Archives For November 30, 1999

Il buon Jermiah Owyang ha recentemente rilasciato un report molto interessante sulla Collaborative Economy scritto per Altimiter che trovate anche sul suo blog ufficiale ( http://www.web-strategist.com/blog/2013/06/04/report-corporations-must-join-the-collaborative-economy/ ). Il report risulta interessante per poter comprendere la trasformazione in atto nelle aziende nell’ultimo periodo.
Quella a cui stiamo assistendo è una vera e propria rivoluzione economica, culturale, sociale e tecnologica che sta portando le persone verso un nuovo modo di fare impresa e di costruire il proprio business.

Vediamo di analizzare i principali concetti che emergono dall’analisi:

  • il prossimo futuro del Social Business riguarda la collaborative economy (o perlomeno questa potrebbe essere una delle direzioni).
  • Le persone stanno cominciando in maniera sempre più significativa a condividere beni e servizi, viene portato l’esempio del car sharing come esemplificativo.
  • Si è passati dalla logica dei social media in cui il driver fondamentale erano le conversazioni e la voce dei consumatori in rete a un mondo in cui non è tanto più importante quello che si dice quanto quello che si riesce a fare insieme.

Ma che cos’è la Collaborative Economy?
Come si legge nel report di Jeremiah:

The Collaborative Economy is an economic model where ownership and access are shared between corporations, startups, and people. This results in market efficiencies that bear new products, services, and business growth.

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Esistono alcuni fattori che hanno contribuito (e stanno tutt’ora contribuendo) allo sviluppo di una collaborative economy.

  • in primo luogo fattori di tipo demografico e societario
  • fattori sociali che aumentano l’interesse delle persone nel connettersi e nel condividere, in questo senso non solo informazioni ma anche veri e propri beni materiali (sulla condivisione delle informazioni e la naturale tendenza delle persone nel connettersi si ritrovano le riflessioni legate al Social Customer). In sostanza e riassumendo in una frase potremmo dire che si è passati dal parlare al “fare”.
  • tendenza a una maggiore dimensione comunitarie e di altruismo (come mostrato da una recente survey della UCLA sulle nuove generazioni e sulla loro naturale tendenza verso la comunicazione e la condivisione)
  • la crisi economica da un lato e il crollo di schemi classici consolidati unitamente allo spostamento di capitali verso l’industria digitale rafforzano queste dinamiche e generano nuove modalità di lavoro (che si stanno ancora consolidando completamente)
  • la tecnologia sta giocando un ruolo dominante e cruciale
  • l’affermarsi molto rapido di piattaforme di sharing e di collaborazione (rivolte ai servizi e ai prodotti più disparati) sposta gli equilibri di gestione delle risorse.

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Quali suggerimenti quindi per le imprese del domani che vogliano imbracciare questo cambiamento?

  • evolvere la propria azienda verso una logica company as service, spostandosi sempre di più verso un’economia di servizio e non di prodotto
  • realizzazione di brand community che stimolino la cogenerazione di valore per tutto l’ecosistema aziendale e che siano abilitanti per l’instaurazione di logiche p2p di scambio e di buy&sell
  • lasciare che i dipendenti e i clienti esterni realizzino le loro applicazioni o prodotti a partire dalla community e dal contesto predisposto dall’azienda.

In generale si tratta di un trend estremamente interessante che sicuramente merita di essere tenuto d’occhio da vicino ma che, per sua natura, credo possa rappresentare una dinamica ancora difficile da esplorare per le realtà e le organizzazioni aziendali.
In un contesto come quello italiano, dove innovazioni digitali e nuovi trend tendono ad affermarsi con qualche anno di ritardo è bene “andarci con i piedi di piombo” prima di affermare l’emersione di un nuovo trend in grado di rivoluzionare del tutto il nostro modo di fare impresa.

E’ pur vero che il passaggio verso una collaborative economy non solo è auspicabile ma diviene addirittura di importanza strategica elevata se pensiamo allo stato attuale dell’economia e a come si stanno muovendo i capitali.
In ogni caso un passaggio as is e completo verso una collaborative economy à difficilmente sostenibile per un contesto come il nostro.
In questo senso è necessario prima maturare consapevolezza ed esperienza nell’adozione di strategie, strumenti e approcci digital e social che consentano alle persone di imparare a lavorare assieme, di co-generare in modo collaborativo valore per tutto l’ecosistema aziendale.

