un campione non rappresentativo per il training e per la configurazione dell’algoritmo.

Infine abbiamo anche un tema di regolazione di un mercato e di una tecnologia completamente nuove, anche se – come si legge:

Therefore, some policy innovations will likely be needed to cope with these rapidly evolving technologies. But given the scale of the beneficial impact on business the economy and society, the goal should not be to constrain the adoption and application of AI, but rather to encourage its beneficial and safe use.

Le nostre aziende se la passano tutt’altro che bene!

E’ questa l’impressione, assolutamente confermata, che emerge da moltissimi report internazionali e nazionali che mettono in luce alcune delle mancanze fondamentali che stanno impedendo alle imprese di costruire un orizzonte di senso esteso in grado, non solo di generare risultati di business significativi, ma di ingaggiare in modo valido dipendenti e clienti.

Questo processo è stato amplificato da una serie di sfide che si è affacciata da qualche anno sul mondo organizzativo: in primo luogo la vita media delle nostre organizzazioni si è notevolmente accorciata. Imprese che fino a qualche anno fa dominavano il mercato non esistono più (Blockbuster, Nokia, Kodak sono solo alcuni degli esempi più famosi) e altre, nate solo qualche anno fa, regnano incontrastate sia nei mercati finanziari sia nelle crescite esponenziali che le caratterizzano (Facebook, Uber, AirBnB e Netflix solo per citarne alcune). Il tema però ha risvolti molto più ampi e riguarda una effettiva incapacità delle organizzazioni nel gestire i processi chiave che ne costituiscono la struttura stessa.

In primo luogo non siamo in grado – come organizzazioni – di gestire i nostri dipendenti, secondo le analisi di Gallup [1], la maggior parte della forza lavoro è attualmente dis-ingaggiata, e rema contro i principi e i valori dell’organizzazione di cui fa parte: è solo il 13% dei dipendenti a partecipare in modo proattivo alla costruzione di valore dell’impresa. Non siamo in grado nemmeno di gestire la conoscenza: il 50% del lavoro collaborativo, secondo McKinsey, va sprecato e sempre su questo tema, IDC sottolinea come ¼ della settimana lavorativa venga attualmente speso nel trasformare conoscenza (parliamo di circa 5.6 milioni di dollari all’anno per ogni 1.000 dipendenti). La conoscenza rappresenta oggi uno dei pilastri fondamentali delle organizzazioni ed è profondamente connessa al loro modo di operare e alla capacità di gestire il mercato: non è un caso che si parli sempre più spesso di knowledge worker: si tratta della maggior parte della forza lavoro di oggi, persone che – quotidianamente – gestiscono e scambiano conoscenza per generare valore per se stessi e per le imprese di cui fanno parte. E’ quindi evidente che una inefficienza così elevata nella gestione della conoscenza all’interno delle organizzazioni non può che portare a un danno economico estremamente ingente.

Dal punto di vista dell’innovazione le aziende di oggi stanno avendo non pochi problemi nella creazione di nuove idee che permettano loro di generare vantaggio competitivo: da un lato la crescente pressione del mercato (e dei competitor che spesso provengono da un settore completamente differente [2]) e dall’altro, l’impossibilità di rimanere allineati alla velocità con la quale si muovono i consumatori con solo il proprio ufficio di Ricerca e Sviluppo. Non è un caso che i brand maggiormente maturi abbiano iniziato un percorso di trasformazione digitale che abbattesse le barriere canoniche tra interno ed esterno dell’azienda abilitando i clienti a partecipare in modo attivo ai processi di innovazione. [3]

Le organizzazioni non sono in grado nemmeno di gestire le eccezioni ai processi, come sostengono Hagel e Brown:

“While 95% of IT investment goes to support business process (to drive down costs), most employee time isn’t spent on process but exceptions to process”

lontani sono – infatti – i tempi in cui le aziende potevano basarsi sull’assioma di Henry Ford riportato anche nella sua biografia del 1922:

“Ogni cliente può ottenere una Ford T di qualunque colore desideri, purché sia nero. […]”;

oggi la richiesta di personalizzazione del consumatore raggiunge la sua massima espressione e si riflette su tutti gli aspetti organizzativi. Offrire servizi sempre all’altezza delle richieste e delle aspettative del modello di consumatore che è presente oggi sul mercato diviene una sfida complessa e articolata che non sempre le organizzazioni sono in grado di cogliere appieno.

