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Di recente mi è capitato di interessarmi più da vicino a un trend che reputo molto interessante per le aziende di oggi e che promette di essere in forte crescita nei prossimi anni.

Le organizzazioni – oggi molto più che in passato – si trovano a gestire sfide sempre più complesse e sempre più articolate legate, tra i tanti motivi che si possono elencare, all’inadeguatezza degli strumenti che hanno a disposizione. Molta della crisi che stiamo vivendo – io credo – è figlia anche di questa inettitudine di fronte al cambiamento.

Cambia il contesto, cambia il mercato, cambiano le persone e i meccanismi di gestione della conoscenza: strategie di HR, di management (e di KM soprattutto) risultano non più all’altezza di questo mutato scenario.

Ma quali sono – dunque – le sfide che si pongono di fronte alle organizzazioni – più o meno complesse – di oggi?

La prima sfida è quella della conoscenza  

  • Le aziende hanno ottimizzato – negli ultimi 40 anni – soprattutto l’attitudine a eseguire lavori ripetitivi, prevedibili in maniera semplice e concettualmente leggeri. L’efficientamento delle pratiche si è svolto sopratutto a questo livello. Routine, processi strutturati, adozioni di schemi che rafforzano e perpetrano uno status quo.
  • Non siamo attrezzati e non siamo in grado di gestire la conoscenza.
  • Studi di McKinsey mostrano come la forza lavoro degli Stati Uniti sia per il 50% in mano ai knowledge workers
  • L’incapacità che abbiamo nel gestire e nell’organizzare la conoscenza informale genera grandi inefficienza e perdite (anche economiche) nelle organizzazioni. Sempre McKinsey sottolinea come dal 20 al 50% della collaboration all’interno delle aziende sia inutile, sprecata o non efficace.
  • La maggior parte di progetti di Social Business fallirà. Come riassunto molto bene in questo articolo: http://www.socialenterprise.it/index.php/2013/02/11/80_socialbusiness_fallira/ le sfide restano elevate e significative.

Non ultimo: lo scoglio culturale rappresenta un ostacolo spesso molto grosso (forse il più grosso) che le aziende – e i consulenti – si trovano a fronteggiare.

La seconda sfida è quella del cambiamento

  • Illustrato molto bene nel volume “The Power of Pull” di John Hagel le nostre organizzazioni sono strutturate per consolidare processi di cambiamento che sono più lenti della velocità in cui cambiano le condizioni di partenza e il sistema esterno all’organizzazione
  • Non siamo attrezzati per gestire le eccezioni ai processi. Tutto ciò che non è anticipatamente pianificato, processato, categorizzato rappresenta un rischio per le organizzazioni che si trovano, più che a cavalcare un’onda a tentare – ancora spesso e in molti casi – di arginarla.
  • L’evoluzione del mercato e l’affermazione di trend nuovi e di comportamenti innovativi (Social Customer – http://www.sociallearning.it/lo-scenario-del-retail-e-il-social-media-mark ) richiede l’evoluzione e il passaggio verso un’organizzazione pull, top-down, non gerarchizzata e in grado di far fronte alle esigenze nuove ogni qual volta esse si presentino
  • L’organizzazione deve diventare un’organizzazione resiliente ( http://www.amazon.com/Reorganize-Resilience-Putting-Customers-Business/dp/1422117219 ): in grado di apprendere in modo dinamico, di poter fare innovazione, di sfruttare l’intero ecosistema per poter massimizzare il valore (partner, dipendenti, stakeholder, clienti finali…) co-creato, mettendo al centro dei propri processi le persone: siano essi dipendenti interni all’azienda o clienti finali (esterni)

La terza sfida è quella legata alle persone

  • Le organizzazioni di oggi non sanno cosa motiva le persone: modelli basati su incentivi economici e MBO stanno rapidamente perdendo di significato e mostrando la loro inadeguatezza
  • Studi di Deloitte sottolineano come l’80% delle persone sul posto di lavoro non si senta motivato, ingaggiato e non stia attualmente partecipando alla missione dell’azienda. Lo studio sottolinea poi anche come molti di questi considerino il posto di lavoro come un riempimento della giornata, senza nessun tipo di fidelizzazione o di investimento di risorse che non siano quelle essenziali.
  • Ancora una volta: non si tratta di incentivi economici o di modelli di retribuzione ma piuttosto di organizzare le aziende in modo più aperto, collaborativo, efficace. In una parola: più a misura d’uomo. 
  • E’ chiaro che non stiamo solo facendo bei discorsi, ma la motivazione, il livello di coinvolgimento gioca risvolti pesanti anche in termini di efficacia aziendale, di utili e di capacità di attrarre e di trattenere talenti. Ma non solo: non sono poche le ricerche che dimostrano come a fronte di un maggiore coinvolgimento e una maggiore integrazione dei processi i primi benefici siano appunto quelli che arrivano all’azienda.

Qual è quindi la soluzione? Quale può essere la chiave di volta?

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Un report di Deloitte ( http://www.deloitte.com/assets/Dcom-SouthAfrica/Local%20Assets/Documents/the_digital_workplace.pdf ) sottolinea alcuni trend interessanti rispetto a questo tipo di argomento e propone l’evoluzione verso il Digital Workplace (niente di particolarmente innovativo, ma sicuramente qualcosa che merita una riflessione).

Di che cosa si tratta?

The digital workplace can best be considered the natural evolution of the workplace. Comprised of your employees technology working environment. The digital workplace encompasses all the technologies people use to get work done in today’s workplace – both the ones in operation and the ones yet to be implemented. It ranges from your HR applications and core business applications to email, instant messaging and enterprise social media tools and virtual meeting tools.

Ma in che modo ci può essere utile?

  • Migliorare la comunicazione interna e ridurre i costi
  • Supportare il talent management, la crescita e la cross-fertilization intern all’azienda
  • Supportare lo sviluppo di competenze organizzative
  • Supportare il decision making
  • Facilitare l’on-boarding e l’induction de
    i nuovi collaboratori
  • Avere maggiorai informazioni sul lavoro dei propri colleghi e su quello che accade all’interno dell’organizzazione (knowledge sharing)
  • Identificare Subject Matter Expert

E con quali strumenti?

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Ma non si tratta certo di uno scenario già maturo e strutturato, anzi è in continua definizione e ristrutturazione – come proprio di questo mondo.

Un recente e interessante post di Jane McConnell – esperta mondiale di Intranet 2.0 – evidenzia alcuni dei prossimi trend che si affermeranno nell’ambito del digital workplace ( http://www.netjmc.com/future-trends/digital-workplace-trends-2013-executive-summary/  ).

Nello specifico alcuni dei punti più interessanti:

  • Nel 2013 il mercato del mobile – anche rispetto a questo tema – sarà in forte evoluzione e impatterà anche questo tipo di settore. Le organizzazioni che si stano muovendo in questo seriore sono sempre di più.
  • L’adozione di tecnologie social all’interno delle imprese sta continuando ad aumentare ma il potenziale (come dimostrato anche dal recente report di McKinsey – http://www.sociallearning.it/il-valore-e-il-mercato-del-social-business ) è ancora non del tutto sbloccato. La strada da fare è ancora lunga e lo spazio per crescere ancora tanto.
  • Coordinazione, Governance e Strategie sono uno dei punti più deboli: più tecnologico il problema è culturale, gestionale e organizzativo: sono necessarie nuove logiche e nuovi approcci, ma non solo: il punto di vista tecnologico è solo uno degli aspetti da tenere in considerazione.
  • La resistenza al cambiamento è – altresì – uno degli ostacoli che impediscono maggiormente la capacità di innovazione delle aziende e la possibilità di adottare processi che migliorino le organizzazioni

E’ chiaro che non si tratta della soluzione al problema, ma – piuttosto – di parte della soluzione. Di un pezzo di strada che le aziende che vogliono cominciare a lavorare su questi temi devono fare per intraprendere la strada del cambiamento.

Strumenti come questi possono – infatti – essere dei catalizzatori molto potenti.

Quali consigli strategici quindi è necessario seguire per poter trarre il massimo da questo processo?

