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Questo recente articolo di McKinsey circa i bias che affliggono la presa di decisione nelle organizzazioni ben si presta a sottolineare uno dei punti chiave nella definizione di una strategia organizzativa che sia funzionale e adatta ai nostri obiettivi di business.

Che le persone non sappiano prendere una decisione, o che quantomeno, facciano estremamente fatica a essere dei decisori razionali ci viene confermato dalla psicologia cognitiva. Famosi in questo senso sono gli esperimenti condotti da Kahneman e Tversky (tra gli altri):

Dopo aver selezionato due gruppi di candidati, Tversky e Kahneman hanno posto il seguente problema chiedendo ai partecipanti cosa avrebbero fatto se la scelta fosse dipesa da loro: negli Stati Uniti sta per giungere una nuova malattia proveniente dall’Asia, sono a rischio le vite di 600 persone; al primo gruppo è stato proposto quanto segue:

  • Programma A: 200 persone si salvano
  • Programma B: 1/3 di probabilità di salvare tutti, 2/3 di probabilità di non salvare nessuno

I programmi per il secondo gruppo erano invece i seguenti:

  • Programma C: 400 persone muoiono
  • Programma D: 1/3 di probabilità che nessuno muoia, 2/3 di probabilità che muoiano tutti

Da un punto di vista di contenuto i programmi A e B sono del tutto equivalenti rispettivamente ai programmi C e D, eppure le risposte dei due gruppi sono state profondamente diverse. Nel primo gruppo è stato scelto il programma A nel 72% dei casi e il programma B nel restante 28%; nel secondo gruppo la scelta prioritaria (78%) è caduta sul programma D mentre il programma C è stato preferito solo nel restante 22% dei casi.

È evidente che al primo gruppo di candidati è stato sottoposto un messaggio in cui prevalevano elementi positivi, mentre il secondo gruppo è stato esposto a contenuti negativi. Si può notare che nel primo caso i candidati si sono orientati verso una risposta di tipo certo, nel secondo caso la polarizzazione delle risposte è invece avvenuta intorno alla soluzione di tipo probabilistico.

Si tratta di un classico esempio di come il “framing”, il modo – cioè – in cui viene presentato un problema, influenza il nostro modo di rispondere e di fornire una soluzione. 

Le organizzazioni, in questo senso, essendo composte da persone e da esseri umani – con i loro pregi e difetti – non sono esenti da questo tipo di problematiche.

Bias organizational

Come persone, all’interno delle organizzazioni di cui facciamo parte, e all’esterno di esse, siamo costantemente coinvolti in bias che ci fanno credere di: essere più competenti di quello che in realtà siamo, sottostimare la possibilità di fallire, sottostimare i nostri difetti e punti deboli, essere non soggetti agli errori che commettono gli altri…
Alcuni di questi errori all’interno della definizione di una strategia di business di un’azienda possono portare a vere e proprie crisi “esistenziali” che minano i presupposti stessi dell’organizzazione.

L’ottima ruota dei bias cognitivi mostra in modo semplice ed efficace l’enorme quantità di errori alla quale siamo soggetti quotidianamente

Cognitive Biases

Uno scenario tutt’altro che roseo che mostra quanto difficile sia realizzare strategie consapevoli che coinvolgano livelli di decisione differente.

Ma come possiamo muoverci in un contesto di questo genere? Come possiamo fare in modo che all’interno delle organizzazioni non si innestino questi meccanismi che ci portano – inevitabilmente – ad essere dei terribili decisori?

McKinsey consiglia alcuni punti chiave da tenere presente:

  • Diffondere una cultura basata sul dialogo e sul confronto. Il “non essere d’accordo” ha un valore fondamentale: in termini psicologici il group-think rappresenta uno dei rischi maggiori nella presa di decisione
  • Aumentare la propria consapevolezza e utilizzare meccanismi meta-cognitivi per analizzare i propri processi decisionali, sia nelle organizzazioni sia all’esterno di esse
  • Ingegnerizzare – per quanto possibile – la presa di decisione attraverso tool e strumenti che possano aiutarci a comprendere in che modo commettiamo errori

Come si legge anche in chiusura dell’articolo:

Companies can’t afford to ignore the human factor in the making of strategic decisions. They can greatly improve their chances of making good ones by becoming more aware of the way cognitive biases can mislead them, by reviewing their decision-making processes, and by establishing a culture of constructive debate.

Il grosso del lavoro da fare è dunque su se stessi: diventare migliori decisori, aumentare la propria consapevolezza sul funzionamento di questi processi ci aiuterebbe a diventare non solo dipendenti migliori ma anche persone maggiormente consapevoli e in grado di risolvere problemi e di pensare in modo strategico.

Le nostre aziende se la passano tutt’altro che bene!

E’ questa l’impressione, assolutamente confermata, che emerge da moltissimi report internazionali e nazionali che mettono in luce alcune delle mancanze fondamentali che stanno impedendo alle imprese di costruire un orizzonte di senso esteso in grado, non solo di generare risultati di business significativi, ma di ingaggiare in modo valido dipendenti e clienti.

Questo processo è stato amplificato da una serie di sfide che si è affacciata da qualche anno sul mondo organizzativo: in primo luogo la vita media delle nostre organizzazioni si è notevolmente accorciata. Imprese che fino a qualche anno fa dominavano il mercato non esistono più (Blockbuster, Nokia, Kodak sono solo alcuni degli esempi più famosi) e altre, nate solo qualche anno fa, regnano incontrastate sia nei mercati finanziari sia nelle crescite esponenziali che le caratterizzano (Facebook, Uber, AirBnB e Netflix solo per citarne alcune). Il tema però ha risvolti molto più ampi e riguarda una effettiva incapacità delle organizzazioni nel gestire i processi chiave che ne costituiscono la struttura stessa.

In primo luogo non siamo in grado – come organizzazioni – di gestire i nostri dipendenti, secondo le analisi di Gallup [1], la maggior parte della forza lavoro è attualmente dis-ingaggiata, e rema contro i principi e i valori dell’organizzazione di cui fa parte: è solo il 13% dei dipendenti a partecipare in modo proattivo alla costruzione di valore dell’impresa. Non siamo in grado nemmeno di gestire la conoscenza: il 50% del lavoro collaborativo, secondo McKinsey, va sprecato e sempre su questo tema, IDC sottolinea come ¼ della settimana lavorativa venga attualmente speso nel trasformare conoscenza (parliamo di circa 5.6 milioni di dollari all’anno per ogni 1.000 dipendenti). La conoscenza rappresenta oggi uno dei pilastri fondamentali delle organizzazioni ed è profondamente connessa al loro modo di operare e alla capacità di gestire il mercato: non è un caso che si parli sempre più spesso di knowledge worker: si tratta della maggior parte della forza lavoro di oggi, persone che – quotidianamente – gestiscono e scambiano conoscenza per generare valore per se stessi e per le imprese di cui fanno parte. E’ quindi evidente che una inefficienza così elevata nella gestione della conoscenza all’interno delle organizzazioni non può che portare a un danno economico estremamente ingente.

Dal punto di vista dell’innovazione le aziende di oggi stanno avendo non pochi problemi nella creazione di nuove idee che permettano loro di generare vantaggio competitivo: da un lato la crescente pressione del mercato (e dei competitor che spesso provengono da un settore completamente differente [2]) e dall’altro, l’impossibilità di rimanere allineati alla velocità con la quale si muovono i consumatori con solo il proprio ufficio di Ricerca e Sviluppo. Non è un caso che i brand maggiormente maturi abbiano iniziato un percorso di trasformazione digitale che abbattesse le barriere canoniche tra interno ed esterno dell’azienda abilitando i clienti a partecipare in modo attivo ai processi di innovazione. [3]

Le organizzazioni non sono in grado nemmeno di gestire le eccezioni ai processi, come sostengono Hagel e Brown:

“While 95% of IT investment goes to support business process (to drive down costs), most employee time isn’t spent on process but exceptions to process”

lontani sono – infatti – i tempi in cui le aziende potevano basarsi sull’assioma di Henry Ford riportato anche nella sua biografia del 1922:

“Ogni cliente può ottenere una Ford T di qualunque colore desideri, purché sia nero. […]”;

oggi la richiesta di personalizzazione del consumatore raggiunge la sua massima espressione e si riflette su tutti gli aspetti organizzativi. Offrire servizi sempre all’altezza delle richieste e delle aspettative del modello di consumatore che è presente oggi sul mercato diviene una sfida complessa e articolata che non sempre le organizzazioni sono in grado di cogliere appieno.

