Archives For November 30, 1999

Chi se ne occupa – o anche i semplici interessati – sanno che cambiare la cultura di un’organizzazione non è cosa semplice. Trasformare il modo di lavorare, di parlare, di relazionarsi con i colleghi è un processo che può richiedere mesi e anni di intenso lavoro che si possono, spesso, tradurre in un fallimento.

Ne ha parlato già Edgar Schein e non è certo cosa nuova:

La cultura è importante perché è un insieme di forze potenti, nascoste e spesso inconsce, che determinano il nostro comportamento individuale e collettivo, i modi della percezione, lo schema del pensiero e i valori. La cultura organizzativa in particolare è importante perché gli elementi culturali determinano strategie, obiettivi e modi di agire. I valori e lo schema di pensiero di leader e dirigenti sono in parte determinati dal loro bagaglio culturale e dalle loro esperienze comuni. Se si vuole rendere una organizzazione più efficiente ed efficace, allora si deve comprendere il ruolo giocato dalla cultura nella vita organizzativa.

Esistono, però, dei casi eccezionali, unici nell’esperienza delle persone che consentono di cambiare radicalmente il proprio sistema di valori e il proprio modello di agito. Si tratta delle Esperienze Trasformative, mi sono imbattuto di recente in questo concetto grazie all’amico e collega Andrea Gaggioli (Docente di Psicologia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano) che le illustra molto bene all’interno di un paper che potete trovare qui.

Vengono definite tre caratteristiche delle esperienze trasformative:

  1. Si tratta di un cambiamento profondo del modo in cui percepiamo il nostro self-world, il nostro mondo interiore. Il cambiamento avviene in maniera repentina, quasi immediata e si distingue da tutte le altre manifestazioni psicologiche dell’individuo
  2. L’esperienza trasformativa ha sia una dimensione epistemica sia personale: non cambia solo quello che sappiamo, ma cambia anche in modo profondo il modo attraverso il quale facciamo esperienza di noi stessi
  3. Infine, un’esperienza di questo tipo, può essere considerata come un fenomeno emergente delle dinamiche che si auto organizzano

La letteratura, da Maslow a Miller, da James a C’De Baca, documenta ampiamente quei momenti nella vita di un uomo in cui si creano le condizione per fare esperienza di un salto quantico dal punto di vista psicologico. Un momento “a-ha” che ci permette di fare esperienza di sensazioni e di emozioni uniche che rendono la persona in grado immediatamente di comprendere che qualcosa è successo e che qualcosa è cambiato. Come si legge:

These are “a-ha” experiences in which the person comes to a new realization, a new way of thinking or understanding. Insightful transformations grow out of life experiences, in that they tend to follow personal development. In contrast, mystical quantum changes – or epiphanies – have no continuity with “ordinary” reality and are characterized by a sense of being acting upon by an outside force. The person knows immediately that something major has happened, and that life will never be the same again

Per loro stessa caratteristica e specificità le esperienze trasformative non possono essere pre-costruite o fabbricate, richiedono un coinvolgimento profondo del singolo e le condizioni adatte perché una ristrutturazione abbia luogo.
All’interno di questo scenario è, però, possibile costruire le condizioni e l’ambiente all’interno del quale l’esperienza può essere invitata e può avvenire.

Cosa possiamo e dobbiamo fare dunque? In realtà il ripensamento delle logiche organizzative e con al centro le persone non deve necessariamente divenire una ricerca spasmodica di un modello di lavoro nuovo o una realizzazione whatever it takes di un’esperienza trasformativa. Come sottolinea anche Gaggioli:

The final aim of transformative design, as I see it, should not be confused with the idea of “engineering self-realization”. Rather, I hold that the objective of this endeavour should be to explore new possible technological means of supporting human beings’ natural tendency towards self-actualization and self-transcendence. As Haney (Haney, 2006) beautifully puts it: “each person must choose for him or herself between the technological extension of physical experience through mind, body and world on the one hand, and the natural powers of human consciousness on the other as a means to realize their ultimate vision”

Già il riuscire a rendere la tecnologia qualcosa di invisibile e qualcosa in grado di facilitare la naturale espressione delle persone sarebbe un notevole successo.