  • E’ necessario ripensare gli strumenti collaborativi all’interno delle organizzazioni in modo che le esigenze delle persone siano messe al centro del processo di cambiamento.
  • La tecnologia è un di cui: il cambiamento, l’investimento sulle persone, il ruolo della formazione – anche – devono essere prioritari rispetto alla scelta di una tecnologia
  • Perché il processo di cambiamento abbia successo è necessario coinvolgere tutti gli attori. Un’azione top down del management deve essere fatta ma il supporto non deve essere solo “di facciata”. L’intera azienda deve essere coinvolta. Dai massimi vertici (che devono sponsorizzare, sostenere e promuovere il processo) all’ultimo anello della catena che è altrettanto importate
  • Scalare: ragionare nel piccolo per poi muoversi sul grande. Progetti come questi devono essere testati, richiedono fasi di co-design, di pilot, di azioni puntuali e pianificate che coinvolgano piccoli gruppi di “champions” per poi estendere modelli all’intera organizzazione
  • Ascoltare, capire, provare: come in tutte le cose è sempre necessaria una costante valutazione di quello che accade per poter costantemente aggiustare il tiro, riformulare e rivedere. E’ l’unico modo per essere sicuri di limitare i danni in caso di problemi o di massimizzare il risultato in caso di azioni positive.
  • Lavorare sulla cultura e sul cambiamento: come abbiamo visto si tratta dello scoglio maggiore e più grande che richiede investimento e risorse per poter essere sormontato e per poter essere usato per poter cambiare le aziende. E’ impossibile che un progetto di trasformazione e di socializzazione dell’organizzazione abbia successo se non si lavora su questo livello
  • Infine – ma non meno importante – la connessione con precisi obiettivi organizzativi e di business. Senza connettere il processo di cambiamento e di trasformazione al cosa si vuole ottenere non ha senso nemmeno iniziare. Ogni strategia, social, digital, qualunque essa sia deve – necessariamente – per poter avere senso, essere connessa a obiettivi molto ben precisi.

Mi è capitato di recente di sfogliare il “Little Blue Book of Social Transformation” realizzato da Salesforce in collaborazione con Brian Solis e Altimiter – https://www.salesforce.com/form/pdf/social-enterprise-bluebook.jsp?d=70130000000sPz2. Il piccolo manuale – di taglio estremamente divulgativo – riassume sinteticamente alcuni principi (20) guida per un’organizzazione del futuro.

In questo post li riassumo e li commento inserendo anche riferimenti ulteriori per approfondire un discorso che mi è da tempo caro: quello legato al Social Business e a come questi strumenti modifichino le organizzazioni in cui ci muoviamo quotidianamente.

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1 – Definire una vision
In ogni progetto organizzativo che si rispetti, in ogni strategia, la definizione degli obiettivi di alto livello è sempre il primo punto. Ho compreso l’importanza dei social media all’interno dell’organizzazione? Ho capito che il Social Business può portarmi un reale vantaggio competitivo? In questo senso serve dunque dettare degli obiettivi, delle vision strategiche che siano in grado di orientare comportamenti, azioni e “tattiche” successive. Legato a questo concetto c’è anche il recente ottimo post di Jeremiah Owyang – http://www.web-strategist.com/blog/2013/01/14/the-difference-between-strategy-and-tactics/ in cui è presente una bellissima differenziazione tra strategia e tattica. In una frase?

The difference between strategy and tactics: strategy is done above the shoulders, tactics are done below the shoulders.

2 – Fissare degli obiettivi chiari
Esattamente come visto sopra nella citazione, una volta definita la meta da raggiungere è necessario stabilire una rotta da seguire. Sebbene il 70% delle aziende raggiungano o vogliano raggiungere obiettivi di business definiti, solo il 43% di queste ha formalizzato una roadmap adatta al raggiungimento di questi obiettivi. Partire dagli obiettivi di business di una azienda, da quello che è necessario è il primo step fondamentale per impostare una strategia di Social Business e di presenza digitale di un brand. 

3 – Dare uno scopo
Dare ai dipendenti, ai clienti qualcosa in cui credere. Una missione. Non è una questione di remunerazione o di crescita professionale, ma di uno scopo condiviso, della creazione di valore all’interno dell’ecosistema organizzativo. Tutto molto ben spiegato da Daniel Pink anche nel suo ultimo libro “Drive”, legato appunto alla scienza della motivazione: http://www.ted.com/talks/dan_pink_on_motivation.html

4 – Creare una Social Taskforce
Creare un team di persone che condividano quanto sopra, ma che siano anche competenti e in grado di definire una policy sui social media e un processo strutturato da seguire. E’ necessario che il team sia connesso all’organizzazione. Quando parliamo di una Social Taskforce non dobbiamo pensare a “social media freak” che seguano l’organizzazione dall’esterno e che si occupino solo dei canali social in maniera più o meno sporadica, ma piuttosto a professionisti inseriti nel conteso e ne tessuto aziendale che sono in grado di comunicare con i vari dipartimenti e senza distinzioni in business unti, silos e via dicendo…
Scopo di questa taskforce è fare in modo che le gli obiettivi di business siano collegati alla strategia e all’execution.

5 – Metti il consumatore al centro del tuo business
Il Social Customer, il consumatore che è molto più consapevole rispetto al passato del prodotto che sta acquistando o del servizio di cui sta usufruendo, che si fida molto di più dei propri pari rispetto a quello che dicono i brand, che tende a connettersi con utenti che gli somigliano all’interno di community (poco importa se del brand o spontanee) è un trend crescente.
Basti pensare che secondo un’indagine ClickFox il 97% dei consumatori si dice influenzata nei suoi comportamenti di acquisto da quello che dicono gli altri consumatori del prodotto. Per le organizzazioni diviene oggi molto più importante ascoltare i consumatori: il che non vuol dire essere accondiscendenti con tutti e accontentare ogni lamentela ma mettere i consumatori, i clienti, i dipendenti: le persone, in generale, al centro del proprio business.

6 – Utilizzare le informazioni sui nostri consumatori.
Le aziende devono capitalizzare quanto imparato, devono utilizzare le informazioni che hanno a disposizione sui consumatori per deliverare soluzioni sempre migliori. Nel giro di dieci anni le organizzazioni che si muoveranno in questo senso rappresenteranno l’80% del mercato.

7 – Impiegare le social technology come contesto per sviluppare i propri dipendenti
Una citazione molto bella di Ted Schadler recita:

“You must empower employees to solve the problems of empowered customers.”

Studi dimostrano che i dipendenti che usano e impiegano soluzioni di social software sul posto di lavoro sono in grado di aumentare la loro produttività fino al 50%

8 – Abbattere i Silos organizzativi
Quando si parla di social business si intende un’organizzazione più connessa, maggiormente collaborativa, in grado di rispondere in maniera molto più reattiva alle sfide proposte dal mercato.
Cio’ che è veramente importante comprendere è che – a fronte di cambiamenti nei confronti dei propri consumatori sull’esterno – devono corrispondere cambiamenti effettivi all’interno dell’organizzazione. I dipartimenti devono poter comunicare tra loro e diventare social significa – a conti fatti – abbattere le barriere all’interno dell’azienda.

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9 – Valorizzare i legami deboli
Grazie alle social tecnologies e agli strumenti digitali è possibile strutturare reti aziendali in grado di abilitare l’accesso a pratice, idee, risorse e competenze in maniera molto più dinamica e efficiente. Interessanti riflessioni possono essere fatte anche sul come circolano le informazioni in rete e come si muovono conoscenza e apprendimento organizzativo ( http://wearesocial.it/blog/2012/01/da-chi-lo-hai-saputo-circolano-le-informazioni-sui-social-network/ ).

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10 – Costruire uno spazio di lavoro orientato ai risultati
Motivare e costruire un ambiente di lavoro in cui vengono stabiliti social goal, in cui si fornisce un riconoscimento basato sul merito, in cui le persone sono in grado di lavorare in modo più efficace, più efficiente e con maggiore resilienza.

11- Socializzare tutti i processi di business.
Assumere un guru dei social media non è sufficiente per modificare l’intera azienda. Socializzare tutti i processi di business richiede una strategia precisa, una roadmap e l’investimento mirato di risorse, tempo e competenze. 
E’ possibile leggere qualcosa di più su questo punto facendo riferimento a questo articolo pubblicato su Harvard Business Review all’interno del Social Business Manifesto: http://socialbusinessmanifesto.com/social-business-process-reengineering/

12 – Tratta i tuoi prospect come partner di lunga data
Quando si parla di Social Business si intende un’organizzazione che abbia messo in atto determinate strategie e soluzioni atte a massimizzare il valore scambiato all’interno di tutto l’ecosistema aziendale: tra partner, fornitori clienti, dipendenti e via dicendo.
Il trattamento non deve quindi variare in funzione del nostro interlocutore.

13 – Creare “Fan for Life”: verso l’ingaggio continuo
L’ascolto non è più sufficiente
. Il monitoraggio costante delle conversazioni non può più essere l’unica strada che viene praticata dai brand. E’ necessario che l’ascolto delle conversazioni sul proprio brand e sulla propria industry non sia più solamente fine a se stesso ma sia intimamente connesso a una dimensione proattiva di coinvolgimento a una voglia di fare e di mettere in atto quello che i consumatori ci chiedono. In due parole? Social CRM!