Questo nuovo modello di consumatore, molto più esigente, molto più informato e molto più consapevole delle sue scelte di acquisto e di consumo, ha molta più voce rispetto al passato (i social media ne sono l’espressione principale) e riesce a stabilire con i brand un relazione molto più paritetica basata su fiducia e trasparenza. Quando questi due assunti vengono a mancare la relazione non solo si interrompe, ma può radicalmente trasformarsi e mettere in crisi l’intera reputazione dell’azienda.

Fiocca et alii (2016) nel volume Brand Experience, relazioni impresa-cliente e valore di marca (citato in G. Besana – 2016 –  Brand engagement e social customer. La relazione tra azienda e consumatore nell’era digital: Il caso Oreo) definisce e riassume in questo modo i comportamenti che caratterizzano questo nuovo modello di consumatore:

  • Frenesia: il nuovo consumatore è un soggetto volubile, difficile da attirare e da coinvolgere, ha un livello di attenzione disperso e le forme relazionali e comunicative alle quali siamo abituati non sono spesso efficaci per coinvolgerlo.
  • Competenza: il consumatore di oggi è chiaramente più informato e più esperto, molto più complesso risulta quindi il processo di costruzione dei contenuti che stanno alla base del suo coinvolgimento
  • Atteggiamento esigente, ma al tempo stesso disincantato: il nuovo consumatore pretende che il brand sia in grado di rispondere appieno alle sue esigenze in termini qualitativi (e non solo quantitativi come siamo stati abituati per anni). Si tratta di un nuovo modello di soddisfazione del consumatore completamente differente. Il cliente è consapevole e pretenzioso.
  • Aggregazione e community: i consumatori tendono – in modo spontaneo – ad aggregarsi in gruppi con i quali condividere emozioni, interessi, pensieri e ricercare informazioni sul brand. Le community che sorgono in rete diventano veicoli fondamentali di informazioni per i brand che sanno ascoltare [4]
  • Selettività: il nuovo modello di cliente che stiamo raccontando adotta anche comportamenti selettivi, dimostrando capacità decisionale e autonomia nella definizione dei brand che intende utilizzare e dei quali intende circondarsi
  • Integrazione: il social customer si aspetta una completa integrazione dell’esperienza offerta dal brand, è per questo motivo che si parla di multicanalità e di esperienza utente in senso esteso

Iron customer

E’ in questo scenario che si innesta il ruolo della social e digital collaboration e della creazione di un nuovo modello di azienda che riparta e riconsideri al centro dei propri processi il ruolo – costitutivo e centrale – dei proprio dipendenti. Con social collaboration intendiamo, infatti:

un insieme di strategie, processi, comportamenti e piattaforme digitali che consentono a gruppi di persone all’interno dell’azienda di connettersi, interagire, condividere informazioni e lavorare ad un comune obiettivo di business [5]

Si tratta quindi di un processo che rivede le logiche organizzative secondo alcuni principi fondamentali:

  • Non esistono più barriere tra interno ed esterno dell’organizzazione
  • L’azienda ha come scopo ultimo quello di massimizzare lo scambio e la co-creazione di valore tra tutti gli attori coinvolti (siano essi partner, dipendenti, clienti o fornitori esterni)
  • Il dipendente e il cliente sono intimamente connessi e dialogano in una logica inside-in e outside-out
  • Il modo di lavorare cambia radicalmente e rende l’organizzazione più efficiente, più agile e in grado di rispondere al meglio alle sfide del mercato
  • Il potere è decentrato e si affermano modelli di leadership basati sulla competenza e sui singoli progetti
  • L’organizzazione è adattiva e diventa in grado di cambiare la propria configurazione a seconda delle sfide che il consumatore e il mercato impongono

In sostanza si tratta di un modo di lavorare completamente nuovo che rimette al centro di tutti i processi le persone, siano essi dipendenti interni all’impresa o clienti esterni.


[1] Per maggiori informazioni sulle statistiche di Gallup consigliamo il sito ufficiale: http://www.gallup.com/home.aspx

[2] In questo senso basti pensare alla rivoluzione introdotta nel mercato dei trasporti da Uber (https://www.uber.com/it/) o da Apple nel mondo della telefonia e degli smartwatch (http://www.apple.com)

[3] Per maggiori informazioni in questo senso si vedano gli esperimenti delle piattaforme di innovazione collaborativa volute da Lego (https://ideas.lego.com/) e Starbucks con la sua MyStarbucks Idea (http://mystarbucksidea.force.com/)

[4] Non è un caso che moltissime organizzazioni tra le maggiormente mature abbiano messo in atto strategie di web monitoring e social media listening per utilizzare le informazioni spontaneamente condivise dai consumatori per migliorar e il proprio prodotto o servizio. L’importanza e la tendenza naturale degli utenti a unirsi all’interno di community gioca un ruolo fondamentale – come vedremo – anche nella dimensione interna all’azienda e non solo in riferimento ai propri clienti

[5] La definizione è riportata nella Social Collaboration Survey 2014 (http://socialcollaborationsurvey.it/) di Stefano Besana ed Emanuele Quintarelli

La tecnologia non tiene lontano l’uomo dai grandi problemi della natura, ma lo costringe a studiarli più approfonditamente.
 (Antoine de Saint-Exupéry)

I cambiamenti che le tecnologie digitali hanno vissuto – e stanno vivendo – in questi anni impongono una seria riflessione circa le modalità d’interazione che esse, quotidianamente, instaurano con gli utenti che ne fanno uso. Se fino a qualche anno fa il digitale (in senso ampio) poteva essere considerato appannaggio di pochi, oggi è una realtà estremamente pervasiva delle nostre vite che tocca tutti i campi del sapere, dell’economia e del nostro modo di fare impresa ed educazione oggi [1].

Non solo il digitale è diventato appieno parte della nostra vita e del nostro modo di esperire il mondo, ma il confine tra supporti digitali e realtà si è fatto molto più labile.

E’ proprio su questa sottile linea di confine che si colloca l’Augmented Reality. La Realtà Aumentata o mixed reality o – ancora – augmented reality consiste, infatti, nella sovrapposizione – all’interno del medesimo campo visivo – di due layer informativi: uno reale e uno virtuale (Riva, 2008). L’integrazione dei due livelli – realizzata mediante un device appositamente configurato [2] – permette di ottenere uno “strato” maggiore d’informazioni e consente una migliore interazione con l’ambiente che ci circonda. Klopfer (2008), riprendendo gli studi di Milgram e Kishino (1994) identifica la Realtà Aumentata come una realtà nella quale gli elementi virtuali sono sovrapposti a quelli reali, collocandola, in questo modo, all’interno di un continuum che vede da un lato il piano esclusivamente reale e dall’altro quello completamente virtuale.

La Realtà Aumentata si pone, quindi, a metà strada tra un ambiente del tutto virtuale e un ambiente reale, in cui però gli elementi del secondo ambiente sono prevalenti rispetto a quelli del primo (Klopfer, 2008).

A sua volta la Realtà Aumentata può differenziarsi in lightly augmented (leggermente aumentata), se la presenza d’input del mondo reale è elevata o heavily augmented (consistentemente aumentata), se invece a prevalere sono gli elementi del mondo virtuale. In questo secondo caso a essere presi come esempio da Klopfer sono quelle tipologie di AR che si basano sull’utilizzo di elmetti, caschi immersivi o dispositivi indossabili che funzionano in maniera analoga a quanto si è visto per la VR. Questo secondo continuum che si innesta sul piano dell’immersività permette di trarre indicazioni anche relativamente al tipo di esperienza che viene proposta ai soggetti che si differenzia molto a seconda del differente grado di immersività a cui sono sottoposti.

In realtà – come lo stesso Klopfer sottolinea – il termine AR nell’uso quotidiano e maggiormente diffuso è utilizzato per definire semplicemente la commistione de due ambienti: virtuale e reale.