Per quanto si sia detto e si sia fatto negli ultimi anni sul cosiddetto agile way of working / new ways of working ancora molte aziende si trovano, oggi, nelle condizioni di sentirsi inadatte a declinare in modo corretto il fenomeno e il modello di lavoro ad esso correlato.
Come mai?

Proviamo a partire dall’inizio della storia.
Sono convinto che ormai molti di noi conoscano bene il noto “modello spotify” che è stato raccontato in più sedi e che è ormai consolidato all’interno della letteratura organizzativa (dal 2012 in avanti). Per chi non lo conoscesse i due video qui sotto mostrano molto bene i concetti che ne sono alla base e i cambiamenti messi in atto dalla società:

Qui la seconda parte del video:

Un modo nuovo di lavorare, quindi, fatto di flessibilità, senso di responsabilità, delega, evoluzione dei processi e degli strumenti e delle aree di interesse, un modo che consenta un’operatività più snella e più veloce e maggiormente in grado di fare fronte alle sfide sociali e organizzative che le imprese stanno vivendo.

Il modello, però a volte funziona bene e – molto più spesso – funziona molto meno bene: le organizzazioni faticano a ragionare all’esterno dei silos che le caratterizzano, la collaborazione è rallentata e la volontà di condividere informazioni, dati, strumenti non è mai al massimo. Il potenziale inespresso – che poi si traduce in un danno economico ingente – è enorme. Troppo spesso, infatti, le aziende hanno provato a scimmiottare il modello di Spotify incappando in difficoltà di ogni genere.
Perché? La spiegazione, in realtà, è molto semplice:

Le organizzazioni – come le persone che le compongono – sono tutte diverse e richiedono approcci, culture, modalità anche molto differenti di lavoro.

Per coloro che fossero interessati ad approfondire consiglio l’ottimo articolo: There Is No Spotify Model for Scaling Agile

Here is the problem – These colorful charts are now nearly 10 years old. Who knows what Spotify is actually doing today?

A Bigger Problem – The Spotify model evolved over time as a result of experimentation at Spotify. You cannot lift some or part of what Spotify did and expect it to work at your company. You need to run your own experiments, LEARN what works, and keep trying things until you optimize your organization.

An Even Bigger Problem – It isn’t the name or label of the teams that matters. The name is irrelevant. You don’t get the “Spotify Model” by renaming your teams. If you could, we’d all be using squads and tribes.

Cosa dobbiamo tenere in considerazione, quindi? Come possiamo evolvere il nostro modello organizzativo per rispondere meglio alle sfide dell’efficienza? Come rendiamo le nostre aziende maggiormente resilienti?

Una parte, a mio avviso, che spesso è stata sottovalutata all’interno delle organizzazioni e di tutti coloro che sono andati verso il modello Spotify, ma che personalmente ritengo fondamentale ai fini evolutivi è quella delle guild.

Come si legge:

Guilds are cross-cutting areas of Expertise – Guilds are the equivalent of Communities of Practice. They are not functional departments, they are volunteer-led communities based around a particular expertise.

Lavorare sulla cultura organizzativa, come sappiamo dai tempi di Schein, non è affatto facile, considerando che essa accorpa un’insieme di processi e di costrutti taciti ed espliciti sui quali è complesso lavorare e che richiedono spesso sforzi e investimenti altissimi.

La forza che le community e le guild possono avere nell’attivare processi che non sono immediatamente evidenti è enorme. La loro capacità è – infatti – quella di rappresentare il cuore delle azioni che l’azienda deve compiere per abilitare i veri scambi informali, al di là dei silos e delle barriere di sorta.