La strada per la trasformazione digitale dell’intero ecosistema aziendale è ancora lunga, le sfide – soprattutto nel nostro paese – da cogliere sono molteplici, e solo chi saprà unire il giusto mix di competenze, visione, capacità di execution e di creatività riuscirà a fare (e far fare) un salto di qualità non indifferente e si conquisterà il mercato.

Di recente, leggendo il buon libro Flat Army: Creating a connected and Engaged organization mi è capitato di approfondire il concetto di “Employee Engagement”, del coinvolgimento – cioè – esteso dei dipendenti interni alla propria organizzazione al fine di massimizzare il valore generato all’interno delle organizzazioni di oggi.
Nel primo capitolo del volume Dan Pontefract prende in esame alcuni miti e alcune statistiche legate all’ingaggio corretto della propria forza lavoro, evidenziando però anche i benefici di un corretto ingaggio della forza lavoro per generare effettivo valore economico (ma non solo) all’interno dell’impresa.

The ability to engage employees, to make them work with our business, is going to be one of the greatest organizational battles of the coming ten years

Con questa citazione di Mike Johnson si vuole sottolineare proprio l’importanza che negli ultimi anni ha assunto un concetto come quello legato – appunto – al coinvolgimento dei propri dipendenti. Per le aziende di oggi si tratta di intraprendere una sfida che riguarda un cambiamento organizzativo, culturale e sociale. Un cambiamento nello stile di leadership – che oggi più che mai – mostra la propria inefficacia a fronte di modelli organizzativi e comportamentali completamente nuovi. Modelli che emergono grazie alle nuove tecnologie e attraverso questi strumenti (similmente a quanto scrive Euan Semple nel suo libro “Organizations Don’t Tweet People Do”).
In questa stessa direzione un recente articolo di Harvard Business Review mostra la fondamentale differenza tra un vero leader e un “wannabe” sottolineando anche gli errori da non fare e il percorso da seguire per ispirare i propri collaboratori (ne suggerisco la lettura qui: http://blogs.hbr.org/haque/2013/07/how_and_why_to_be_a_leader_not.html ).

Vediamo alcuni dati che sottolineano in modo più consistente quello che stiamo dicendo:

  • Gallup – una global human capital consulting firm – ha mostrato come negli ultimi 10 anni non si siano evolute le dinamiche organizzative e il disingaggio dei dipendenti sia rimasto stanziale (parliamo di 70% circa di persone che non sono ingaggiate nel loro lavoro quotidiano)
  • Una survey del 2011 condotta in oltre 120 paesi del mondo su oltre 47’000 rispondenti mostra dati ancora meno incoraggianti: è solo l’11% dei lavoratori di tutto il mondo ad essere ingaggiata con quello che sta attualmente facendo.
  • Sempre la stessa survey mostra come ben il 27% sia attivamente non ingaggiata e veda in modo negativo il proprio posto di lavoro ostacolando addirittura l’operatività quotidiana.
  • Blessing White arriva a risultati simili: il 19% delle persone non sono ingaggiate, il 52% lo è solo moderatamente, mentre il 29% è completamente coinvolto.
  • I leader delle organizzazioni stanno adottando sistemi e logiche inadatte a rispondere a queste sfide
  • I dipendenti che non sono engaged hanno minori possibilità di essere più produttivi e tenderanno a lasciare più in fretta e più facilmente l’azienda.
  • Problemi – inevitabilmente anche per i talenti e per le giovani generazioni (Millenials e Generation X) che nel 37% dei casi abbandonano il posto di lavoro entro i 3 anni dall’assunzione.
  • Scostamento tra leadership e organizzazione reale che viene mostrato anche da una survey di Hay Group: a fronte del 63% dei CEO che sono effettivamente in grado di modificare lo status quo è solo il 38% ad esserne consapevole.
  • Il ruolo dell’HR e delle politiche HR è ancora meno legato al cambiamento e ancora più fautore del mantenimento dello status quo.

Accanto a tutto questo ci si aggiunga che gli stessi strumenti classici di misurazione, ingaggio, tracciamento dell’efficacia e valutazione sono completamente inefficaci e mostrano la loro non concretezza. (Si veda ad esempio questo articolo sempre di Harvard Business Review – http://hbr.org/2013/07/the-network-secrets-of-great-change-agents/ar/1 ) che sottolinea come a fronte di un’organizzazione formale, gerarchica, strutturata, la realtà sia ben differente e ben diversa da quella che si immagina. Talenti emergono al di là dell’organizzazione e richiedono lo spazio che meritano e che – naturalmente – altre figure aziendali gli riconoscono.