14 – Sfruttare il potere della Crowd-Source innovation che deriva dalla tua Community
Investire all’interno delle community – mostra una ricerca IDC – ci permetterà di avere nel 2020 oltre il 75% delle idee necessarie a migliorare il nostro prodotto o il nostro servizio. I dipartimenti R&D dovranno rivedere le loro logiche top-down verso logiche più partecipative di collaborazione e di scambio botto-up, in cui dipendenti e consumatori finali contribuiscono a creare un servizio migliore. Un esempio su tutti? Il più noto e classico: la community My Starbucks Idea: http://mystarbucksidea.force.com/

15 – Muoversi alla velocità del mercato
Forse una delle sfide maggiori e più importanti rispetto a quello che stiamo dicendo. I consumatori si muovono a una velocità elevatissima ed è necessario fare altrettanto. Come scrive Dave Gray nel suo The Connected Company citando il CEO di GE: “If change is happening on the outside faster than on the inside the end is in sight” – Jack Welch.
Muoversi come una Social Enterprise significa anche capire e anticipare il cambiamento molto prima di tanti altri

16 – Creare un Social Listening Center
Anche in questo caso un ottimo esempio ci arriva dai casi come Gatorade e come Dell.

A cosa serve? A tenere insieme tutti i pezzi che abbiamo citato sopra, ma anche a molto di più. Un Listening Center deve rappresentare il punto di partenza per i brand e non un punto di arrivo. Ancora una volta l’ascolto attivo delle conversazioni non deve essere finalizzato solo alla percezione della propria brand reputation ma – piuttosto – legato alla pianificazione di un’intera strategia digitale di presenza sulla rete.

17 – Stabilire regole di coinvolgimento
Costruire una strategia di presenza digitale, una social media strategy, una social business roadmap. Applicare i concetti che abbiamo visto sulla propria azienda. Passare dall’ascolto alla reazione e – infine – al coinvolgimento proattivo. Essere trasparenti, ingaggiare in tempo reale le persone, dare feedback, risolvere i problemi dei consumatori, dei social customer.
Anche in questo senso quello che diciamo lo mostra molto bene una storia di successo come quella di Kimberly Clark.

18 – Costruire esperienze Social sempre nuove
Creare storie di successo, applicazione e progettare esperienze per i propri consumatori che siano sempre uniche che siano in grado di metterli al centro del nostro business.

19 – Allargare la propria rete di Evangelist
Un Social Business mette in prima linea ed espone i professional che lavorano all’interno di un’azienda da loro visibilità e massima vetrina. Secondo alcune ricerche di Erik Qualman il 90% dei consumatori si fida degli utenti conosciuti (dei cosiddetti influencer), il 70% si fida di quelli sconosciuti e l’8% – solamente – delle celebrità. Mettere al centro i propri dipendenti e i propri clienti maggiormente influenti e in vista significa dare spazio massimo alla creazione e all’incremento di valore. 

20 – Portare i prodotti all’interno della conversazione
Lo step finale e’ quello di portare i prodotti all’interno della conversazione e all’interno degli strumenti digitali. Prodotti e servizi, consapevoli di come i social media non rappresentino né la soluzione a tutti i nostri problemi, nè la bacchetta magica in grado di migliorare la nostra azienda, ma solo uno strumento. Un semplice catalizzatore che può aumentare in modo esponenziale la nostra capacità di fare business, di migliorare l’innovazione e il servizio al cliente. La nostra capacità – in sintesi – di diventare una Social Enterprise. Un’organizzazione che ha il suo centro nelle persone e nella generazione del valore scambiato. 

Uno dei temi di cui mi sono sempre occupato con maggiore interesse e a cui ho dedicato molta ricerca (tra i tanti cito il libro pubblicato: Figli e videogiochi, istruzioni per l’uso) è quello legato ai giochi, videogiochi e alla gamification applicata ai processi di business. Ne ho parlato molto anche in questa stessa sede.
Come è possibile migliorare il coinvolgimento e la partecipazione all’interno delle organizzazioni può o meno complesse? Come utilizzare le strategie e le meccaniche del gioco per valorizzare aspetti di partecipazione?

Di recente ho cominciato anche a interessarmi di come il mercato sia cambiato e di cosa sia successo negli ultimi due anni. Il messaggio che arriva è molto chiaro. I grandi player e i grossi giganti hanno cominciato a muoversi su un terreno che prima non era battuto. Lo dimostrano i casi studio e i report che vengono rilasciati ma anche le azioni che stanno concretamente intraprendendo le grandi aziende. Grosse società di consulenza e agenzie molto famose hanno cominciato a imboccare la strada del Social Business e a prestare molta più attenzione a quello che fino a qualche mese fa era considerato un settore di nicchia.

Nello specifico in questa sede mi piacerebbe riprendere alcuni dei messaggi chiave che sono stati lanciati con il report di PwC dedicato all’argomento di cui consiglio la lettura:http://www.pwc.com/us/en/technology-forecast/2012/issue3/index.jhtml

  • l’aspetto fondamentale a tutte queste pratiche è quello legato alla motivazione: che cosa spinge le persone a fare quello che fanno? Come e’ possibile costruire imprese che bilàncino correttamente le aspettative dei dipendenti con il mercato? In questo senso suggerisco anche la lettura dell’ottimo Drive di Daniel Pink in cui il fenomeno viene analizzato in modo molto dettagliato e approfondito. Il tema delle motivazione che guida il comportamento delle persone è molto più importante del sistema retributivo e di tutto ciò che ruota attorno ai cosiddetti incentivi estrinseci. Come si legge anche nel report:

The field of motivation today is much more about what supports or sustains people in the choices they make, rather than how you make people do things with rewards and punishments

Figura1

  • Le imprese sono sempre più alle prese con problematiche che sono legate alla cosiddetta sfera dell’engagement (del coinvolgimento). Come si coinvolgono le persone? Come si riesce a farle sentire parte di qualcosa di più grande e di significativo? In questo senso un recentissimo e molto molto interessante articolo di Forbes evidenzia le 10 ragioni per cui i leader delle organizzazioni di oggi lasciano scappare e fanno disperdere i talenti: http://www.forbes.com/sites/mikemyatt/2012/12/13/10-reasons-your-top-talent-w… , si tratta di una lucida e attenta analisi che consente di riflettere molto circa quello che motiva e che tiene coinvolte le persone all’interno dei processi aziendali e organizzativi e cosa invece impedisce di costruire rapporti, relazioni e imprese migliori.Le organizzazioni non falliscono, non falliscono i dipendenti e non falliscono i progetti. A fallire sono – sempre – strategie errate di management e di gestione delle risorse.
  • Più che una fonte di motivazione i manager dovrebbero aiutare i dipendenti a trovare la loro motivazione intrinseca e la propria strada.
  • E’ possibile distinguere i livelli di motivazione delle persone in 4 tipi differenti di “giocatori”: gli Achievers, orientati all’obiettivo da raggiungere; gli Explorers: motivati dalla conoscenza, dalla voglia di imparare e dal capire le cose; i Socializers: ricercano networking e opportunità nuove e – infine – i Killers: in cui la motivazione è data dal “giocare” un ruolo dominante.

Figura2

  • Badge, Leaderboard e Achievement sono uno degli strumenti di motivazione e di rafforzamento dei comportamenti positivi. Tuttavia non dobbiamo dimenticare le lezioni di Jane McGonigal (famosa la sua presentazione We don’t need stinking badges che abbiamo anche riportato in questa sede: http://www.sociallearning.it/ancora-su-giochi-videogiochi-gamification-e-p ) in cui si sottolinea come un approccio che tenga in considerazione solo e solamente le meccaniche del gioco (senza considerare i livelli superiori di gameful design) sia assolutamente inadatta a motivare comportamenti e atteggiamenti positivi. Atteggiamenti e strategie troppo focalizzate sulle meccaniche possono – anzi – contribuire in modo negativo e generare atteggiamenti controproducenti diminuendo la soglia della motivazione interna e rafforzando un comportamento non corretto.
  • E’ fondamentale collegare le meccaniche e la progettazione di strategie di gamification a precisi e concreti obiettivi di business che siano misurabili. Anche in questo caso la Gamification è da considerarsi come lo strumento per raggiungere uno scopo e non come il fine ultimo. Tra gli obiettivi che si possono raggiungere si possono senza problemi riprendere quelli del social business: migliorare il servizio al cliente, la capacità di fare innovazione, la presenza sul mercato, l’efficacia e l’efficienza nel delivery dei progetti, la gestione delle risorse interne, lo scambio, formalizzazione e valorizzazione della conoscenza, un apprendimento integrato e via dicendo…

Figura3

  • Viene proposto un modello a 7 fasi specifiche per avviare un processo di coinvolgimento basato sulle dinamiche del gioco e della gamification. Le fasi che sono riportate: stabilire obiettivi di business precisi, lavorare su un target specifico, confermare il target, sperimentare, oltrepassare gli ostacoli, stabilire e comprendere gli incentivi, benefit.
  • Il tema delle skill è un tema estremamente cruciale. Per poter realizzare progetti di questo tipo è necessario aggregare talenti e competenze che siano ben strutturate e – nemmeno a dirlo – motivati. Tra le skill che sono riportate dal report di PwC: psicologia della motivazione e della decozioni, sistemi HR e di gestione degli incentivi, tracciamento e analytics, crowdsourcing e idea management, teoria dei giochi, game design e conoscenza delle dinamiche di gamification.