Questo nuovo modello di consumatore, molto più esigente, molto più informato e molto più consapevole delle sue scelte di acquisto e di consumo, ha molta più voce rispetto al passato (i social media ne sono l’espressione principale) e riesce a stabilire con i brand un relazione molto più paritetica basata su fiducia e trasparenza. Quando questi due assunti vengono a mancare la relazione non solo si interrompe, ma può radicalmente trasformarsi e mettere in crisi l’intera reputazione dell’azienda.

Fiocca et alii (2016) nel volume Brand Experience, relazioni impresa-cliente e valore di marca (citato in G. Besana – 2016 –  Brand engagement e social customer. La relazione tra azienda e consumatore nell’era digital: Il caso Oreo) definisce e riassume in questo modo i comportamenti che caratterizzano questo nuovo modello di consumatore:

  • Frenesia: il nuovo consumatore è un soggetto volubile, difficile da attirare e da coinvolgere, ha un livello di attenzione disperso e le forme relazionali e comunicative alle quali siamo abituati non sono spesso efficaci per coinvolgerlo.
  • Competenza: il consumatore di oggi è chiaramente più informato e più esperto, molto più complesso risulta quindi il processo di costruzione dei contenuti che stanno alla base del suo coinvolgimento
  • Atteggiamento esigente, ma al tempo stesso disincantato: il nuovo consumatore pretende che il brand sia in grado di rispondere appieno alle sue esigenze in termini qualitativi (e non solo quantitativi come siamo stati abituati per anni). Si tratta di un nuovo modello di soddisfazione del consumatore completamente differente. Il cliente è consapevole e pretenzioso.
  • Aggregazione e community: i consumatori tendono – in modo spontaneo – ad aggregarsi in gruppi con i quali condividere emozioni, interessi, pensieri e ricercare informazioni sul brand. Le community che sorgono in rete diventano veicoli fondamentali di informazioni per i brand che sanno ascoltare [4]
  • Selettività: il nuovo modello di cliente che stiamo raccontando adotta anche comportamenti selettivi, dimostrando capacità decisionale e autonomia nella definizione dei brand che intende utilizzare e dei quali intende circondarsi
  • Integrazione: il social customer si aspetta una completa integrazione dell’esperienza offerta dal brand, è per questo motivo che si parla di multicanalità e di esperienza utente in senso esteso

Iron customer

E’ in questo scenario che si innesta il ruolo della social e digital collaboration e della creazione di un nuovo modello di azienda che riparta e riconsideri al centro dei propri processi il ruolo – costitutivo e centrale – dei proprio dipendenti. Con social collaboration intendiamo, infatti:

un insieme di strategie, processi, comportamenti e piattaforme digitali che consentono a gruppi di persone all’interno dell’azienda di connettersi, interagire, condividere informazioni e lavorare ad un comune obiettivo di business [5]

Si tratta quindi di un processo che rivede le logiche organizzative secondo alcuni principi fondamentali:

  • Non esistono più barriere tra interno ed esterno dell’organizzazione
  • L’azienda ha come scopo ultimo quello di massimizzare lo scambio e la co-creazione di valore tra tutti gli attori coinvolti (siano essi partner, dipendenti, clienti o fornitori esterni)
  • Il dipendente e il cliente sono intimamente connessi e dialogano in una logica inside-in e outside-out
  • Il modo di lavorare cambia radicalmente e rende l’organizzazione più efficiente, più agile e in grado di rispondere al meglio alle sfide del mercato
  • Il potere è decentrato e si affermano modelli di leadership basati sulla competenza e sui singoli progetti
  • L’organizzazione è adattiva e diventa in grado di cambiare la propria configurazione a seconda delle sfide che il consumatore e il mercato impongono

In sostanza si tratta di un modo di lavorare completamente nuovo che rimette al centro di tutti i processi le persone, siano essi dipendenti interni all’impresa o clienti esterni.