Milgram
Figura 1 – Il continuum tra ambienti virtuali e ambienti reali (Klopfer, 2008: p. 92)

Se fino a qualche anno fa l’AR era considerata un terreno di sperimentazione riservato a pochi esperti del settore, grazie all’avvento sul mercato – tra le altre applicazioni – di Pokémon Go [3] questa tecnologia è divenuta, nel giro di poche settimane estremamente mainstream. La diffusione massiva e l’interesse crescente circa questo approccio impone nuove riflessioni sul fenomeno e una maggiore attenzione alle possibili applicazioni che esulino dal contesto videoludico e di intrattenimento e riguardino più da vicino dimensioni educative, di benessere e di miglioramento delle condizioni della società nella quale viviamo.

Pokemon

Figura 2 – Ambiente di gioco di Pokémon Go, in cui è ben visibile l’integrazione del layer digitale (in cui appaiono gli elementi di gioco) con la realtà fisica

L’applicazione di questa tecnologia ha avuto, infatti – in particolar modo negli ultimi anni – risvolti eminentemente pratici legati alla comunicazione e a strategie più legate al marketing e alla pubblicizzazione di prodotti: tuttavia, proprio come per la Realtà Virtuale (VR) un filone interessante – ancora immaturo e in via di sviluppo – si colloca all’interno della formazione e dell’addestramento professionale. L’analisi della letteratura fa emergere in particolar modo un impiego dell’AR nel caso di specifiche professioni che richiedono assistenza immediata o prevedono sperimentazioni che precedano l’applicazione concreta (aviazione, medicina, apparati militari…).

Qual è, dunque il contributo specifico che l’AR è in grado di fornire, posto che vi sia, ai processi di apprendimento? Qual è la sua possibile applicazione in contesti educativi e di empowement della persona?

Augmented Reality e processi di apprendimento

Un filone molto interessante, e in forte crescita, nell’ambito della letteratura che negli ultimi anni ha trattato da vicino il rapporto tra AR e apprendimento, è quello dell’applicazione della Realtà Aumentata in ambito medico: sperimentazioni a cavallo tra apprendimento, training on-the-job, e assistenza real-time. Gli studi di Botden et alii (2009) mettono in evidenza – per esempio – gli enormi vantaggi che l’AR permette di ottenere nel caso di operazioni in laparoscopia. Nelle sperimentazioni eseguite l’AR consente di ottenere migliori performance sia sul compito sia sull’apprendimento della tecnica operatoria in generale, grazie alla capacità di fornire un feedback aptico [4] in tempo reale ai chirurghi. In questo senso l’AR, collocandosi a metà strada tra un tipo di operazione condotta in Realtà Virtuale e una del tutto reale, permetterebbe anche di guidare i medici, passo dopo passo, durante la procedura diminuendo il loro livello di ansia e agendo come una sorta di “manuale d’uso” dell’intera operazione (Botden et al., 2009). Oltretutto con costi sensibilmente inferiori rispetto alla simulazione in ambienti completamente virtuali, che avrebbero come svantaggio ulteriore anche quello di essere poco collocati nella realtà e troppo “sperimentali”.

Gli autori riassumono i vantaggi delle tre ipotesi (Realtà Fisica, Realtà Aumentata e Realtà Virtuale – si veda Figura 4) in una tabella che mostra in modo molto semplice ed evidente i vantaggi e gli svantaggi delle differenti soluzioni impiegabili.

Augmented

Figura 4 – Le differenti tecniche di simulazione a confronto (Botden et al., 2009: p. 1697).

Le ricerche e gli studi di Alan Craig (2007) – direttore associato dell’Human-Computer Interaction Institute for Computing in Humanities, Arts and Social Science dell’università dell’Illinois – mettono in luce come l’AR possa essere utilizzata per migliorare l’interazione con i libri di testo scientifici. L’autore dimostra come con l’installazione di semplici marker e l’utilizzo di una comune web-cam sia possibile realizzare dei libri di testo interattivi di grande fascino ed efficacia. Gli studi in questo senso mostrano – infatti – come questi volumi, oltre ad avere un appeal molto maggiore di un libro di testo comune siano anche in grado di aiutare la comprensione e la modellizzazione di concetti astratti e complessi. Non è difficile immaginare come e di quanto sarebbero facilitati i processi di comprensione di studenti che fossero in grado, simultaneamente alla lettura della spiegazione di com’è composta la crosta terrestre – ad esempio – di visualizzare effettivamente un modello tridimensionale della terra e di poter interagire manualmente con l’oggetto digitale (Craig, 2009).

Per meglio comprendere come funziona un libro di questo tipo è possibile dare uno sguardo alle immagini sotto riportate che mostrano le due visioni di una stessa pagina: una normale (Figura 5) e l’altra in “modalità AR” (Figura 6). [5] Nel primo caso l’immagine presentata è una semplice stampa della figura che risulta occupare le sole due dimensioni che solitamente occupa un’immagine stampata; nel secondo caso – in modalità AR – la figura stampata acquisisce una dimensione aggiuntiva permettendo di essere manipolata e consentendo l’interazione diretta con la stessa fotografia. Com’è possibile notare il libro è sempre e comunque fruibile in una modalità tradizionale in modo che l’esperienza classica e ben nota di lettura di un libro di testo non venga meno, ma possa solo essere – per l’appunto – aumentata e migliorata.

Jeckyll

Figura 5 – Il libro come appare normalmente senza l’impiego della web-cam. E’ visibile solo la stampa della figura in due dimensioni.

Per poter fruire un libro di questo tipo è sufficiente l’impiego di una web-cam e di un PC (o in alternativa di un visore apposito o di un device mobile di ultima generazione) che consenta di interpretare correttamente le immagini e dar loro una “forma” differente guardando nel monitor.

I lavori di Craig evidenziano poi anche i vantaggi che gli editori avrebbero nella pubblicazione di libri di questo tipo che – senza nessun costo aggiuntivo – potrebbero essere stampati senza alcuna difficoltà rispetto alla riproduzione di pagine tradizionali.

Anche gli studi di Dünsern [6] e Hornecker (2007) danno evidenza del fatto che i libri in AR presentano notevoli valori aggiunti rispetto alla loro alternativa tradizionale. Con questa modalità di lavoro – infatti – secondo i due autori,  gli “AR Book” permetterebbero di valorizzare l’esplorazione diretta dei contenuti e renderebbero l’attività stessa della lettura più coinvolgente e affascinante soprattutto per i più piccoli. Inoltre faciliterebbero l’applicazione di modelli di apprendimento basati sulla collaborazione e sulla sperimentazione.

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Figura 6 – Il libro in modalità aumentata: con un’esemplificazione della possibile interazione consentita. In questo caso l’immagine è “smontabile” e riconfigurabile a proprio piacimento

Ulteriori lavori di Dünser (2008) mettono in luce come i libri in AR possano essere utilizzati anche per migliorare la capacità di comprensione e di apprendimento di ragazzi con difficoltà di lettura o disturbi dell’apprendimento. Gli studi condotti mostrano, infatti, che gli studenti che hanno sperimentato modalità di lettura in AR sono in grado di ricordare più facilmente i contenuti anche a distanza di tempo rispetto a coloro che hanno fruito gli stessi contenuti in modalità tradizionale. Questo processo sarebbe dovuto a una serie di fattori: in primo luogo l’AR presenta i contenuti in maniera più interattiva e dinamica, catturando l’attenzione dei discenti; in secondo luogo i lettori sono in grado di interagire concretamente con il contenuto che li impegna in un’attività che facilità il ricordo; infine – ma non di minore importanza – l’AR permette la presentazione sfruttando diversi canali, il che consente una maggiore efficacia nella ricezione del messaggio veicolato.

Su questo stesso filone Augment [7] propone differenti soluzioni per gli educatori e gli insegnanti che intendano sviluppare prototipi in realtà aumentata da sottoporre ai propri studenti con vantaggi estremamente elevati in termini di: miglioramento dell’esperienza di apprendimento, migliore coinvolgimento dello studente, possibilità di restituire feedback in tempo reale, possibilità di supportare i contenuti testuali con video e animazioni, in pieno rispetto dei principi di multimedialità e interattività di Mayer e – infine – di personalizzare l’esperienza di apprendimento secondo le esigenze della classe, o – ancora meglio – del singolo studente. All’interno della sezione del sito di Augment dedicata al settore educativo sono presenti numerosi esempi e storie di successo che mostrano in che modo l’AR possa rappresentare un efficace veicolo di apprendimento all’interno di contesti scolastici.