Nihil sub sole novi dunque (chi mi segue sa che me ne occupo da una decina di anni, ormai).

E’ vero, ma qualcosa fino ad oggi è mancato.

Se ancora tante aziende si stupiscono dei legami informali che le animano, se ancora vediamo lo smart working di questi giorni come una sfida nuova, se ancora siamo convinti che collaborare sia condividere uno strumento o una “faccia online” allora forse il lavoro da fare è ancora molto.

Chi segue questo blog da qualche tempo sa bene che uno dei temi – forse IL tema per eccellenza – di cui mi occupo è quello legato a come costruire organizzazioni maggiormente agili, resilienti e collaborative.

Negli ultimi 10 anni ho speso buona parte del mio tempo a supportare organizzazioni di medie e grandi dimensioni e a complessità variabile nella definizione della migliore strategia di cambiamento che rimettesse le persone al centro del business.
Modelli di aziende maggiormente innovative, trasparenti, collaborative sono possibili e generano un vantaggio competitivo notevole all’interno del mercato di cui fanno parte.
Non solo: questi modelli rimettono al centro le persone, motivandole a dare il meglio e costruendo con loro una nuova era di valore della quale possano beneficiare tutti gli stakeholder coinvolti.

Stefano Besana - Collaborative Company

Stefano Besana – Collaborative Company EGEA – Tag Innovation School Books

Da una collaborazione con Alessandro Rimassa e Talent Garden Innovation School è nato, quindi, “Collaborative Organization“: un piccolo breviario ricco di esempi e di considerazioni che assommano un decennio di lavoro nelle aziende e che si propone di divenire una piccola guida che possa contribuire a un cambiamento – anche minimo – all’interno del nostro modo di concepire le aziende.

Come si legge nel volume:

Il concetto non è nuovo e si applica a molte delle svolte che hanno condizionato il pensiero occidentale: Randall Collins nel suo The Sociology of Philosophies (1998) sottolinea come la Mittwochsgesellschaft (la società del mercoledì di Berlino, gruppo di pensatori tedeschi liberali) si ampliò progressivamente nel corso degli anni; o come Pisarro e Degas si iscrissero alla Ecole des Beaux Arts nello stesso momento e di come fecero poi la conoscenza di Cézanne e Renoir al Café Guerbois; cambiando paradigma di riferimento, le jam session funzionano allo stesso modo sviluppando una vera e propria group mind durante le sessioni e, ancora, Hegel, Schelling e Hölderlin furono compagni di scuola a Tubinga. Secondo Collins queste interazioni non casuali generano dei veri e propri rituali che si traducono in un capitale culturale di altissimo valore mettendo a fattor comune esperienze, conoscenze e soprattutto relazioni che un soggetto acquisisce nel corso della sua vita.

Si tratta di un modello che rimette al centro la nostra capacità di avere un impatto concreto sul mondo, poiché – come sottolinea tra gli altri Mihaly Csikszentmihalyi:

“Non si può condurre una vita che sia veramente eccellente senza sentire che si appartiene a qualcosa di più grande e permanente di se stessi”.

Un nuovo modello di lavoro è possibile e – per certi versi – è già in atto.

Curiosi?
Potete trovare – edito da Egea – sul sito ufficiale della casa editrice o su Amazon: http://amzn.eu/d/4GAi3rg

McKinsey ha pubblicato di recente una ricerca molto interessante (la trovate qui, se siete interessanti al dettaglio: McKinsey research on Social Collaboration) che mette in luce lo stato dell’arte attuale relativo alla social e digital collaboration e il futuro del settore.

Chi segue questo blog sa che quello della collaboration è un tema a me caro ormai dal 2010 e che mi sono sempre occupato di progetti a supporto delle organizzazioni di medie e grandi dimensioni nell’introduzione di tecnologie collaborative all’interno del contesto aziendale. Tutto questo per sottolineare che di acqua sotto ai ponti, rispetto a qualche anno fa, ne è passata parecchia e che la collaboration è divenuta sempre di più un tema oggetto di sperimentazioni concrete e casi di successo che hanno portato numerose aziende a migliorare i propri processi lavorativi.