Figura4

 

  • Gamification è solo una parola chiave che sarà dimenticata nel giro di due o tre anni(credo valga lo stesso anche per i termini Social CRM, Social Business, Enterprise 2.0…). La vera differenza – in questo senso – la fa la capacità di execution: il saper fare le cose e il saper ottenere degli obiettivi e dei miglioramenti molto concreti connessi ai processi aziendali e con al centro dell’intero processo le persone.

I prossimi passi sono sicuramente legati al calare nel concreto questi concetti e – come già si diceva – passare dal parlare al fare, dalle teorie e dalle filosofie all’execution.

E infine, per lasciare un po’ di inspiration di fine anno a tutti:

Quando nel 2012 abbiamo organizzato – assieme al team di OpenKnowledge ed Emanuele Quintarelli – il Social Business Forum: http://www.socialbusinessforum.com portando in Italia speaker internazionali ai massimi vertici su questi temi (John Hagel, Steve Denning, Ray Wang, solo per citarne alcuni) e attirato con un unico evento oltre 1200 persone nell’arco di due giorni realizzando il più grande evento sul Social Business in Europa, abbiamo voluto dargli un claim, una frase he racchiudesse il tema chiave delle due giornate, un fil rouge che tenesse insieme tutti i pezzi.

Abbiamo scelto di usare “From Social To Business”. 

In un recente mio articolo ho già sottolineato alcuni temi legati cambiamento della industry del Social Business e del Digital che in questi ultimi mesi hanno preso sempre più piede affermandosi in maniera consistente: http://www.sociallearning.it/dal-parlare-al-fare-il-social-in-azione

Un report di IBM intitolato proprio “The Business of Social Business” (maggiori informazioni qui: http://www-935.ibm.com/services/us/gbs/thoughtleadership/ibv-social-business.html ) parla proprio di questo: quale ROI dietro le iniziative di Social Business e di Digital Transformation? A cosa serve accumulare fan? Come posso applicare gli strumenti digitali all’ecosistema della mia azienda massimizzando il risultato prodotto dalla catena del valore? Come metto al centro le persone dei miei processi?

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Alcuni dati di contesto generale che vengono sottolineati dal report.

  • Un elevato numero di aziende dimostrano che gli investimenti nell’ambito del social business stanno crescendo e cresceranno ancora di più nei prossimi anni. Delle 1100 aziende intervistate nel report di IBM il 46% ha aumentato i propri investimenti nel ramo del social business nel 2012. Il 62% indica che farà crescere notevolmente questo investimento nell’arco dei prossimi tre anni. 
  • La maggior parte dell’investimento e delle azioni di Social Business e di applicazione delle Digital Technologies è ancora – purtroppo – legato ad azioni verso l’esterno dell’azienda. E’ – infatti – ben il 67% delle aziende che applica questi principi nell’ambito del marketing e nell’ambito del customer care: si passerà dal 38% di quest’anno al 54% dei prossimi due anni.
  • Stesso discorso per il settore delle vendite che salirà dal 46% di oggi al 60% nei prossimi due anni. 
  • A fronte di questi dati emerge un’altro aspetto assolutamente significativo: i 2/3 delle organizzazioni sono assolutamente impreparate a sostenere questo cambiamento dal punto di vita culturale e organizzativo

Creare esperienze di valore con (e tra) i consumatori
Ormai tutte le aziende hanno compreso l’importanza di interagire con clienti, consumatori e persone all’interno degli spazi social e dei canali informali presenti in rete. Il 60% delle aziende lo sta facendo e il 78% pensa di farlo nei prossimi due anni. Un numero sempre più consistente – il 55% – sta poi portando ad un altro livello questo tipo di interazione stimolando recensioni e revisioni di prodotti e servizi da parte dei consumatori.

La costruzione di community è poi un altro versante molto interessante: le community dei consumatori, per sempre un numero crescente di aziende, stanno diventando la parte integrante dei processi aziendali e organizzativi. Ma le semplici aperture di canali non servono a nulla: il meccanismo e i principi alla base del Social Business son più simili a un albero da coltivare che non a un interuttore acceso/spento.
Nel report vengono identificati 4 punti chiave attorno a cui le aziende devono lavorare:

  1. Un processo di governance molto ben definito che supervisioni le operation della community
  2. Il recruiting, training e lo sviluppo di figure professionali adeguate che si occupino di fare i community manager: come sappiamo una community senza community manager non ha senso né può esistere
  3. Lo sviluppo di una massa critica di partecipanti per fare in modo che il valore della community sia generabile, significativo e applicabile.
  4. L’abilità di reagire in retta alle sfide poste dai consumatori e dalle aziende nel momento in cui si presentano nuove opportunità di business, in una frase: fare in modo che queste community siano connesse alla dimensione organizzativa e non semplicemente fini a se stesse. 
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Migliorare l’efficacia, la produttività degli spazi di lavoro
Sebbene l’esterno dell’azienda sia la parte maggiormente stressata e maggiormente soggetta a sperimentazioni e a investimenti non dobbiamo dimenticare – come per altro già sottolineato in altri recenti articoli la parte all’interno dell’impresa che può sicuramente svilupparsi altrettanto bene.

Nel report si evidenziano tre modalità fondamentali di utilizzare il Social Business all’interno dell’organizzazione:

  • Aumentare la visibilità, la trasparenza e la condivisione di conoscenza
  • Trovare e costruire expertise
  • Collaborare con l’esterno dell’organizzazione
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Infine, viene sottolineata l’importanza degli strumenti social per migliorare la possibilità di fare innovazione partecipata e di offrire un vero servizio ai consumatori e ai clienti. In che modo ? Costruendo – per esempio – community dedicate all’innovazione a alla collaborazione tra consumatori, clienti e dipendenti.

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Ma come possono le aziende integrare il social all’interno delle loro organizzazioni?
In primo luogo l’analisi va fatta per capire in che modo sia possibile evolvere i processi interni già in atto attraverso il social.
In secondo luogo è necessario capire come gestire i rischi di un approccio che va in questa direzione.
In terzo luogo il change management rimane sicuramente un punto fondamentale da smarcare e sui cui riflettere moltissimo. Il Social Business, in questo senso, richiede l’applicazione dei classici principi del change management per fare in modo che possa avere significativi impatti sul modo di percepire l’organizzazione e su come si possono modificare e influenzare cultura e performance.

Tutto il resto altrimenti – come già sottolineato a più riprese e visto nei post precedenti – rimane solo una bella filosofia.

Il report conclude poi con alcuni suggerimenti che penso sia interessante riportare:

First, develop social methods and tools to create consistent and valued customer experiences. Ask yourself, “What approaches is my organization using to listen to and engage with customers?” Another question to ask: “How do my marketing, sales and customer service functions coordinate around social initiatives?”

Second, embed social capabilities to drive workforce produc- tivity and effectiveness. To help stimulate your thinking, consider, “What areas of opportunity exist within our organiza- tion to improve collaboration through social initiatives?” Also: “How could we use social approaches to better connect with key stakeholders outside the organization?”

Third, use social approaches to accelerate innovation. Consider, “How can improved generation of ideas have the most impact across our organization?” Ask: “How could we better involve individuals outside the organization in our innovation efforts?”

Ogni tecnologia, per complessa, generica, speciale o particolare che sia, passa attraverso due cicli fondamentali. Il primo è quello di adozione (ben sintetizzato dai lavori di Rogers et alii – http://en.wikipedia.org/wiki/Technology_adoption_lifecycle ) e l’altro è quello legato all’hype: alle fasi – cioè – che uno strumento o una tecnologia particolare vivono durante la loro adozione (per riferimenti si veda, tra gli altri: http://en.wikipedia.org/wiki/Hype_cycle ).

Perché parlare di cicli di adozioni delle tecnologie qui? Il motivo è semplice.
Perché anche il social business va considerato come una tecnologia. Il mio recente articolo dedicato alla morte del Social Media Marketing – http://www.sociallearning.it/il-social-media-marketing-e-morto puntava proprio a sottolineare, tra i tanti, temi di questo tipo. In che stadio di maturità, di adozione e di hype ci troviamo rispetto al Social Business? In che modo sta cambiando il mercato? Quale sarà il futuro?