In questa direzione di sperimentazione va anche una ricerca condotta nell’ambito del corso di Psicologia e Nuove Tecnologie della Comunicazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano in cui sono stati utilizzati dei QR Code [8] per fornire una serie d’informazioni aggiuntive a un’esposizione museale (Besana, 2010): l’esperienza ha messo in luce come, con l’utilizzo di marker realizzati con una minima spesa e di un moderno telefono cellulare, fosse possibile rendere più interattiva, piacevole e comprensibile una mostra di strumenti psicologici di inizio ‘900  mostrando l’applicazione e il funzionamento concreto di utensili non proprio intuitivi. I QR Code possono essere considerati una prima forma rudimentale di AR e potrebbero consentire di realizzare libri e supporti “mixed” con costi veramente ridotti e “fai da te”. In questo caso però la fruizione sarebbe penalizzata dal fatto di dover operare un doppio collegamento. I QR Code – infatti – funzionano come i link all’interno degli ipertesti rimandando solamente a un contenuto digitale presente su un supporto differente.

Come anticipato in precedenza, un altro filone di ricerca molto interessante è quello legato alla progettazione di prodotti videoludici con finalità educative. Un’esperienza molto interessante di applicazione dell’AR ai contesti di apprendimento outdoor è stata tentata dal Nesta Future Lab di Londra – oggi fuso con NFER – attraverso l’applicazione Savannah. Come riportano anche gli studi di Klopfer (2008) le esperienze di AR hanno fatto emergere come la dimensione di contatto e di confronto con le realtà sia determinante e fondamentale. I focus group condotti con i ragazzi che hanno preso parte ad alcuni esperimenti di applicazioni AR per l’apprendimento in contesti outdoor hanno messo in evidenza proprio l’importanza di sperimentare in maniera attiva e in prima persona i concetti teorici trattati in precedenza: con l’applicazione dell’AR è stato – infatti – possibile unire una dimensione di apprendimento esperienziale e di sperimentazione attiva con una più teorico-informativa fornita dal layer aggiunto (Klopfer, 2008).

Il miglioramento dei processi di apprendimento, secondo le esperienze di Klopfer, si rifletterebbe anche a livello trasversale su una migliore interazione all’interno dei gruppi di studenti: la sperimentazione condotta – infatti – ha permesso di mettere in luce l’emergenza di dinamiche classiche dei contesti di apprendimento cooperativo con la presenza degli elementi caratterizzanti: interdipendenza positiva, senso di responsabilità individuale, costruzione di dialogo con i pari e via dicendo. L’AR applicata in questo modo sarebbe quindi un valido strumento anche per rafforzare gruppi di lavoro e per promuovere un tipo di apprendimento più interconnesso, interattivo, coinvolgente ed efficace.

Nella medesima direzione vanno gli esperimenti condotti Kamarainen et alii (2016) e del loro utilizzo della AR nel percorso di apprendimento outdoor di alcuni studenti. E’ proprio in questo ambiente – infatti – che la realtà aumentata sembrerebbe giocare un ruolo fondamentale nel miglioramento dell’esperienza complessiva dei discenti.

Se spostiamo l’attenzione dal mondo videoludico a quello professionale è possibile riscontrare tutta una serie di applicazioni dell’AR negli ambiti dell’assistenza in tempo reale e dell’ausilio ad attività manuali ed eminentemente pratiche. E’ in questa direzione che si collocano gli studi di Anastassova e Burkhardt (2009) che dimostrano come l’AR possa essere impiegata all’interno di una comunità di tecnici specializzati e portare notevoli vantaggi. Tra le potenzialità indagate vi sono:

  • La possibilità – per chi la utilizzasse – di “imparare facendo”, cioè di costruire la conoscenza in modo attivo, esplorativo e autonomo a partire direttamente dagli stimoli provenienti dall’ambiente di lavoro.
  • La facilitazione del processo di ricerca da parte dei soggetti in formazione: poiché le informazioni richieste sarebbero proposte dai dispostivi AR nel momento e nel tempo opportuni, senza che sia richiesto nessun tipo di intervento da parte di chi sta lavorando con conseguente diminuzione della possibilità di dispersione dell’attenzione e della concentrazione sul compito.
  • La riduzione delle possibilità di errore, poiché il legame tra concetti e informazioni teoriche e la loro applicazione concreta sarebbe visualizzata immediatamente, facilitando la memorizzazione da parte dei soggetti e rendendo più semplice il recupero delle medesime informazioni in memoria.

Le ricerche di Anastassova e Burkhardt non sono le uniche ad approfondire il legame esistente tra AR e processi di apprendimento, soprattutto nel settore automotive e nella meccanica specializzata. Nella medesima direzione si collocano i lavori di Ong et alii (2008) che individuano i vantaggi dell’AR come strumento da affiancare a operatori specializzati durante lo svolgimento delle loro quotidiane routine di lavoro. Anche in questo caso la Realtà Aumentata sarebbe in grado di diminuire le possibilità di errore esemplificare il lavoro degli specialisti. Il training delle abilità spaziali attraverso VR e AR è mostrato anche dalle ricerche di Dünser et alii (2006).

Queste ricerche sui due differenti versanti di sperimentazione sottolineano l’importanza dell’interfaccia all’interno dei processi assisti da AR: l’interfaccia – che come si è visto si colloca come un meta-medium – deve essere infatti il più trasparente possibile consentendo agli utenti di essere un vero valore aggiunto e non una penalizzazione

Apprendere dall’esperienza: la realtà aumentata come supporto al percorso di crescita della persona

Riflettere sull’apprendimento esperienziale significa muoversi in un contesto informale e non strutturato in cui il “fare” gioca una dimensione fondamentale. Già Wenger (2006) nel suo celebre lavoro sulle comunità di pratica ha sottolineato l’importanza, sia per le organizzazioni sia per gli individui, di cogliere quell’apprendimento inafferrabile, intangibile che rappresenta – però – il vero nucleo di conoscenze che si possiedono. Considerato in questo modo, l’apprendimento diviene un fenomeno emergente che si colloca in un orizzonte di riflessione sulle pratiche e sugli interessi soggettivi delle persone che fanno parte di comunità in cui scambi e relazioni oltreché attività concrete fanno da collante strutturale.

Cercando di risalire alle origini dell’apprendimento esperienziale, all’inizio del Novecento, è possibile trovare tre autori fondamentali: Dewey, Lewin e Piaget.

Le teorie di Dewey sottolineano come l’esperienza educativa sia veramente tale solo quando si stabilisce un rapporto consapevole tra mondo e soggetto; la sola attività non costituisce – di per sé – esperienza. Il fare esperienza implica un cambiamento significativo nella vita e nelle rappresentazioni di un individuo (Reggio, 2003). Lewin teorizza – invece – un processo di ricerca-azione che integri teorie e prassi all’interno dell’universo conosciuto dal soggetto. Piaget, dal canto suo, gioca un ruolo fondamentale nella riflessione che vede il processo di apprendimento come una dimensione indispensabile in grado di consentire al soggetto di entrare in relazione con l’ambiente. Il processo riflessivo di “presa di coscienza” nascerebbe, infatti, da uno “scontro” tra ciò che il soggetto conosce e ciò che acquisisce dall’ambiente (Reggio, 2003).

Le riflessioni di questi autori – in questa sede solo brevemente accennate – divengono fondamentali nel pensiero di David Kolb e nell’elaborazione del suo ciclo dell’apprendimento esperienziale, che – come si vedrà in seguito – permette di comprendere meglio in che modo teoria e prassi possano entrare in contatto e in che modo sia possibile generare un apprendimento davvero significativo a partire dall’esperienza vissuta.

Dal punto di vista psicologico l’apprendimento può essere definito come «una trasformazione nel tempo, la quale modifica caratteristiche di natura psicologica intrinseche all’individuo, mostra una certa stabilità e i suoi risultati sono mantenuti con una certa autonomia» (Antonietti & Cantoia, 2010: p. VII).

Kolb, rielaborando i concetti propri delle teorie di Dewey, Lewin e Piaget, propone un modello che consta di quattro fasi principali disposte su un piano circolare:

  • Esperienza concreta
  • Osservazione riflessiva
  • Concettualizzazione astratta
  • Sperimentazione attiva

Durante la sperimentazione in contesti AR la persona vive – prima di tutto – un’esperienza, ma per fare in modo che quell’esperienza lasci qualcosa e si trasformi realmente nel cambiamento duraturo che si è visto essere fondamentale nella definizione di apprendimento, è necessario un passaggio successivo. E’ dunque indispensabile che l’esperienza vissuta sia accompagnata da una riflessione una meta-cognizione e da un lavoro di debriefing, che permetta di recuperare e comprendere quanto fatto in modo da cristallizzare la conoscenza esperita. Questi due livelli di “lavoro” sono coerenti anche con le teorie di Kahneman [9] che suggerisce che il modo migliore per favorire un cambiamento sia di lavorare su entrambi i sistemi che l’essere umano possiede: il sistema 1, legato all’esperienza, all’intuizione e il sistema 2,  basato sul ragionamento e la riflessione.