[1] Per maggiori informazioni sulle statistiche di Gallup consigliamo il sito ufficiale: http://www.gallup.com/home.aspx

[2] In questo senso basti pensare alla rivoluzione introdotta nel mercato dei trasporti da Uber (https://www.uber.com/it/) o da Apple nel mondo della telefonia e degli smartwatch (http://www.apple.com)

[3] Per maggiori informazioni in questo senso si vedano gli esperimenti delle piattaforme di innovazione collaborativa volute da Lego (https://ideas.lego.com/) e Starbucks con la sua MyStarbucks Idea (http://mystarbucksidea.force.com/)

[4] Non è un caso che moltissime organizzazioni tra le maggiormente mature abbiano messo in atto strategie di web monitoring e social media listening per utilizzare le informazioni spontaneamente condivise dai consumatori per migliorar e il proprio prodotto o servizio. L’importanza e la tendenza naturale degli utenti a unirsi all’interno di community gioca un ruolo fondamentale – come vedremo – anche nella dimensione interna all’azienda e non solo in riferimento ai propri clienti

[5] La definizione è riportata nella Social Collaboration Survey 2014 (http://socialcollaborationsurvey.it/) di Stefano Besana ed Emanuele Quintarelli

Di recente mi è capitato a vario titolo di collaborare con alcune delle nostre principali università italiane all’interno di alcuni progetti di digitalizzazione e di definizione di nuovi modelli operativi basati sulla rivoluzione digitale.

All’interno del percorso di ricerca condotto mi sono imbattuto in un report dedicato all’università digitale redatto – tra gli altri – dal buon George Siemens (padre del connettivismo e del social learning più volte citato e anche intervistato in questa stessa sede). Per chi fosse interessato il report è disponibile qui e analizza in modo molto approfondito e dettagliato tutti i trend emersi negli ultimi anni su questo tema. Vediamo in sintesi quali sono i messaggi principali che emergono dal report.

  • Le modalità di formazione a distanza rappresentano ormai una delle modalità di educazione e di apprendimento maggiormente note e i benefici dell’adozione di questi modelli sono ormai palesati. Non tutti però hanno deciso di intraprendere questa strada e non tutti hanno predisposto i necessari investimenti che dovrebbero coprire questo tipo di approccio, creando esperienze significative per i discenti
  • In questo senso il margine di miglioramento è molto ampio sia all’interno degli scenari di formazione online sia in quelli di blended education che appare per varie ragioni quello scelto dalla maggior parte delle università per ragioni di immediatezza e di semplicità rispetto alle tematiche trattate

Capture

  • Gli investimenti all’interno di questo ambito sono crescenti e nei prossimi anni promettono di aumentare in modo ancora più considerevole. Anche se molto spesso la direzione non è molto ben definita e tracciata e richiede un costante lavoro di ritaratura da parte degli addetti ai lavori
  • Il segnale che proviene dal mercato – anche in termini di innovazione tecnologica – è molto forte e promette di aumentare in modo consistente nel prossimo e immediato futuro. E’ un trend al quale guardare con attenzione soprattutto per la realizzazione e l’implementazione di nuovi formati legati alla didattica. Il mondo e il mercato sono cambiati e gli atenei di tutto il mondo si stanno adeguando, in modo più o meno forte, a queste tendenze

Il report si concentra, come avrete intuito, solamente sugli aspetti maggiormente legati alla didattica e alla modalità di apprendimento, ma le università di oggi in realtà ricevono sollecitazioni e sfide notevoli anche da altre aree. Il tema dell’apprendimento è solamente uno degli scenari da prendere in considerazione.

In che modo, quindi, la rivoluzione digitale è in grado di migliorare i processi di cui stiamo parlando e quale contributo effettivamente può dare alle università italiane e internazionale nell’evolvere verso un modello migliore e maggiormente efficace sia per gli studenti che per gli stessi atenei?