Techadoptcurve

Un recente post di Dion Hinchliffe ( http://www.zdnet.com/the-leading-indicators-of-social-business-maturity-in-2012-7000008162/ ) affronta proprio questa tematica legata all’adozione delle tecnologie social all’interno delle imprese e a come si stia muovendo il mercato in questo senso.

Alcune delle riflessioni di Dion che penso sia utile riportare:

  • 2/3 delle aziende (secondo il report di AIIM) stanno utilizzando le tecnologie social all’interno dei processi di marketing e delle relative funzioni. Chi con integrazioni complete (solo il 9%), chi con maggiore fatica e ancora in modo non completo.
  • Circa l‘80% delle aziende impiega – in qualche forma o in qualche misura – gli strumenti social 
  • Secondo uno studio di Stanford dedicato ai Social Media – http://www.gsb.stanford.edu/cldr/research/surveys/social.html – sono circa il 60% le aziende che usano questi strumenti per coinvolgere i consumatori. Fa riflettere comunque come molte di queste 49% (la maggior parte) le utilizzino in direzione del Social ADV visto come uno degli usi ancora primari e predominanti. Si possono ricollegare qui le riflessioni fatte in tema di Social Media Marketing e di come spesso questi processi siano ancorati ancora a logiche di comunicazione e di pubblicità tradizionale.
  • Il 27% delle aziende hanno – al loro interno – qualcuno che si occupa esplicitamente di Social Media e che segue questi canali, a testimonianza di un cambiamento significativo anche nel modo di lavorare
  • Aggiungo io anche un interessante serie di dati dell’ultimo report di Nielsen sul tema (Q3 late 2012 – http://blog.nielsen.com/nielsenwire/social/2012/ ) che ci fornisce una serie di utili e stimolanti informazioni relative al consumo mediale degli utenti e soprattutto – trend ancora in forte sviluppo – rispetto all’uso da mobile di tali piattaforme e al crescente mercato (anche se ormai è di fatto consolidato) delle App.

Personalmente mi trovo abbastanza d’accordo con alcune delle deduzioni con cui Dion chiude il suo post: molte delle organizzazioni hanno iniziato a sperimentare a prendere seriamente l’uso dei social media, ma si tratta – ancora e purtroppo – per moltissimi della punta di un iceberg che deve ancora completamente essere esplorato e compreso. Per molte realtà aziendali, e l’Italia è sicuramente ricca di situazioni di questo tipo, l’esplorazione e l’impiego dei social media all’interno dei processi è ancora in fase di studio e di riflessione: a un livello embrionale. Interessanti iniziative molto spesso si scontrano con problematiche e vincoli culturali, strutturali e di sviluppo.

Emanuele Quintarelli in un ottimo e recente post dedicato a come il Social può incontrare e migliorare i processi aziendali – http://www.socialenterprise.it/en/index.php/2012/12/02/socialmeetsprocesses/ – sottolinea alcuni di questi punti riprendendo anche il recente report AIIM dedicato al tema (per approfondire ne consiglio la lettura http://www.aiim.org/Research-and-Publications/Research/Industry-Watch/Social-Processes-2012 )

In questo senso ecco alcuni dati interessanti e meritevoli di riflessione che emergono dalla lettura del report di AIIM:

  • Nel 50% delle organizzazioni, i dipendenti sono incoraggiati all’uso dei social media, metà di questi però non hanno a disposizione guidelines, policy o governance sull’uso di questi strumenti. In questo senso mi permetto di aggiungere anche che a fronte di aziende che invece hanno a disposizione questi strumenti esistono comunque dei problemi del loro impiego. Strategie che non sono collegate all’organizzazione e processi di governance e di Policy che non riescono a trovare spazio perché le aziende sono ancora troppo strutturate o troppo legate a vecchie logiche consolidate che mal si adattano al mutato contesto.
  • Il 100% delle organizzazioni, nel giro di al massimo un paio di anni, utilizzerà i social media in campagne B2C per il coinvolgimento dei propri clienti. 
  • Il 64% delle organizzazioni che usano i social media non hanno processi integrati di business. Questo significa un po’ quello su cui già riflettevamo parlando di social media marketing e del futuro del social business. Il grosso del lavoro da fare – ad oggi – va in questa direzione.
  • Quasi metà (si parla del 47%) delle organizzazioni non hanno strategie di creazione o gestione dei contenuti sui social media. In questo caso il dato fa estremamente riflettere e sottolinea ancora una volta un trend che abbiamo accennato. I social media sono visti ancora come moda e come strumento che non necessità di una strategia concreta legata a dei seri obiettivi di business. Errore molto grosso considerando che il connettere una strategia di comunicazione sui social agli obiettivi è il primo step per qualunque azione si rispetti.

Alcune riflessioni interessanti a livello di implementazione di questi strumenti all’interno dei processi di business possono poi essere fatte guardando questo grafico che mostra quali funzioni aziendali solitamente sono più o meno propense nel foraggiare iniziative legate ai social media. Da notare come i valori siano molto sbilanciati verso l’esterno dell’azienda. Le funzioni interne dei vari dipartimenti aziendali sembrano tardare ulteriormente a comprendere l’innovazione e il cambiamento di scenario che è avvenuto negli ultimi anni.

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In questo senso è interessante capire anche come vengono utilizzati alcuni degli approcci legati ai social media. Come sapete mi sono occupato molto spesso di Social Media Monitoring e Brand Reputation online. Ma quante sono le aziende che si muovono in questo senso?

Questo grafico sotto riportato mostra molto bene il tipo di trend contro il quale ci si deve confrontare. Diciamo che in questo settore si delineano tre tendenze principali in ordine di difficoltà e di impatto crescente:

  • Livello 1 – Le aziende che non fanno Social Media Monitoring e Listening e che ancora, per mancanza di consapevolezza, non ascoltano quello che la rete dice di loro
  • Livello 2 – Le aziende che hanno avviato azioni di Social Media Monitoring e Listening per comprendere il sentiment e le iniziative che vengono fatte in rete. Qui chiaramente si aprono delle riflessioni per comprendere come questo viene fatto e a che livello
  • Livello 3 – Le aziende che hanno implementato un completo processo di gestione dei canali e che hanno in atto strategie per trasformare l’ascolto in qualcosa di concreto e in azioni puntuali di coinvolgimento degli utenti all’interno dei processi aziendali e organizzativi. Si tratta di realtà più complesse che hanno raggiunto uno stadio di maturità chiaramente più complesso ed elevato
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Dal mio punto di vista credo che il Social Business in Italia sia ancora molto immaturo. Sotto molti punti di vista molte delle aziende del nostro paese non hanno ancora maturato una consapevolezza chiara sulla direzione in cui andare: sia verso l’esterno sia verso l’interno. Il Social Media Marketing è visto ancora come frontiera innovativa del marketing senza che vi sia una reale connessione con i processi di business. Sempre più spazio viene dato a piccoli progetti che non impattano in modo significativo sulla relazione che le aziende stabiliscono con clienti, fornitori, partner, e con l’intero ecosistema aziendale (all’interno e all’esterno).

Le riflessioni in questa direzione rimangono ferme allo stadio di belle sperimentazioni (quando positivo) e di “nulla di fatto” (quando negativo).

In un momento economico e di mercato in cui il mondo e gli addetti al settore si trovano già nella curva discendente dell’hype e si muovono verso il plateau di produttività dell’implementazione, nel nostro paese i limiti e le sensazioni sono ancora quelle legate al picco di discussioni e di argomentazioni che foraggiano questi temi. Il rischio è quello che tutto il castello di carte crolli improvvisamente.

Il tempo dell’innovare credo sia finito. Ora arriva quello del fare.

Ma fare cosa? E da dove cominciare?

  • Iniziare con il settare degli obiettivi di business, le strategie social sono un di cui. La prima domanda da farsi è: che cosa voglio ottenere? Che cosa mi serve? Di cosa ho bisogno? E di cosa hanno bisogno i miei consumatori? In questo senso sceglierò poi se andare verso iniziative di idea management, intranet collaborative, socializzazione più ampia dei processi (HR per esempio) o via dicendo…
  • Come integrare i processi? La sfida forse più grande, vincere le resistenze le problematiche e strutturare soluzioni ad hoc per le esigenze delle organizzazioni, bisogna capire dove questi strumenti possono entrare per migliorare le logiche che sono già presenti all’interno delle organizzazioni
  • Chiedersi se tutto questo serva davvero: il Social è uno strumento non la soluzione definitiva a tutte le problematiche e a tutte le domande di un’azienda. Potrebbe essere più o meno efficace di altre strategie, potrebbe essere più o meno adatto a un determinato contesto o in un determinato momento della storia dell’organizzazione a cui ci stiamo riferendo. Non è una panacea, non è nemmeno una bacchetta magica: si tratta di uno strumento al pari di tanti altri strumenti.
  • Sperimentare a un livello di consapevolezza maggiore. Per quando molti siano ancora indietro rispetto all’adozione delle soluzioni e delle strategie social all’interno dell’azienda è bene che questi processi vengano da subito inseriti in una strategia più ampia di cambiamento dell’interno ambiente di lavoro.