Apprendimento

Volendo tornare nuovamente ricollegare l’AR a un contesto di sperimentazione attiva e di apprendimento esperienziale possiamo sottolinearne l’efficacia ricollegandoci a quanto sostenuto da Antonietti e Cantoia quando affermano: «i contesti significativi di apprendimento sono quelli che si avvicinano o emulano i contesti reali: si dovrebbe apprendere laddove l’apprendimento viene poi speso; l’apprendimento dovrebbe tradursi nell’elaborazione di prodotti socialmente apprezzabili; l’apprendimento richiede l’interazione genuina – non simulata – tra partner simmetrici in un quadro di distribuzione delle risorse e dei compiti» (Antonietti & Cantoia, 2010: p. 3).

In generale potremmo pensare all’AR anche come uno strumento che ricopra – all’interno dei processi di apprendimento – la funzione di scaffolding [10], si faccia carico, cioè, di:

  1. proporre al discente gli stimoli e il compito da eseguire;
  2. mantenere l’attenzione del soggetto in apprendimento sul compito da eseguire;
  3. semplificare e rendere maggiormente accessibile il compito;
  4. restringere la gamma di azioni che è possibile compiere a quelle che sono pertinenti e utili al fine del raggiungimento dello scopo desiderato per la risoluzione del compito;
  5. mostrare ed esemplificare possibili soluzioni al compito.

Si tratterebbe, dunque, di uno strumento che agisce a più livelli sul processo di apprendimento collocandosi ora come strumento in grado di arricchire l’esperienza, ora come ambiente, ora come tool in grado di aiutare e fornire le direttive necessarie per raggiungere gli obiettivi prefissati.

Conclusioni: quale futuro per l’AR nei processi di apprendimento?

Il discorso condotto fino a questo punto ha voluto porre l’accento su alcune dimensioni fondamentali che legano il rapporto tra l’apprendimento e le tecnologie in realtà aumentata. L’AR si è mostrata, e si sta mostrando, uno strumento efficace non solo per le azioni di marketing e per l’ambito videoludico, ma anche per la gestione dell’intero percorso di apprendimento considerando soprattutto la sua facilità e naturalezza d’uso, la qualità dell’esperienza che ne deriva e gli aspetti di praticità, immediatezza che le sono propri. I diversi esempi rappresentati e raccontati nel presente lavoro di sintesi sul tema, mostrano che l’intuizione è corretta e che la strada intrapresa è quella giusta: una evoluzione tecnologica e una diminuzione dei costi di realizzazione (grazie anche alla proliferazione di app che supportano nella creazione di ambienti in AR) consentono, e consentiranno, a un numero sempre più elevato di educatori di sperimentare queste nuove modalità.

A titolo conclusivo è opportuno sottolineare come il presente lavoro e le riflessioni che, più in generale, sono mosse in questa direzione, non intendano in alcun modo proporre modelli educativi e formativi che si sostituiscano alle tradizionali pratiche ma, bensì, rappresentare uno scenario possibile di applicazione che – in alcuni contesti specifici come quelli illustrati – è in grado di fornire un contributo significativo al percorso di generazione di apprendimenti significativi lungo tutto l’arco della vita.

E’ necessario, dunque, un ripensamento delle logiche classiche al fine di trovare una via di mezzo che riesca a conciliare innovazione e tradizione alla ricerca del migliore degli scenari possibili.

Per concludere con una citazione di Norman:

«la tecnologia ci pone di fronte a problemi fondamentali che non possono essere superati basandoci su quanto abbiamo fatto nel passato. Abbiamo bisogno di un approccio più tranquillo, più affidabile, più a misura d’uomo.» (Norman, 2008: p. 31)

Bibliografia & Riferimenti

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[1] Per sostanziare quanto stiamo affermando è sufficiente dare un’occhiata ai numeri legati alle piattaforme digitali raccontati nell’ottimo report di We Are Social di Gennaio 2017: https://wearesocial.com/blog/2017/01/digital-in-2017-global-overview

[2]  I device che possono essere utilizzati per la sperimentazione dell’AR sono anche molto diversi tra loro e vanno da caschi e occhiali indossabili a semplici display digitali (ad es. quelli dei comuni smartphone) che svolgono la funzione di AR semplicemente inquadrando – mediante fotocamera integrata – la realtà fisica.

[3] Pokémon Go è un prodotto di intrattenimento videoludico sviluppato dalla Nintendo con il supporto della Niantic. Maggiori informazioni sono disponibili sul sito ufficiale: http://www.pokemongo.com/.
Secondo Wikipedia (https://en.wikipedia.org/wiki/Pok%C3%A9mon_Go) il gioco è stato scaricato da oltre 650 milioni di persone (Febbraio 2017) e vanta – ad oggi – 65 milioni di utenti attivi mensilmente (Aprile 2017).

[4] Un feedback aptico è un feedback che è generato da una tecnologia o interfaccia aptica. Con questo temine s’intendono tutti quei dispositivi che, nel momento in cui vengono manovrati sono in grado di fornire una risposta immediata e di restituire una serie di sensazioni: tattili, visive e sonore in grado di connotare localmente l’interazione – In Internet, URL: http://en.wikipedia.org/wiki/Haptic_technology

[5] Le immagini sono tratte dal libro Dr. Jekyll e Mr. Hide realizzate da Martin Kovacovsky, un artista visuale, sul suo sito ufficiale è possibile anche guardare un video dimostrativo, davvero notevole, del funzionamento del libro – In Internet, URL: http://martinkovacovsky.ch/

[6] I lavori di Dünser si possono approfondire anche online sul sito ufficiale dell’HIT Lab di Canterbury (Nuova Zelanda) – In Internet, URL: http://www.hitlabnz.org/Hom, in cui un settore importante di ricerca è dedicato proprio all’impatto che l’AR ha sui processi cognitivi e di apprendimento.

[7] Augment è una end-to-end platform che consente la creazione di modelli 3d in realtà aumentata e vanta diverse applicazioni in ambito organizzativo e scolastico – In Internet, URL: http://www.augment.com/education/

[8] Codice QR (in inglese, QR Code) è un codice a matrice (o codice a barre bidimensionale) creato dalla corporation giapponese Denso-Wave nel 1994. QR deriva da “Quick Response” (dall’inglese risposta rapida), poiché consente una rapida decodifica del contenuto a esso associato. Maggiori informazioni sui QR Code – In Internet, URL: http://it.wikipedia.org/wiki/Codice_QR

[9] A proposito delle teorie dello psicologo e della “lotta” tra esperienza e memoria è possibile anche visionare un interessantissimo talk svolto al TED di qualche anno fa proprio su questi temi: In Internet, URL: http://www.ted.com/talks/lang/ita/daniel_kahneman_the_riddle_of_experience_vs_memory.html

[10] “Scaffolding” significa – letteralmente – “impalcatura” e indica «un insieme di procedure che possono aiutare l’apprendimento in quanto figura esperta, affiancandosi al discente, offrendo a quest’ultimo istruzioni, indicazioni e suggerimenti per compiere in maniera adeguata un’attività» (Antonietti & Cantoia, 2010 p: 95). Le nuove tecnologie didattiche consentono al discente di avvalersi della funzione di scaffolding anche senza la presenza fisica di un esperto.

E’ recentemente uscito un nuovo approfondimento di Altimeter relativo allo stato dell’arte del mondo digitale. Il numero si concentra in particolar modo sulla creazione e sulla definizione dei principi guida che dovrebbero fornire il punto di partenza per una strategia digitale (qui trovate il report se siete interessati a una lettura completa – http://www2.prophet.com/crafting-a-digital-strategy)

Analizziamo i principali messaggi che emergono dal documento.