A mio modo di vedere ci sono alcuni interessanti punti di convergenza che il digitale obbliga a prendere in considerazione quando si parla di università:

  • La formazione e l’apprendimento a distanza. Non si tratta certo di un nuovo trend, quello dell’e-learning (e del social learning che non a caso dà il titolo a questo blog) è uno dei temi che in modo maggiormente significativo ha toccato le università negli ultimi anni. Lo scenario è nuovamente cambiato e la capacità che le università devono fornire ai propri iscritti sono sicuramente maggiori, o perlomeno dovrebbero esserlo. E’ questa l’aspettativa di un nuovo pubblico di studenti e di stakeholder che sono sempre più digitalizzati e richiedono un numero di servizi sempre maggiore. Su questo rimando al report già citato per gli approfondimenti del caso
  • Non solo studenti. Il network e il contesto nel quale le università di oggi si muovono è estremamente complesso e include studenti delle scuole superiori, studenti già laureati, professionisti in cerca di una formazione di alto livello, istituzioni, enti pubblici e via dicendo. La capacità di offrire un servizio personalizzato a tutti e di diversificare la propria offerta su canali e touchpoint differenti è una richiesta ben precisa del mercato che deve essere seriamente presa in considerazione da parte degli atenei
  • Alumni. Sulla falsa riga del modello americano le community alumni stanno prendendo sempre più piede anche in Italia. Il network degli ex studenti rappresenta un’occasione di business fondamentale per l’ateneo che si riflette a differenti livelli: dalla comunicazione all’immagine complessiva senza dimenticare il fundrasing e la possibilità di dare visibilità ai brand ambassador. La possibilità di costruire un network serio da questo punto di vista è una chiara indicazione di una tendenza molto forte nel voler comunicare un’immagine di ateneo nuova che si occupa dei suoi studenti durante tutto l’arco della loro vita. In questo senso si guardi l’esempio ottimo di quello che sta facendo la UCLA in California su questo tema: https://alumni.ucla.edu/
  • Verso un’idea di brand. Anche in questo caso sulla scia del modello americano ci sono sempre più atenei che vanno nella direzione della definizione di un modello di comunicazione sempre più simile a quello delle organizzazione e delle aziende di tutto il mondo. Università americane come Standford, Harvard, MIT, UCLA raggiungono dimensioni in termini di visibilità sul web paragonabili a quelle di un brand di largo consumo, la macchina comunicativa alle spalle di questi atenei è enorme e rappresenta la leva fondamentale grazie alla quale sono in grado di raggiungere i risultati che tutti conosciamo
  • Riprogettare la governance e il modello comunicativo complessivo. Come sa molto bene chi mi segue e chi legge i miei post, la dimensione interna quando si parla di digitale è altrettanto importante. Non è possibile essere digitali a metà ed è per questo che si rende necessario trovare internamente le leve per questo tipo di trasformazione e per questo tipo di rivoluzione in termini di gestione e di comunicazione
  • Valorizzare gli asset nascosti e il potenziale invisibile. Le iniziative a livello italiano sono molte ma sono spesso sconnesse e poco coordinate. In questo senso potrebbe essere molto interessante ragionare in ottica di network e in ottica collaborativa per costruire scenari di comunicazione e di socializzazione della conoscenza completamente nuovi
  • Misurare e tracciare per capire chi si è e dove si vuole andare. Darsi delle metriche e dei KPI, non soltanto legati all’engagement ma legati effettivamente a quello che si è in grado di fare e soprattutto al valore di business che gli atenei sono in grado di generare è fondamentale per capire la direzione da intraprendere e misurarsi rispetto ad essa

A mio avviso il mercato in questo momento è estremamente maturo e le opportunità da cogliere sono parecchie. Il mondo americano in particolar modo (ma anche quello anglosassone in generale) ha già cominciato a ragionare in modo molto approfondito su questi temi.

Se vogliono mantenere il loro ruolo di leadership intellettuale le università non possono esimersi da questo modello trasformativo che impone ritmi e modalità del tutto innovative e un modello di pensiero molto più vicino all’impresa che all’accademia tradizionale.