Lo scorso 4 dicembre a Bologna, ho avuto l’onore di partecipare al convegno “Cooperare al presente: i social network come opportunità di business per un sistema a rete“, seminario nazionale organizzato dalle banche di credito cooperativo dell’Emilia Romagna.

Il convegno ha trattato di come le tecnologie, gli approcci e le strategie social possano contribuire al miglioramento e al rafforzamento del sistema bancario, mettendo al centro dei processi di gestione, di amministrazione e di comunicazione le persone.

Per loro caratteristica essenziale le Banche di Credito Cooperativo nascono come organizzazioni di rete, basate sugli scambi informali e formali e – soprattutto – come comunità che mettono al centro di tutto, le persone e le loro singole esperienze. Un ecosistema, quindi, dinamico che già pare essere predisposto – almeno sulla “carta” – all’evoluzione verso i ben noti scenari dell’Enterprise 2.0 e del Social Business.

Raccolgo in questo post qualche riflessione e qualche spunto interessante che è sorto durante la giornata e ne aggrego di nuovi, sperando di dare un contributo – anche modesto – nella comprensione di uno scenario che è mutato e di un mercato che si sta aprendo a nuove possibilità per tutti gli attori coinvolti: siano essi banche, consumatori, consulenti o dipendenti.

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Un buon report di Pricewaterhouse & Coopers dedicato proprio a questo tema (per maggiori informazioni si veda http://www.pwc.com/gx/en/banking-capital-markets/publications/digital-banking-survey.jhtml ) mette in evidenza alcuni aspetti davvero utili da riportare:

  •  i clienti – i consumatori – anche quelli delle banche, sono cambiati: la ripresa dello schema classico del Social Customer (di cui abbiamo ampiamente parlato e i cui riferimenti si trovano – in parte – anche qui: http://www.altimetergroup.com/2010/03/altimeter-report-the-18-use-cases-of-social-crm-the-new-rules-of-relationship-management.html ) viene evoluto verso logiche più legate al sistema bancario e al rapporto di gestione dei “nuovi clienti”. Lo schema riportato ben ricalca le nuove esigenze e i nuovi stimoli che arrivano da consumatori più attivi, più interessati; da clienti che sono più informati e più consapevoli nell’uso degli strumenti e nella ricerca del servizio di cui hanno bisogno (si veda in questa direzione la prima figura riportata). I consumatori di oggi giocano – quindi – un ruolo attivo sia nella scelta della banca sia nell’interazione che si viene a costruire con una determinata banca, ricercano un contatto costante, trasparenza, sono abituati a logiche di comunicazione immediate e informali (tipiche dei sistemi bottom-up) e si fidano molto di più della loro rete di pari rispetto a quello che viene comunicato da fonti “ufficiali”.
  • L’aumento degli appartenenti alla Generation Y e dei digital native impone cambiamenti di scenario consistenti ai quali le banche non possono essere indifferenti. Si tratta di una popolazione completamente nuova che parla un linguaggio differente e se non si è in grado di comprenderlo si rischia di essere completamente fuori mercato.
  • Nuovi player, nuovi “attacker” (come li definisce il report di PwC) cominciano ad affermarsi sul mercato mettendo in discussione e ponendo alle banche nuove sfide, nuovi stimoli, ma anche nuove opportunità per entrare in relazione con i loro consumatori e clienti. In questo senso basti pensare ad alcuni esempi come il mobile payment, nuovi formati e nuove tecnologie per le transazioni, nuove realtà che si affacciano in modo innovativo su questo mercato. Un esempio su tutti? Square: https://squareup.com/
  • L’utilizzo e l’applicazione di strumenti mobile e degli smartphone cambia la modalità di accesso all’informazione e ai servizi delle banche. Il dato si incrocia anche con il secondo punto di riflessione: i cosiddetti “nativi digitali” sono anche maggiormente portati, per loro natura e per loro attitudine (circa il 70% di loro va in questa direzione), all’accesso all’informazione tramite questi sistemi.
  • Un altro dato molto interessante è relativo al quanto potrebbero essere potenzialmente apprezzate alcune nuove tecnologie digitali nell’esperienza d’uso della banca da parte dei consumatori. Nello specifico particolarmente degna di nota risulta essere la riflessione su come un numero elevato di consumatori e di clienti vedrebbe in modo molto positivo l’integrazione con le piattaforme più note di social networking (nel grafico aggregato, che riporto a titolo di completezza e chiarezza, manca – per ovvi motivi – il dato della Cina)
  • A livello economico risulta utile anche riflettere su come i consumatori e i clienti delle banche sarebbero disposti a pagare un prezzo maggiore a fronte di servizi maggiormente integrati, innovativi e al “passo coi tempi”
  • Le banche dovranno fronteggiare in modo sempre più serio l’avvento – come già anticipato – di nuovi player, si stima che la battaglia più grande sarà giocata nel campo del Customer Care e del servizio al cliente, in questo senso si possono avanzare serie riflessioni anche nell’ambito del Social CRM e integrazioni più spinte (come già si sta iniziando a sperimentare oltreoceano) tra social media, interno ed esterno dell’organizzazione
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Un altro report molto interessante sul settore è quello di Accenture ( http://www.accenture.com/us-en/Pages/insight-banking-2016-next-generation-banking-summary.aspx ) che avanza considerazioni circa l’implementazione e l’utilizzo di tecnologie (non soltanto social) all’interno dell’azienda e nell’ambito del coinvolgimento sempre più efficace dei consumatori: RFID, Mobile Payment, Augmented Reality sono solo alcuni dei riferimenti che si possono incontrare, a testimonianza che il mondo del banking si sta muovendo in una direzione molto seria e ben precisa. Questo perlomeno per quanto riguarda i grossi player.

In questo senso risulta interessante lo schema riportato tratto dal report che mostra l’evoluzione delle banche nei prossimi 5-10 anni verso scenari collaborativi che fanno davvero riflettere
.

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Non solo verso l’estero però!

Anzi: come sottolinea anche McKinsey (si veda il grafico riportato) è soprattutto nel settore della collaborazione interna che è possibile aprire nuovi scenari e nuove prospettive di collaborazione verso l’interno dell’organizzazione. Un’applicazione molto interessante di questi principi è raccontata molto bene da Marco Minghetti in un suo articolo sul Sole 24 Ore in cui parla del caso Banca Ifis – http://marcominghetti.nova100.ilsole24ore.com/2012/11/hr-e-banking-20-il-caso-di-banca-ifis.html si tratta di una interessantissima sperimentazione in un contesto tutto italiano, che merita sicuramente un’attenzione particolare.

Degna di nota è la riflessione riportata

[…]
L’acquisizione di nuove aziende ci ha spinto, prima di tutto, a rivedere il “modello organizzativo” di riferimento, passando da un’organizzazione classica di tipo funzionale ad un modello di tipo “matriciale” in cui vi sono delle Business Unit a cui viene dato l’obiettivo di essere le “locomotive” della generazione del valore aziendale, supportate dalle funzioni di Staff che, “intersecando” le BU, si pongono l’obiettivo di supportarle, generando sinergia, efficienza, velocità. L’utilizzo della metafora della “matrice” è propedeutica al fatto di creare una rete di relazioni interne al Gruppo più chiare e funzionali al raggiungimento degli obiettivi specifici di ogni BU.
[…]

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Conclusioni e qualche riflessione personale

  • Esiste un grande potenziale per le banche (non solo quelle di Credito Cooperativo) per sfruttare queste tecnologie all’interno dei processi organizzativi per migliorare: la collaborazione interna, l’innovazione e il servizio al cliente.
  • Rispetto al mio personale intervento all’interno della giornata studio (dedicato a come i meccanismi HR e delle formazione delle banche) c’è da sottolineare l’ampia prospettiva possibile nell’effettuare un serio salto di qualità in questa direzione. Tuttavia rimangono molte perplessità sull’adozione di queste nuove logiche in ambito learning/formazione. Le resistenze che si incontrano (non solo in questo settore) sono molte e ampie e non sempre è possibile riuscire a fare innovazione su questi temi a partire dal contesto di riferimento. La sfida resta comunque aperta.
  • Il tema è sempre – o quasi sempre – un tema di cambiamento culturale e di mentalità. La tecnologia rappresenta un di cui, senza un cambiamento di mentalità di frame, di riflessione seria su questi temi è impossibile fare qualcosa.
  • La cultura e la formazione (o informazione ancora per i primi livelli) su questi temi non basta! Il rischio è quello sempre di rinchiudersi in casi, best practice, modelli che arrivano da settori che si giustificano come troppo lontani o troppo differenti dai nostri. E’ un caso tipico. Cosa ci insegna questo? Ci insegna che dopo la cultura, l’informazione, la teoria deve venire la pratica: il fare.
  • Il tema della valutazione – non solo della formazione – ma in generale degli impatti di queste tecnologie sull’impresa è sempre molto caldo e molto sentito. Non sempre è facile e immediato calcolare gli impatti (o il ROI se volete visto l’argomento), anche questo richiede pazienza, riflessioni ponderate e la capacità di guardare al futuro. Per nuovi fenomeni servono nuovi occhi, per nuovi contesti servono nuovi strumenti di valutazione.
  • I Social – l’ho detto e lo ripeto – non sono una panacea, non sono il Santo Graal della consulenza, sono strumenti: come tutti gli strumenti devono migliorare un contesto e devono aiutare a raggiungere un fine: quale? Qual è il fine? Il fine sono le persone. Gli strumenti servono a mettere le persone in grado di lavorare meglio, con più efficenza ed efficacia e …perché no, con una maggiore soddisfazione.