In primo luogo – e casomai ce ne fosse ancora bisogno – sono sottolineate le motivazioni che portano le aziende di tutto il mondo a intraprendere un serio cammino verso la trasformazione digitale. A conti fatti le ragioni sottese sono molto semplici e sono state evidenziate più volte in questa e in altre sedi: presenza sul mercato, necessità di incontrare le esigenze dei consumatori, definizione di nuovi modelli di business…
Siamo però arrivati al punto in cui le aziende si stanno diversificando tra coloro che impiegano i servizi digitali (e sono la maggior parte delle organizzazioni presenti ad oggi sul mercato) e coloro che sono effettivamente in grado di fare la differenza all’interno di questo tipo di servizi.

Detto in altri termini siamo giunti al bivio in cui il digitale diviene parte naturale e integrante della strategia di business dell’azienda o rimane semplicemente un canale da utilizzare per attività e iniziative generiche 

Altimiter mette subito in luce una distinzione con la quale personalmente non concordo moltissimo:

Digital Transformation:

The realignment of or new investment in technology, business models, and processes to more effectively compete in an everchanging digital economy.

Digital Strategy: 

A plan of action to achieve business objectives using digital technologies

Al di là delle definizioni e delle etichette di sorta ciò che mi sembra importante sottolineare è che – ad oggi – la trasformazione digitale deve riguardare tutti i processi e i meccanismi che contribuiscono alla stessa struttura dell’impresa. Senza un approccio complessivo, olistico e completo non è possibile ottenere nessun risultato.

All’interno del percorso di costruzione di una strategia digitale (che coinvolga sia l’interno sia l’esterno dell’impresa) le organizzazioni incontrano notevoli difficoltà e barriere che devono essere correttamente affrontate per poter avere successo.

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Cerchiamo di capire meglio quali sono queste barriere:

  • Allineamento: riguarda la capacità di agire come un unico organismo a livello organizzativo. Il digital deve essere considerato a livello cross dai diversi dipartimenti e dalle diverse service line dell’azienda consentendo al massimo il ritorno dei risultati per tutta l’organizzazione. Allineamento significa anche coinvolgimento esteso di tutta l’organizzazione dai livelli più alti di senior leadership e top management (senza i quali è impossibile cambiare le modalità di lavoro) e dei livelli “più bassi” dell’organizzazione che rappresentano di fatto gli utenti finali del processo di trasformazione aziendale
  • Competenze: il ruolo delle competenze è fondamentale. Nel mondo del digitale ci troviamo di fronte a clienti e consumatori che sono molto più rapidi, informati, veloci e – spesso – competenti di noi. L’unico modo per far fronte a queste nuove sfide e per insegnare all’organizzazione a muoversi di conseguenza è dotarsi di strumenti e di capacità nuove che sian in grado di rispondere alle sollecitazioni e alle sfide imposte dal mercato. Il ruolo della formazione e dell’educazione, in questo senso, risulta – ancora una volta – fondamentale.
  • Silos e barriere interne: le organizzazioni sono sempre state abituate a ragionare organizzandosi in compartimenti stagni. Questa logica oggi è assolutamente inadatta a gestire le eccezioni ai processi organizzativi che siamo chiamati a fronteggiare.

As Bennet Harvey, Director of U.S. West Coast Digital Strategy at Wipro Digital, told us, “Many companies are realizing that top-down
organizations can’t drive significant improvements in customer experience,” but then again, completely breaking silos — as Zappos attempted with its shift to a holocracy — isn’t easy either

  • Metriche: le aziende con cui mi confronto quotidianamente molto spesso non impiegano né sono consapevoli dell’importanza delle (ne ho parlato anche in un articolo per Centodieci qui – http://www.centodieci.it/2016/06/per-migliorare-il-business-con-il-digital-devi-puntare-sui-tuoi-dipendenti/). Molto spesso si “naviga” a vista, senza avere una chiara idea della direzione da intraprendere e dei modelli da seguire. Sono solo le aziende più mature a conoscere approfonditamente i modelli di valutazione e ad impiegare metriche che non si limitino a valutare solamente una dimensione di engagement (like, commenti, share…) ma che includano anche una dimensione maggiormente connessa al business e al fare impresa (efficienza, capacità di innovazione, vendite, miglioramento della soddisfazione interna…)
  • Risorse: anche il tema delle risorse è un tema molto molto delicato e richiede seri investimenti. Senza la presenza di agenti di cambiamento, community manager, strategist di livello che siano in grado di scaricare a terra il valore aggiunto di quanto il digitale è in grado di fare, le cose semplicemente… non funzionano!
  • Cultura: da Schein in poi le Culture d’Impresa hanno sempre avuto un ruolo fondamentale nella definizione di un’organizzazione. L’unico modo per ottenere risultati significativi in termini di trasformazione digitale è cambiare il modus operandi e la cultura organizzativa evolvendola verso un modello completamente nuovo che sia in grado di imparare dalle lezioni del digitale
  • Governance e regolamentazione: è importante definire principi e linee guida che supportino i processi e i cambiamenti in atto. Anche in questo caso sono molto poche le aziende e le organizzazioni che si sono dotate negli anni di una governance e di policy adeguate all’uso dei media digitali. E’ un passaggio importante intimamente connesso con la struttura stessa del fare azienda

Oltre alle barriere Altimeter identifica una serie di principi da seguire per poter evolvere la propria situazione luno il continuum della trasformazione digitale.

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Un percorso tracciato quindi che le organizzazioni di tutto il mondo dovrebbero avere la forza di intraprendere in modo significativo per poter fare la differenza in termini di leadership digitale.

Qualche mese fa è uscito un report molto interessante del MIT Sloan in collaborazione con Deloitte University Press che analizza attorno a quali assett si muovano le organizzazioni realmente digitali.

Come facilmente intuibile il report (che trovate liberamente scaricabile a questo indirizzo: http://sloanreview.mit.edu/projects/strategy-drives-digital-transformation/) si concentra su una dimensione di cambiamento legata all’importanza che una corretta direzione di impostazione strategica è in grado di fornire. Per chi segue questo blog e per chi segue il cambiamento organizzativo da vicino non si tratta certo di una novità: la tecnologia – digitale e non –  ha da sempre rappresentato un fattore abilitante e mai il motore del cambiamento vero e proprio. Per cambiare concretamente le organizzazioni è necessario agire su altre leve, molto più delicate e complesse: nessuna trasformazione digitale è solamente tecnologica e i progetti che ci concentrano solo su questa dimensione sono destinati al fallimento immediato.

Come si legge anche nel report:

Digital strategy drives digital maturity. Only 15% of respondents from companies at the early stages of what we call digital maturity — an organization where digital has transformed processes, talent engagement and business models — say that their organizations have a clear and coherent digital strategy. Among the digitally maturing, more than 80% do.

Alcuni messaggi chiave che emergono nell’immediato:

  • Le organizzazioni maggiormente mature sono quelle che hanno una strategia ad ampio respiro che coinvolga tutta l’organizzazione e che sia in grado di massimizzare i risultati ottenibili. Il cambiamento non può essere imposto dall’alto, ma nemmeno organizzato solo dal basso
  • La forza della trasformazione digitale corretta risiede in una corretta definizione degli obiettivi e del punto d’arrivo. Come nel famoso adagio di Seneca: “non esistono venti favorevoli per il marinaio che non sa dove andare”
  • La trasformazione richiede competenze verticali che non è possibile delegare: è necessario mettere assieme il team corretto in grado di supportare l’organizzazione nel percorso di cambiamento
  • La digitalizzazione attira i talenti, i dipendenti intendono lavorare per i cosiddetti “digital leader” che ottengono punteggi più elevati all’interno dei desideri degli utenti
  • Assumersi rischi è diventata la cultura dominante all’interno delle migliori organizzazioni. I leader sono quelli che non hanno paura di sbagliare e che si muovono in contesti anche molto complessi senza volerne necessariamente mantenere il controllo
  • I leader sono sempre coinvolti in prima persona. Lo abbiamo visto e detto molte volte: senza un coinvolgimento della testa dell’organizzazione il cambiamento non può avvenire e nessuna trasformazione può essere efficace

La seguente figura mostra le barriere che le organizzazioni si trovano a dover affrontare a seconda del loro differente livello di maturità rispetto ai temi della digital transformation.