Sono queste le medesime riflessioni dalle quali muove McKinsey, cercando di analizzare meglio la situazione attuale e fornendo alcune utili indicazioni che possono aiutarci a intuire quale possa essere il (prossimo) futuro della trasformazione digitale.
Vediamo insieme alcuni dei punti chiave che sono messi in luce dall’analisi condotta.

  • Il primo dato rilevante che emerge è che – nonostante – tutto il tempo passato, lo spazio di miglioramento è ancora molto e le tecnologie collaborative potrebbero essere ancora largamente impiegate in modo più consistente all’interno delle organizzazioni

When asked about their own use of communication tools in their day-to-day work, most executives report that social technologies overall are largely supplemental. Nearly three-quarters of respondents say they rely primarily on older technologies, such as email, phone calls, and texting, to communicate with others at work.

Extent of Social Collaboration Technologies

  • Il dato positivo – come si vede molto bene dal grafico – è che la situazione è comunque fortemente in crescita e migliorata rispetto al 2012, in cui l’uso delle tecnologie collaborative è raddoppiato.
  • La questione maggiormente delicata riguarda – probabilmente – il fatto che ad essere impiegate per collaborare siano, molto spesso, ancora tecnologie abbastanza vecchie (email, messaggistica) che, solo in modo limitato, mettono a fattore comunque le reali potenzialità della collaboration
  • Sono ancora poche le aziende che stanno impiegando la collaboration come leva fondamentale di business e come strumento per la gestione delle community interne o per rivedere i propri processi interni in chiave di business. E’ qui che il vero contributo delle social technologies è molto più forte ed è qui lo spazio di manovra maggiore che ancora non è stato del tutto intuito e sperimentato

Social Messaging

  • La crescita resta comunque molto rappresentativa come si legge nel report:

The changes in employee-to-employee communication that more sophisticated technologies are already bringing about—and the potential they have to drive further change—is notable for a few reasons. First, the internal use of social technologies remains the most common reason companies adopt these tools. Eighty-five percent of all respondents say their companies use social technologies for internal purposes, up from 80 percent in 2015 and 69 percent in 2014. At the same time, a growing share of executives say they use social tools with partners: 59 percent in 2016, up from 49 percent the year before.

Per quanto riguarda i processi che sono toccati dal fenomeno, il maggiormente impattato risulta essere quello di supporto al cliente e di servizio after sales, a testimonianza del grande impatto che le tecnologie collaborative possono avere all’interno dell’impresa per migliorare anche la relazione e il servizio al cliente.

Services impacted by social technologies

L’analisi di McKinsey si conclude con una benefici, anche molto consistenti, che le tecnologie collaborative portano all’interno delle imprese. Si tratta comunque – a mio avviso – di benefici troppo connessi a una dimensione di engagement e poco a quella di business.

Nella mia esperienza progettuale le aziende hanno la necessità di collegare fortemente la collaborazione (come anche il digitale in senso più ampio) alla soluzione dei loro problemi di business. E’ fondamentale per le imprese capire come – e in che modo – le digital collaboration technologies possano impattare in modo significativo sul loro modo di fare impresa e di relazionarsi con clienti e dipendenti interni.

Che efficienza creano? In che modo mi permettono di servire meglio il cliente? Di quanto posso abbattere il tasso di risoluzione dei problemi? In che modo posso facilitare l’onboarding dei nuovi assunti? Come posso ridurre il tempo speso nelle riunioni? Come riduco il traffico di email scambiate? Come mi libero e risolvo i problemi legati all’overflow informativo? Come migliore la mia capacità di innovare attraverso servizi partecipati? Come creo un’organizzazione in grado di imparare e di conoscere? Come miglioro la motivazione e l’engagement dei miei dipendenti? In che modo posso diminuire i costi IT della mia azienda?