Sono diversi anni che mi occupo di Social Media Marketing, Social Media Monitoring, Listening, Brand Reputation e via dicendo. Sempre sigle diverse, sempre lo stesso concetto: sfruttare le reti e i meccanismi informali per aumentare la partecipazione degli utenti e per raggiungere nuovo pubblico.

Ma perché dovrebbe essere morto? E perché ho voluto scrivere questo post provocatorio? Il motivo è molto semplice: l’idea di base è stata quella di condividere alcune riflessioni che sono nate da alcune discussioni avvenute nei giorni scorsi con amici e colleghi su questi temi e provare a trovare motivazioni a supporto di una tesi fondamentale: il mercato, i consumatori e le aziende sono cambiate. E’ tempo di cambiare anche il nostro punto di vista evolvendo quello che già conosciamo. 

Cerchiamo di analizzare alcuni dati e di capire per quale motivo la situazione sta cambiando e in che direzione.

Cover

Gli influencer non esistono
Un recente articolo, molto interessante, di Micheal Wu pubblicato su Techcrunch – http://techcrunch.com/2012/11/09/can-social-media-influence-really-be-measured/ sottolinea una problematica ben nota a chi si occupa di questi temi e a chi è abituato anche a utilizzare tool per l’analisi della web reputation di fascia elevata (vedi Sysomos o Radian6).Tutti questi strumenti sembrano promettere il Santo Graal del Social Media Marketing: la ricerca, il tracciamento – e il successivo coinvolgimento quindi – degli influencer online.
Alcune riflessioni in questa direzione ci possono portare in fretta a ragionare su:

  • Le problematiche di misurazione degli influencer: le metriche sono spesso confuse, non chiare e non esistono – come sottolinea anche Wu nell’articolo – metodologie di validazione di quello che stiamo dicendo. Un modo, cioè, di stabilire effettivamente chi influenza chi rispetto a un modello, a un metro di paragone esterno ed efficace. Un esempio su tutti può essere fatto rispetto alla misura dell’influenza online che da Klout la cui attendibilità è ben chiara ad un occhio esperto e consapevole
  • In base a cosa stabiliamo un influencer? In base al numero di follower? In base al suo reach totale? Molto bene: si legga poco sotto il secondo paragrafo di questa riflessione. Forse possiamo stabilirlo in base al numero di Retweet e di Share per esempio che ottiene? Una buona metrica no? Così sembrerebbe… Date un’occhiata a questo articolo che sottolinea come solo una piccola percentuale di utenti che fanno RT legga effettivamente il contenuto rilanciato: http://blog.hubspot.com/blog/tabid/6307/bid/33815/New-Data-Indicates-Twitter-Users-Don-t-Always-Click-the-Links-They-Retweet-INFOGRAPHIC.aspx
    E’ chiaro quindi che ci troviamo di fronte a un problema di tecniche di misurazione, ma forse ancora prima a un problema legato al cosa stiamo effettivamente misurando.
  • Influencer rispetto a cosa? Manca anche una modalità di tracciamento a posteriori dell’influenza online. Come posso sapere se un determinato messaggio – e proprio quel messaggio – ha dato il via a un comportamento di consumo o a un qualunque comportamento? In questa direzione va la psicologia del comportamento e della decisione che da anni studia strategie e soluzioni per orientare il comportamento non prevedibile degli individui. La complessità della natura umana, ma anche degli stessi processi alla base della motivazione della decisione (ben spiegati – per esempio – nell’ottimo libro Drive di Daniel Pink) rende difficilmente applicabile il concetto di influencer in modo differente da quello di testimonial nell’advertising classico…
  • Influencer di cosa? Possiamo considerare che siano presenti influencer specifici rispetto a un tipo di settore particolare? Possiamo stabilire una misura concreta di questa influenza?

Più che di influencer in rete, quindi, forse si potrebbe parlare di un “pubblico interessato” di persone che in modo attivo e continuativo possono si occupano di un determinato tema divenendo esperti di quel tema, ma l’azione di coinvolgimento di queste persone, più che per spostare dei comportamenti degli altri utenti sarebbe interessante in un’ottica più matura, più completa: più vicina a quelle che sono le logiche del social business. Una logica di co-creazione in cui una volta che ho identificato gli utenti che si occupano del mio tema, del mio servizio del mio prodotto li coinvolgo all’interno del mio network al fine di migliorare il servizio al cliente, la capacità di fare innovazione, il mio prodotto o il mio servizio…

Il numero di follower o di like? Aria fritta
Non molto tempo fa suscitò molto scalpore la notizia di Marco Camisani Calzolari che riuscì a incrementare i suoli follower su Twitter ad un livello incredibile semplicemente acquistandoli ( http://www.repubblica.it/economia/2012/06/08/news/twitter_falsi_follower-36751066/ ). In questo senso non sono pochi i servizi che consentono di fare compravendita online di follower, di like e di aumentare la propria fan base. Ma a cosa serve tutto questo? Assolutamente a niente!
Mi capita spesso di confrontarmi con aziende o studenti – nei miei corsi – che mi domandano come aumentare i like di una pagina e/o i follower propri o di un brand su Twitter. Ebbene: il concetto è davvero sbagliato in partenza. Il numero di follower o di fan su Facebook, come su qualunque altra piattaforma, è solo una delle metriche che mostrano un ingaggio significativo e ben poco ci dicono dell’efficacia e di quanto quella pagina stia funzionando o meno nella creazione di un vero coinvolgimento nei confronti degli utenti. Il numero dei follower resta simile allo share televisivo, alla tiratura di un giornale: una modalità di ragionare ancora vecchio stile ancora con logiche classiche di pubblicità one 2 many. Ma con una postilla. Diamo un’occhiata a questo interessante post di Tech Crunch per esempio: http://techcrunch.com/2012/11/16/facebook-has-decreased-page-reach-and-heres-why/
E a questa tabella che mostra in un paio di mesi come è diminuito il reach dei contenuti condivisi su una pagina Facebook:

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Vien naturale domandarsi: a che cosa serve avere 1 milione di follower se poi il mio pubblico resta una minima parte di questi? Che cosa cambia da un passaggio in televisione? Nulla apparentemente…
Accanto a tutto questo va ovviamente aggiunto il fatto che se non vengono fatte iniziative specifiche sui fan e sulla propria customer base è assolutamente inutile qualunque successiva riflessione. Vedremo più avanti nel post in che senso.

Il Social ADV e il Customer Engagament? L’inizio della fine
In un recente post Emanuele Quintarelli riporta alcuni interessanti dati di ricerca sull’andamento di Facebook rispetto all’efficacia di coinvolgere e di arrivare ai consumatori orientandone la conversazione. I dati che vengono illustrati sono abbastanza preoccupanti: http://www.socialenterprise.it/index.php/2012/07/28/perche-facebook-non-e-una-social-media-strategy/

  • La motivazione che spinge le persone a essere sui social network è in minima parte (12%) legata al mantenimento o allo stabilire una relazione con i brand e con le aziende.
  • Le brand community risultano una fonte molto molto migliore per la risoluzione dei problemi e per cercare informazioni che interessano grazie all’aiuto di propri pari.
  • E’ molto più facile che utenti ingaggiati all’interno di brand community si trasformino in brand ambassador e advocate all’interno di canali social in modo spontaneo.
  • Gli Analytics sono completamente inutili se non uniti a strumenti di intelligence e ad azioni puntuali (vedi anche il processo di monitoring in questo senso). Il monitoraggio, la misurazione l’analisi servono nella misura in cui portano dei risultati concreti sui benefici dell’organizzazione.