Barriers

Un altro dato interessante che emerge dall’analisi condotta  è – a mio avviso – quello che riguarda la differente penetrazione dei servizi digitali a seconda dei differenti settori di mercato. Non per tutti la trasformazione digitale sta avendo il medesimo impatto e non per tutti il cambiamento sta avvenendo con la medesima velocità.
Il digitale tocca comunque tutti i settori cambiandone le logiche di base e rendendo alcune organizzazioni più o meno restie ad accettare il processo di cambiamento

Levels

Un altro punto di fondamentale importanza è quello legato allo storytelling e al raccontare una storia, le aziende che stanno avendo il successo maggiore sono proprio quelle in grado di muoversi anche su questo versante coinvolgendo, in senso ampio, l’intera organizzazione nel processo di cambiamento e nel processo di trasformazione. Nessuno deve sentirsi escluso e il modo migliore per  raggiungere questo obiettivo sembra proprio essere quello di dare ai dipendenti una storia nella quale identificarsi.
Come si legge nel report:

In our interviews, we found that storytelling is becoming a popular means of gaining employee buy-in and organizational traction for digital transformation.
Disney is a prime example. To capture the hearts and minds of its employees, Disney carefully crafts internal messages so that they are highly relevant.
“We develop stories all day long at Disney,” says Disney senior vice president Milovich. “A great story is  a key element in getting funding for a pilot for our TV shows, and we apply this same storytelling capability to allocate capital for our employee digital initiatives.”

Il legame tra cultura e tecnologia è tutt’ora annoso e complesso. Da quello che emerge dall’analisi sembrerebbe chiaro il ruolo preponderante della prima sulla seconda e il fatto che senza una adeguata cultura di cambiamento non si possa effettivamente trasformare il mondo organizzativo nel quale si vive.

In ogni caso i leader della trasformazione digitale restano coloro che sono in grado di innovare e di trasformarsi su differenti livelli e differenti aspetti: barriere, strategia, cultura, sviluppo e gestione dei talenti, tecnologia, leadership…

Table

Negli ultimi mesi mi è capitato di leggere due eccezionali lavori di Gary Hamel, professore, saggista e mente illuminata in grado di teorizzare un nuovo modello e un nuovo modo di concepire le organizzazioni.
Il primo libro che ho letto è un classico da qualche anno nelle librerie di molti consulenti ed è “The Future of Management” mentre il secondo, più recente e forse ancora più “estremo” per certi punti di vista è “What matters now

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All’interno del secondo volume c’è un aspetto che ritengo molto interessante e particolarmente di livello. 12 insegnamenti che le organizzazioni dovrebbero imparare dal funzionamento della rete e del web (quelli che riporto qui sono tratti da un post sul WSJ – http://blogs.wsj.com/management/2009/03/24/the-facebook-generation-vs-the-fortune-500/).
Sono spunti interessanti che meritano di essere commentati e ricondotti a una logica più ampia che corrisponde a un nuovo modello di fare impresa. Vediamoli:

1. All ideas compete on an equal footing.
On the Web, every idea has the chance to gain a following—or not, and no one has the power to kill off a subversive idea or squelch an embarrassing debate. Ideas gain traction based on their perceived merits, rather than on the political power of their sponsors.

Nei contesti online le idee e le persone sono valorizzate allo stesso modo. Non esistono formalità o burocrazie che impediscano a una idea di essere meglio di un’altra né ad una idea lanciata da qualcuno che si trova in una posizione “inferiore” rispetto ad altri di non avere lo stesso potenziale successo. In questo senso la rete – come le organizzazioni – dovrebbero rappresentare contesti il più democratici possibile e favorire la circolazione di informazioni. Se l’idea è buona ha successo se non lo è non merita di essere presa in considerazione. Questo è il modello. Il cosa conta più del chi.

2. Contribution counts for more than credentials.
When you post a video to YouTube, no one asks you if you went to film school. When you write a blog, no one cares whether you have a journalism degree. Position, title, and academic degrees—none of the usual status differentiators carry much weight online. On the Web, what counts is not your resume, but what you can contribute.

Simile riflessione anche per quel che riguarda il background delle persone e quello che le persone dicono o fanno. In questo caso come riportato molto bene nell’esempio il fare conta più di molti titoli e di molte parole. Se le persone sanno fare e sanno dare un contributo di valore nell’organizzazione allora questo dovrebbe essere valorizzato al di li dei curricula o dei ruoli ricoperti da ognuno. Il merito rispetto ai risultati raggiunti dovrebbe essere il fattore chiave che guida.

3. Hierarchies are natural, not prescribed.
In any Web forum there are some individuals who command more respect and attention than others—and have more influence as a consequence. Critically, though, these individuals haven’t been appointed by some superior authority. Instead, their clout reflects the freely given approbation of their peers. On the Web, authority trickles up, not down.

Declinazione naturale di quanto si diceva prima nei punti 1 e 2 è questa. Non esistono gerarchie prescritte ma solo gerarchie mobili e naturali basate appunto sulla competenza e sui cambiamenti che avvengono nel lavoro. Nel web e in rete il funzionamento è esattamente quello descritto.

4. Leaders serve rather than preside.
On the Web, every leader is a servant leader; no one has the power to command or sanction. Credible arguments, demonstrated expertise and selfless behavior are the only levers for getting things done through other people. Forget this online, and your followers will soon abandon you.

I leader non si limitano a comandare o fornire indicazioni ma partecipano attivamente alla costruzione di valore e di contenuto all’interno dell’organizzazione. Le logiche di comando e di controllo decadono completamente e vengono sostituite da modelli organizzativi flat e collaborativi che consentono di adattarsi meglio alle sfide del mercato e che provengono dall’esterno.

5. Tasks are chosen, not assigned.
The Web is an opt-in economy. Whether contributing to a blog, working on an open source project, or sharing advice in a forum, people choose to work on the things that interest them. Everyone is an independent contractor, and everyone scratches their own itch.

In un modello simile a quello che Zappos ha annunciato di voler perseguire nel 2014 (http://venturebeat.com/2013/12/31/how-zappos-is-getting-rid-of-managers-to-retain-a-flat-startup-culture/) gerarchie, task e gruppi di lavoro sono autodeterminati e sono organizzati in modo collaborativo e dinamico, sempre intercambiabili e in grado di fornire un supporto di valore a qualunque progetto

6. Groups are self-defining and -organizing.
On the Web, you get to choose your compatriots. In any online community, you have the freedom to link up with some individuals and ignore the rest, to share deeply with some folks and not at all with others. Just as no one can assign you a boring task, no can force you to work with dim-witted colleagues.

Stessa riflessione per i team di lavoro che si scelgono compiti, composizione, scadenze sulla base dei reciproci interessi e competenze lavorando in modo sempre motivato e significativo.

7. Resources get attracted, not allocated.
In large organizations, resources get allocated top-down, in a politicized, Soviet-style budget wrangle. On the Web, human effort flows towards ideas and projects that are attractive (and fun), and away from those that aren’t. In this sense, the Web is a market economy where millions of individuals get to decide, moment by moment, how to spend the precious currency of their time and attention.

All’interno delle community online, le risorse non sono gestite da un coordinamento centrale e da un organo di controllo specifico ma scelgono i propri progetti e sono attratte in modo spontaneo dai progetti di valore che vengono costruiti all’interno. Contenuto e persone di valore attraggono altre persone di valore.

8. Power comes from sharing information, not hoarding it.
The Web is also a gift economy. To gain influence and status, you have to give away your expertise and content. And you must do it quickly; if you don’t, someone else will beat you to the punch—and garner the credit that might have been yours. Online, there are a lot of incentives to share, and few incentives to hoard.

L’informazione è potere recita un vecchio adagio spesso applicato in contesti organizzativi molto strutturati.
Se da un lato questo è vero dall’altro può rappresentare un grosso freno nello sviluppo di nuovi processi e di frontiere innovative, all’interno della rete (pensiamo anche solo a come è costruita una community e un sito come quello di Wikipedia)

9. Opinions compound and decisions are peer-reviewed.
On the Internet, truly smart ideas rapidly gain a following no matter how disruptive they may be. The Web is a near-perfect medium for aggregating the wisdom of the crowd—whether in formally organized opinion markets or in casual discussion groups. And once aggregated, the voice of the masses can be used as a battering ram to challenge the entrenched interests of institutions in the offline world.

Le decisioni e le opinioni delle persone influenzano tutta l’azienda. In rete si sa che ogni pezzo di informazione e ogni nodo coinvolto ha una importanza chiave, nelle organizzazioni non è sempre e non è affatto così. Comprendere questo significa giocare di anticipo e abilitare ogni singolo attore nella creazione di valore e di successo per l’impresa. Abilitare i nostri dipendenti è spesso la soluzione migliore che abbiamo per fronteggiare il crescente potere del consumatore.