E’ a tutte queste domande – e molte altre – che un serio progetto di collaboration dovrebbe essere in grado di rispondere. La strada è tracciata e il mercato è ormai maturo, il futuro sarà di coloro che saranno in grado di connettere la trasformazione digitale a seri indicatori di business e fare davvero la differenza.

As you may know, together with Emanuele Quintarelli we have developed in the last months the Social Collaboration Survey 2013. Here some insights about what we discovered in the last months.

Along with the many projects recently carried out in Italy, the attention on collaborative dynamics and best practices is evidenced by the numerous international reports (Gartner, Forrester, MIT, Deloitte, Capgemini, Dachis …) who analyze the phenomenon from a human, organizational and technological point of view. While interesting, such data have rarely focused on Italy, on its network of small and medium-sized enterprises with its specific socio-economic conditions. The Social Collaboration Survey 2013, conducted by Stefano Besana and Emanuele Quintarelli, finally fills this gap by mapping collaborative practices and bringing to light their secrets and strategies for success.

Carried out online from July to September 2013, the Social Collaboration Survey has involved more than 300 Italian companies in an unprecedented X-ray analysis on 4 collaboration axes: culture, organization and processes, technology, measurement.
Among the main dimensions analyzed:
  • Relevance: To what extent is collaboration considered as a strategic topic both today and in the near future?
  • Drivers: What are the business drivers that lead companies to introduce tools and participatory approaches?
  • Sponsors: Which departments have the responsibility to launch and / or support collaborative initiatives?
  • Maturity: At what level of maturity are companies in our country?
  • Budget: How large are the available budgets and how are they spent among the different areas of the project?
  • Measurement: Which performance indicators and metrics are in place and how much is performance measurement already an integral part of existing initiatives?
  • Best & worst practices: Which strategies have been particularly effective in achieving high levels of adoption and what is important to avoid?
  • Processes: How deeply is collaboration intertwined into business processes?
  • Tools: Which tools are most often used by employees?

The results of Social Collaboration Survey 2013 underline that:

Collaboration is much more than a fad. The importance that companies assign to it is high and most likely to grow over the next three years up to 75% of the sample.

Collaboration generates value for the company. A targeted deployment of social platforms increases the efficiency of the company (43%), facilitates knowledge reuse (40%), improves project coordination (30%) and allows employees to stay up to date on what is done by their colleagues (30%).

Without adoption there is no return. Although it cannot be considered the end goal, pervasive adoption of new ways of working is instrumental to materialize the economic returns expected by management. For the majority of respondents, this still doesn’t happen, since only a small percentage of employees (<30%) is already involved in 2.0 tools. Less than 10% of companies have instead reached the milestone of almost complete adoption (>75% of employees).

Top Management sponsorizes the initiative. Even with bottom-up initiatives, real change requires a high level of sponsorship and a strong buy-in from the top management (70% vs. 34%).

No orphans. A careful, continuous and qualified cultivation is certainly not optional for those who aim to conquer the entire company. Successful projects show a lack of resources 5 times less (9% vs. 49%) than less mature initiatives.

Budget for change. Although still limited, the investment on collaboration grows hand in hand with its importance. The lack of budget (less than 10K Euro) is much rarer (36% vs. 64%) for the firms with proven experience on collaboration. This budget is also spent less on technology and more on people and strategy.

Measure to ROI. Measurement is correlated to success. Successful projects have metrics in plance 2 times more than others (91% vs 50%). More than participation metrics, business KPIs are core inthe most advanced projects (61% vs 22%).

A more collaborative culture. Large companies are more willing to recognize the value of collaboration (82% vs. 70% in 3 years).

More focus on business needs. Bigger firms have stakeholders most often positioned in specific units such as Innovation, HR, Customer Support, Training and Education.