Credo che il dato più interessante in questo caso – nell’intero post di Emanuele – sia quello che riporta come agli utenti interessi davvero poco quello che dicono i brand di loro in rete e su Facebook ma piuttosto le conversazioni tra altri utenti come loro.

Nella stessa direzione di prima vanno alcune riflessioni condivise recentemente sul blog di Young Digital Lab in un post dedicato proprio al tema: http://www.youngdigitallab.com/facebook/facebook-social-network/. Nel post si parla di alcuni dati interessanti tra cui quello che sottolinea come solo il 15% (se non meno) della nostra fan base legga effettivamente i post che condividiamo nelle nostre pagine a questo dato va ovviamente agganciato il fatto che se solo il 15% dei nostri fan legge il nostro contenuto sarà – ovviamente – ancora minore la percentuale di utenti ingaggiati. Potete facilmente dedurre da soli che il quadro che ne esce è tutt’altro che confortante. Ancora una volta stiamo usando vecchie metriche (reach, follower, diffusione del contenuto) che sono quelle proprie di un advertising e di un marketing non troppo dissimile da quello tradizionale a cui siamo stati abituati. 

In questa direzione molto significativo risulta il commento che viene riportato:

“We post seven days a week, that would be about $14,000 per week, $56,000 per month… a grand total of $672,000 for what we got for free before Facebook started turning the traffic spigot down.” 

La riflessione riportata viene dal blog Dangerous Mind – http://dangerousminds.net/comments/facebook_i_want_my_friends_back e sottolinea una problematica molto consistente con la quale i brand si stanno confrontando, ovverosia: il costo completo che dovrebbero sostenere – tramite l’ultima novità dei promoted post – per ingaggiare e far arrivare il proprio messaggio a tutta la customer base. Interessante non trovate? Pagare cifre altissime per raggiungere persone che – in teoria – dovrebbero essere interessate al nostro messaggio. Pagare per “riprendere utenti che dovrebbero essere nostri”…

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Se il Social ADV è da un lato un potentissimo strumento per aumentare la fan base, per attirare nuovo pubblico o per spingere i contenuti sulla timeline degli utenti, risulta altrettanto interessante notare come il processo stia rassomigliando sempre di più a un processo di pubblicità tradizionale e Facebook stessa – spinta dall’esigenza di monetizzare – sia costretta a risultare sempre più invasiva e pervasiva rispetto a questo tema: non è raro trovare articoli di lamentela e denunce dei comportamenti troppo legati all’ADV che il noto SN sta assumendo. Cosa significa? Ancora una volta la logica è quella del marketing e della pubblicità tradizionale: più ne raggiungiamo meglio è.
In questo senso si vedano anche i dati di questa ricerca sul tema del coinvolgimento degli utenti all’interno del noto SNS – http://adage.com/article/digitalnext/things-mark-zuckerberg-cmo/229293/
Anche alcuni articoli di Forrester – http://blogs.forrester.com/nate_elliott/12-05-14-facebook_needs_to_take_marketing_seriously – di qualche mese fa e la nota polemica che era scaturita dalle lamentele di General Motors sul fatto che l’ADV su queste piattaforme non funzionasse come avrebbe dovuto – http://online.wsj.com/article/SB10001424052702304192704577406394017764460.html

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Quale efficacia per il web monitoring?
Più e più volte mi sono occupato, in questa e in altre sedi di parlare di social media listening, web monitoring e brand reputation. L’importanza dell’ascolto, lo abbiamo detto in più occasioni è chiave e fondamentale ma bisogna anche essere consapevoli che una volta maturata questa comprensione necessario fare dell’altro. Troppo spesso in questi anni ho condotto progetti di web reputation e monitoring che sono stati apprezzati ma che si sono esauriti nello spazio di un report. Fare ascolto in rete, comprendere le esigenze dei consumatori, intercettare linee di tendenza, trend e comprendere come si orienta il sentiment delle discussioni online è fondamentale, è vero: ma è solo il primo passo, il primo di un lungo cammino che deve portare le aziende ad evolversi ad ascoltare non solo i consumatori ma anche i propri dipendenti, a rimettere le persone al centro dello scambio e della produzione del valore.
Troppe troppe volte ho visto analisi di web reputation condotte come analisi di mercato. Quest
o processo di monitoring, di ascolto, di comprensione della propria reputazione online è efficace nella misura in cui è connesso a un profondo processo di trasformazione e funziona nel momento in cui si connette intimamente con quelle che sono le specifiche esigenze della singola azienda e organizzazione (esigenze che sono sempre diverse, sempre variegate)

E quindi? Adesso cosa si fa?
Si ricomincia da capo. Si ricomincia considerando il Social non tanto come il punto di arrivo ma come uno strumento al pari di tanti, molteplici, strumenti che possono servire alle aziende, non dissimile da tante altre strategie da tante altre pratiche. In questo senso mi sembra interessante considerare che il Social funziona – e lo testimoniano i veri casi di successo internazionali, nella misura in cui è profondamente connesso ai processi interni ed esterni dell’azienda. Il Social, il fare social media marketing nel caso specifico non è il cambiamento né da risultati. Il vero cambiamento è dentro e fuori l’azienda verso modelli nuovi, più efficaci, più efficienti in grado di mettere non tanto il consumatore ma le persone al centro di tutti i processi (siano essi esterni, siano essi interni).
Più in sintesi e nel tentativo di fissare alcun conclusioni di una riflessione che è ancora in fieri per quanto mi riguarda:

  • E’ necessario collegare i social media a processi aziendali e organizzativi strutturati e fare in modo che non divengano l’obiettivo, ma lo strumento, non il fine ma il mezzo
  • L’obiettivo è quello di aumentare il valore dell’organizzazione, rendere i processi più efficaci ed efficienti e mettere al centro gli utenti, le persone
  • Il Social Media Monitoring, funziona nella misura in cui è legato a precisi obiettivi di business, misurabili e concreti e viene visto non come il punto di arrivo ma come il punto di partenza di una strategia a 360° sui social media
  • KPI e metriche di questo mondo ( come quelle che elabora Edelman da anni a questa parte – http://www.edelmandigital.com/2011/08/30/how-to-measure-social-media-pr/ ) per essere efficaci devono essere collegate a fattori concreti all’interno dell’organizzazione. Metriche come il numero di follower, il numero di condivisioni, il numero di commenti e il coinvolgimento degli utenti sono inutili se non collegate a quello che ci sta dietro: risoluzione di problemi, miglioramento del processo di innovazione, aumento dell’efficacia organizzativa e via dicendo.
  • Offrire un’esperienza integrata che punti non tanto su tecniche specifiche di un singolo canale quanto su visioni più ampie, più precise più di dettaglio che abbiano al centro appunto non la preoccupazione della scelta della piattaforma più adatta ma agli obiettivi e al cosa si vuole ottenere
  • Uscire dall’idea totalizzante del Social Network: potrebbe non essere la scelta migliore, potrebbe non essere quella adeguata, in questo senso ormai tutti sono su Facebook, tutti si stanno muovendo senza consapevolezza (o con livelli più o meno diversi) nella creazione di pagine, nella costruzione di fan base, nella mobilitazione di risorse. Senza aver compreso né i cambiamenti che sono avvenuti, né quello che sta succedendo e senza aver chiara nemmeno la direzione del mercato.
  • Creare ambienti ad hoc: la creazione di brand community e di ambienti dedicati al Social CRM all’innovazione alla co-costruzione con i dipendenti e con i clienti è sicuramente molto più interessante. Questo consente – sebbene a fronte di un investimento iniziale molto superiore – di portarsi dietro una serie incredibile di vantaggi: customer base assicurata, fidelizzazione molto superiore degli utenti, analitche realizzabili ad hoc, ingaggio superiore degli utenti e via dicendo…
  • Progettare e realizzare esperienze più che canali. Esperienze che mettano al centro le persone e le loro esigenze. Poco importa la strategia o il canale scelto se si ha in mente questo obiettivo chiaro.

Prima del Customer Engagement c’è l’Engagement, prima dell’Engagement vengono i Consumatori, prima ancora dei Consumatori ci sono – poi – le Persone.

Nota a margine
Il tono volutamente polemico e provocatorio di questo post vuole semplicemente delineare che esattamente come 4/5 anni fa queste soluzioni hanno rappresentato il futuro, ora il mercato è cambiato: è maturo per nuovi approcci, per nuove idee, per nuove soluzioni. Questi approcci funzioneranno sicuramente ancora per un po’, ma la vera domanda restai, a mio avviso e per chi si occupa di questi temi: what’s next?
Francamente non ho visto particolare innovazione in questo settore da 2/3 anni a questa parte e sappiamo che chi sopravvive non è quello più forte o più grosso ma quello che sa meglio adattarsi a circostanze che – in questi ambienti molto più che in altri – mutano alla velocità della luce.