10. Users can veto most policy decisions.
As many Internet moguls have learned to their sorrow, online users are opinionated and vociferous—and will quickly attack any decision or policy change that seems contrary to the community’s interests. The only way to keep users loyal is to give them a substantial say in key decisions. You may have built the community, but the users really own it.

Il potere si traduce anche nella possibilità di veto. Trasformarsi e imitare una community significa anche questo. Ognuno ha la possibilità di impattare in modo davvero significativo sull’ambiente di cui fa parte.

11. Intrinsic rewards matter most.
The web is a testament to the power of intrinsic rewards. Think of all the articles contributed to Wikipedia, all the open source software created, all the advice freely given—add up the hours of volunteer time and it’s obvious that human beings will give generously of themselves when they’re given the chance to contribute to something they actually care about. Money’s great, but so is recognition and the joy of accomplishment.

Le ricompense non formali, gli incentivi intrinseci sono i migliori per stimolare la motivazione e il voler fare bene delle persone. Per molti individui non esiste nulla di più energizzante del sentirsi parte di una squadra che lavora in modo coeso verso un unico obiettivo e che condivide una passione e uno scopo. Puo’ sembrare una favola ma abbiamo visto anche in passato come la motivazione non sia guidata solo da incentivi economici e anzi, abbia molti altri aspetti da non sottovalutare (per approfondire si veda anche: https://sociallearning.it/2012/12/30/motivazione-e-gamification/ in cui l’argomento è stato trattato)

12. Hackers are heroes.
Large organizations tend to make life uncomfortable for activists and rabble-rousers—however constructive they may be. In contrast, online communities frequently embrace those with strong anti-authoritarian views. On the Web, muckraking malcontents are frequently celebrated as champions of the Internet’s democratic values—particularly if they’ve managed to hack a piece of code that has been interfering with what others regard as their inalienable digital rights.

La rete funziona anche e soprattutto grazie a coloro che non sono d’accordo, coloro che giocano un ruolo nel remare a volte controcorrente (con un senso si intende – ovvio), coloro che non la pensano sempre allo stesso modo degli altri. Queste persone contribuiscono alla creazione di una forte dialettica costruttiva e a realizzare cose che da molti altri sono ritenute impossibili.

Le “lezioni” evidenziate da Hamel che le organizzazioni dovrebbero apprendere dal web sono estremamente significative e di valore per chiunque voglia costruire il prossimo futuro della propria impresa. In sostanza queste “regole” non sono molto differenti da quello che tempo fa abbiamo teorizzato come social business. Un’organizzazione più a misura d’uomo, più personale, più in linea con principi di valore e di costruzione di senso per gli individui. Un modello aziendale che sembra – tra le altre cose – essere l’unico in grado di rispondere con efficacia alle sollecitazioni e ai nuovi stimoli che provengono dal mercato.

Di recente mi è capitato tra le mani un interessante report che analizza e fotografa in modo completo e professionale lo stato dell’arte rispetto al tema dell’Open Innovation consentendo di capire in modo molto semplice ed efficace a che punto siamo e in quale direzione si stiano muovendo le grandi aziende.
Trovate il report sul sito dell’Università di Berkeley, ve ne consiglio la lettura.

Prima di tutto che cosa si intende per Open Innovation?  In che modo è stata definita dagli autori del report?

Open innovation is defined as: “… the purposive use of inflows and outflows of knowledge to accelerate innovation in one’s own market, and expand the use of internal knowledge in external markets, respectively.”7 This is the definition we gave respondents for our survey. Using this definition, 78 % of respondents reported practicing open innovation, with 22 % reporting that they do not practice open innovation.

Ma cerchiamo di capire i dati salienti e i punti principali che vengono messi in luce all’interno dell’analisi.

  • Il 78% delle aziende all’interno del report pratica – o perlomeno afferma di praticare – in qualche modo o in qualche forma iniziative di Social e Open Innovation
  • Oltre il 71% delle iniziative di questo tipo trovano un supporto nel top management
  • L’82% del campione ritiene che le iniziative di questo tipo siano in netto aumento e di maggiore intensità rispetto a 3 anni fa
  • L’adozione di strategie e processi di open innovation è in forte crescita in modo trasversale rispetto alle singole unit e rispetto alle industry di riferimento. In questo senso si veda anche lo schema sotto-riportato che chiarifica il posizionamento delle aziende analizzate.

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  • Le aziende analizzate spendono circa 2 milioni di dollari in iniziative di open innovation all’anno e i team staffati sono di circa 20 persone/risorse full time
  • Il potenziale inesplorato dell’innovazione partecipata è ancora estremamente alto e non correttamente sfruttato per una serie di ragioni: mancanza di formazione corretta che consenta il pieno uso delle piattaforme e dei processi e mancanza di una strategia globale che connetta questa iniziative con i bisogni reali dell’impresa. In sostanza si analizza come a fronte di investimenti maggiormente mirati e strategie maggiormente focalizzate sul business i benefici di iniziative di questo tipo potrebbero – potenzialmente – essere molto maggiori e più legate all’effettivo bisogno espresso dalle organizzazioni.
  • Allo stato attuale molte delle iniziative di questo tipo sono da ricondursi a fasi ancora sperimentali e a esercizi stilistici fini a se stessi che non impattano in modo significativo sulla direzione verso la quale intendono andare le aziende.
  • L’insoddisfazione maggiore legata a questi temi sembra essere quella connessa alle metriche di misurazione di successo delle iniziative di collaborative innovation, mancano misure standard del ritorno dell’efficacia e dell’investimento, ma anche per comprendere adeguatamente l’impatto delle singole idee sull’organizzazione. La maggior parte delle volte non si fa – infatti – ricorso a strumenti che siano in grado di valutare l’efficacia e l’efficienza di questi processi.
  • Le attività di questo tipo – probabilmente anche grazie alla spinta e all’innovazione portata (e in un certo senso imposta) dai social media – sono aumentate e si sono intensificate nell’ultimo anno, crescendo non solo per le aziende che hanno iniziato da poco a sperimentare in questo settore ma anche – e soprattutto – per quelli che sono sul mercato dell’open innovation da più tempo.

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Di interessante rilievo mi sembra poi l’analisi rispetto ai partner ideali per le iniziative di social innovation. In un certo senso è possibile far emergere una riflessione che si collega molto bene con i principi chiave di una social organization e di un social business: la connessione – cioè – tra l’interno e l’esterno dell’organizzazione, l’allineamento tra le conversazioni che avvengono all’interno dell’azienda e quelle che avvengono all’esterno.
In questo senso diviene dunque fondamentale e di strategica importanza connettere consumatori esterni e dipendenti all’interno di ambienti che rappresentino il contesto ideale e privilegiato per poter far maturare iniziative valide che abbiano un impatto chiave sui processi e sulle strategie aziendali, connettendosi a precisi obiettivi di business e facendo maturare risultati concreti e misurabili.
Altre realtà rappresentano dei partner importanti ma come visibile occupano un posto minore rispetto a queste due dimensioni che riguardano l’interno e l’esterno dell’azienda.

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Altrettanto importanti risultano le riflessioni che vedono la connessione delle iniziative di open innovation con i dipartimenti interni all’azienda. In particolare risulta interessante e particolarmente significativo notare come la funzione HR giochi un ruolo marginale e quasi assente all’interno di questi processi. Questione molto significativa se si considera che invece proprio questa funzione dovrebbe essere a supporto significativo di questi processi garantendo il coinvolgimento esteso dell’intero ecosistema aziendale.

In generale provando a tirare le somme della questione possiamo dire che:

  • l’open innovation pur essendo un fenomeno tutto sommato nuovo ha del grosso potenziale che è già stato espresso e promette di averne ancora di più nei prossimi anni.
  • Le iniziative condotte dalle aziende pur con notevole soddisfazione estesa mancano di un coordinamento e di una precisa strategia che sia in grado di tenere insieme tutti i pezzi e tutte le risorse del progetto misurandone qualitativamente e quantitativamente output e risultati.
  • Lo spazio per migliorare è ancora molto e per le aziende c’è ancora molta strada da fare soprattutto dal punto di vista della cultura dell’innovazione e delle modalità di collaborazione.