ROI as the main barrier. Apart from the overall lack of understanding of the potential of collaboration by the top management (50%), the most clear resistance in the large company is the difficulty of measuring the return on investment or the impact of intangible benefits (49%). In smaller companies it is rather the culture to represent the most obvious obstacle (58%).

For more information visit: http://socialcollaborationsurvey.com/

We just published some excerpts and insights from our Social Collaboration Survey.
Here you can find more information about what we discovered

In a connected and digital society, expectations and behaviors individuals expose are everyday more influenced by the weight of the communities they belong to. Well beyond the personal dimension, this same social capital is now making its way into organizations, changing work practices, engagement mechanisms and even the drivers behind firms’ existence.

The Social Collaboration Survey 2013 analyses connection, communication, motivation and sharing dynamics among employees to surface the business potential, barriers and acceleration factors towards a new idea of firm. One that is able to address the huge economic challenges of the coming years.

To us, Social Collaboration is

A set of strategies, processes, behaviors and digital platforms that enable groups of individuals inside the organization to connect, interact, share information and work towards a common business goal

With the hope that this study will help in proving the value Social Collaboration can unlock, increasing the awareness between senior managers, identifying effective roll-out strategies, discovering the most impacted business processes, understanding how various organizational characteristics influence project outcomes.

The first quantitative study on the maturity level, the potential, the barriers and successful strategies for Social Enterprise initiatives. While conducted in Italy, its results seem to resonate very well with European and non European countries, as verified by presenting them at the recent Enterprise 2.0 Summit Paris

Methodology

  • Online survey between July – Sept 2013 on 300 italian companies, both large and small, across major sectors
  • The study has addressed culture, organization, processes, technology, measurement to provide a 360° perspective on the state of enterprise collaboration.

Main dimensions analyzed

  • Importance
  • Business drivers
  • Internal sponsors
  • Available budget
  • Outcomes measurement
  • Integration with processes
  • Organizational maturity
  • Best and worst practice in top performers
  • Adoption of collaborative tools

Negli ultimi mesi mi è capitato di leggere due eccezionali lavori di Gary Hamel, professore, saggista e mente illuminata in grado di teorizzare un nuovo modello e un nuovo modo di concepire le organizzazioni.
Il primo libro che ho letto è un classico da qualche anno nelle librerie di molti consulenti ed è “The Future of Management” mentre il secondo, più recente e forse ancora più “estremo” per certi punti di vista è “What matters now

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All’interno del secondo volume c’è un aspetto che ritengo molto interessante e particolarmente di livello. 12 insegnamenti che le organizzazioni dovrebbero imparare dal funzionamento della rete e del web (quelli che riporto qui sono tratti da un post sul WSJ – http://blogs.wsj.com/management/2009/03/24/the-facebook-generation-vs-the-fortune-500/).
Sono spunti interessanti che meritano di essere commentati e ricondotti a una logica più ampia che corrisponde a un nuovo modello di fare impresa. Vediamoli:

1. All ideas compete on an equal footing.
On the Web, every idea has the chance to gain a following—or not, and no one has the power to kill off a subversive idea or squelch an embarrassing debate. Ideas gain traction based on their perceived merits, rather than on the political power of their sponsors.

Nei contesti online le idee e le persone sono valorizzate allo stesso modo. Non esistono formalità o burocrazie che impediscano a una idea di essere meglio di un’altra né ad una idea lanciata da qualcuno che si trova in una posizione “inferiore” rispetto ad altri di non avere lo stesso potenziale successo. In questo senso la rete – come le organizzazioni – dovrebbero rappresentare contesti il più democratici possibile e favorire la circolazione di informazioni. Se l’idea è buona ha successo se non lo è non merita di essere presa in considerazione. Questo è il modello. Il cosa conta più del chi.

2. Contribution counts for more than credentials.
When you post a video to YouTube, no one asks you if you went to film school. When you write a blog, no one cares whether you have a journalism degree. Position, title, and academic degrees—none of the usual status differentiators carry much weight online. On the Web, what counts is not your resume, but what you can contribute.

Simile riflessione anche per quel che riguarda il background delle persone e quello che le persone dicono o fanno. In questo caso come riportato molto bene nell’esempio il fare conta più di molti titoli e di molte parole. Se le persone sanno fare e sanno dare un contributo di valore nell’organizzazione allora questo dovrebbe essere valorizzato al di li dei curricula o dei ruoli ricoperti da ognuno. Il merito rispetto ai risultati raggiunti dovrebbe essere il fattore chiave che guida.

3. Hierarchies are natural, not prescribed.
In any Web forum there are some individuals who command more respect and attention than others—and have more influence as a consequence. Critically, though, these individuals haven’t been appointed by some superior authority. Instead, their clout reflects the freely given approbation of their peers. On the Web, authority trickles up, not down.

Declinazione naturale di quanto si diceva prima nei punti 1 e 2 è questa. Non esistono gerarchie prescritte ma solo gerarchie mobili e naturali basate appunto sulla competenza e sui cambiamenti che avvengono nel lavoro. Nel web e in rete il funzionamento è esattamente quello descritto.

4. Leaders serve rather than preside.
On the Web, every leader is a servant leader; no one has the power to command or sanction. Credible arguments, demonstrated expertise and selfless behavior are the only levers for getting things done through other people. Forget this online, and your followers will soon abandon you.

I leader non si limitano a comandare o fornire indicazioni ma partecipano attivamente alla costruzione di valore e di contenuto all’interno dell’organizzazione. Le logiche di comando e di controllo decadono completamente e vengono sostituite da modelli organizzativi flat e collaborativi che consentono di adattarsi meglio alle sfide del mercato e che provengono dall’esterno.

5. Tasks are chosen, not assigned.
The Web is an opt-in economy. Whether contributing to a blog, working on an open source project, or sharing advice in a forum, people choose to work on the things that interest them. Everyone is an independent contractor, and everyone scratches their own itch.

In un modello simile a quello che Zappos ha annunciato di voler perseguire nel 2014 (http://venturebeat.com/2013/12/31/how-zappos-is-getting-rid-of-managers-to-retain-a-flat-startup-culture/) gerarchie, task e gruppi di lavoro sono autodeterminati e sono organizzati in modo collaborativo e dinamico, sempre intercambiabili e in grado di fornire un supporto di valore a qualunque progetto

6. Groups are self-defining and -organizing.
On the Web, you get to choose your compatriots. In any online community, you have the freedom to link up with some individuals and ignore the rest, to share deeply with some folks and not at all with others. Just as no one can assign you a boring task, no can force you to work with dim-witted colleagues.

Stessa riflessione per i team di lavoro che si scelgono compiti, composizione, scadenze sulla base dei reciproci interessi e competenze lavorando in modo sempre motivato e significativo.

7. Resources get attracted, not allocated.
In large organizations, resources get allocated top-down, in a politicized, Soviet-style budget wrangle. On the Web, human effort flows towards ideas and projects that are attractive (and fun), and away from those that aren’t. In this sense, the Web is a market economy where millions of individuals get to decide, moment by moment, how to spend the precious currency of their time and attention.

All’interno delle community online, le risorse non sono gestite da un coordinamento centrale e da un organo di controllo specifico ma scelgono i propri progetti e sono attratte in modo spontaneo dai progetti di valore che vengono costruiti all’interno. Contenuto e persone di valore attraggono altre persone di valore.

8. Power comes from sharing information, not hoarding it.
The Web is also a gift economy. To gain influence and status, you have to give away your expertise and content. And you must do it quickly; if you don’t, someone else will beat you to the punch—and garner the credit that might have been yours. Online, there are a lot of incentives to share, and few incentives to hoard.

L’informazione è potere recita un vecchio adagio spesso applicato in contesti organizzativi molto strutturati.
Se da un lato questo è vero dall’altro può rappresentare un grosso freno nello sviluppo di nuovi processi e di frontiere innovative, all’interno della rete (pensiamo anche solo a come è costruita una community e un sito come quello di Wikipedia)

9. Opinions compound and decisions are peer-reviewed.
On the Internet, truly smart ideas rapidly gain a following no matter how disruptive they may be. The Web is a near-perfect medium for aggregating the wisdom of the crowd—whether in formally organized opinion markets or in casual discussion groups. And once aggregated, the voice of the masses can be used as a battering ram to challenge the entrenched interests of institutions in the offline world.

Le decisioni e le opinioni delle persone influenzano tutta l’azienda. In rete si sa che ogni pezzo di informazione e ogni nodo coinvolto ha una importanza chiave, nelle organizzazioni non è sempre e non è affatto così. Comprendere questo significa giocare di anticipo e abilitare ogni singolo attore nella creazione di valore e di successo per l’impresa. Abilitare i nostri dipendenti è spesso la soluzione migliore che abbiamo per fronteggiare il crescente potere del consumatore.

10. Users can veto most policy decisions.
As many Internet moguls have learned to their sorrow, online users are opinionated and vociferous—and will quickly attack any decision or policy change that seems contrary to the community’s interests. The only way to keep users loyal is to give them a substantial say in key decisions. You may have built the community, but the users really own it.

Il potere si traduce anche nella possibilità di veto. Trasformarsi e imitare una community significa anche questo. Ognuno ha la possibilità di impattare in modo davvero significativo sull’ambiente di cui fa parte.

11. Intrinsic rewards matter most.
The web is a testament to the power of intrinsic rewards. Think of all the articles contributed to Wikipedia, all the open source software created, all the advice freely given—add up the hours of volunteer time and it’s obvious that human beings will give generously of themselves when they’re given the chance to contribute to something they actually care about. Money’s great, but so is recognition and the joy of accomplishment.

Le ricompense non formali, gli incentivi intrinseci sono i migliori per stimolare la motivazione e il voler fare bene delle persone. Per molti individui non esiste nulla di più energizzante del sentirsi parte di una squadra che lavora in modo coeso verso un unico obiettivo e che condivide una passione e uno scopo. Puo’ sembrare una favola ma abbiamo visto anche in passato come la motivazione non sia guidata solo da incentivi economici e anzi, abbia molti altri aspetti da non sottovalutare (per approfondire si veda anche: https://sociallearning.it/2012/12/30/motivazione-e-gamification/ in cui l’argomento è stato trattato)

12. Hackers are heroes.
Large organizations tend to make life uncomfortable for activists and rabble-rousers—however constructive they may be. In contrast, online communities frequently embrace those with strong anti-authoritarian views. On the Web, muckraking malcontents are frequently celebrated as champions of the Internet’s democratic values—particularly if they’ve managed to hack a piece of code that has been interfering with what others regard as their inalienable digital rights.

La rete funziona anche e soprattutto grazie a coloro che non sono d’accordo, coloro che giocano un ruolo nel remare a volte controcorrente (con un senso si intende – ovvio), coloro che non la pensano sempre allo stesso modo degli altri. Queste persone contribuiscono alla creazione di una forte dialettica costruttiva e a realizzare cose che da molti altri sono ritenute impossibili.

Le “lezioni” evidenziate da Hamel che le organizzazioni dovrebbero apprendere dal web sono estremamente significative e di valore per chiunque voglia costruire il prossimo futuro della propria impresa. In sostanza queste “regole” non sono molto differenti da quello che tempo fa abbiamo teorizzato come social business. Un’organizzazione più a misura d’uomo, più personale, più in linea con principi di valore e di costruzione di senso per gli individui. Un modello aziendale che sembra – tra le altre cose – essere l’unico in grado di rispondere con efficacia alle sollecitazioni e ai nuovi stimoli che provengono dal mercato.