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Una situazione tutt’altro che rosea su cui forse è bene e significativo riflettere.
Per quanto riguarda l’engagement possiamo sommariamente definirlo come viene definito da Pontefract all’interno del volume, senza in questo caso formalizzarsi troppo sulle definizioni semantiche:

Employee Engagement: the state in which there is reciprocal trust between the employee and leadership to do what’s right however, whenever and with whomever.

Ma perché tanta insistenza sull’engagement degli utenti e dei dipendenti? E quali vantaggi porta – in concreto all’azienda – questa direzione?

  • Una organizzazione altamente ingaggiata ha la possibilità di ridurre il suo turnover dell’87% diventando più efficace di circa il 20%
  • Le aziende che hanno una forza lavoro motivata e ingaggiata migliorano il fatturato del 19%, mentre quelle che non lo sono lo riducono del 32%.
  • Un dipendente ingaggiato ha maggiori possibilità (e ricerca proattivamente) di rendere soddisfatto il consumatore finale (10%), aumentare il suo livello di produttività (27%), stabilire migliori relazioni lavorative (13%).
  • Oltre il 66% dei manager che ha una forza lavoro ingaggiata dichiara di avere reali e concreti benefici nell’aumento della produttività quotidiana.
  • Un maggiore e più esteso coinvolgimento dei dipendenti porta anche a una riduzione degli incidenti del 50%.
  • Le compagnie con personale maggiormente motivato hanno un margine operativo – in media – di circa il 6% più elevato

Diviene dunque importante per le aziende di oggi (e di domani) riflettere seriamente e sinceramente su questi temi, domandandosi – per i manager, i CEO, i leader e anche gli “wannabe” – verso quale direzione stia andando la propria realtà.
I miei dipendenti sono motivati? I miei collaboratori sono coinvolti sinceramente nel mio progetto? Il mio progetto è un NOSTRO progetto? Al di là degli incentivi economici sono presenti pratiche strategie per l’ingaggio dei miei dipendenti?

Le riflessioni che ormai da qualche anno ci accompagnano sul tema del social business sono anche rivolte in questa direzione, verso la creazione di un’azienda più semplice, più efficace più resiliente, in un una frase: più a misura d’uomo.

Uno dei trend dell’ultimo periodo – portato alla luce anche da prestigiose riviste e autorevoli centri internazionali – è quello che vede l’affermazione di una nuova figura aziendale. Definita CDO: Chief Digital Officer, in sostituzione, o meglio in integrazione, di quelle già note come il CMO (Chief Marketing Officer) o CIO (Chief Innovation Officer).
Ma chi è il Chief Digital Officer? Quali mansioni ha? Quale ruolo svolge in azienda e perché dovrebbe essere considerato cosi importante al giorno d’oggi?

Una definizione delle mansioni del CDO viene data da Perry Hewitt sul sito dell’Università di Harvard.
A proposito del ruolo del CDO si scrive come egli debba essere in grado di realizzare e di occuparsi di:

“comprehensive digital strategy to meet needs in communications, engagement, and transaction, as well as exploring ways that organizations transform through and for their digital constituencies.”

In sostanza la profonda trasformazione digitale e social che si sta (e che si è già in parte) affermando all’interno delle aziende richiede una rivisitazione dei ruoli classici e l’esigenza di elaborare nuove strategie di risposta nei confronti di un contesto che è mutato non solo dal punto di vista del mercato esterno all’azienda, ma anche – e soprattutto – verso l’interno, in cui, processi, strategie e culture devono lavorare in modo sincrono, massimizzando il valore co-creato all’interno di tutto l’ecosistema organizzativo (stakeholder, partner, clienti, dipendenti, fornitori…).

Ma perché questo ruolo è così importante per le organizzazioni di oggi?
Cerchiamo di identificare alcuni punti chiave:

  • La rapida diffusione dei social media ha avviato il processo di trasformazione del consumatore verso un nuovo modello: il Social Customer, un consumatore più informato, più esigente che si aspetta in tempo reale di avere risposta alle proprie richieste e di poter acquistare beni e servizi da qualunque posto in qualunque momento.
  • La diffusione – parallelamente – di device mobili (e il paradigma SoLoMo) ha accelerato ancora di più questo processo rendendolo ancora più evidente.
  • Negli ultimi 24 mesi la richiesta di CDO nella sola Europa è aumentata di tre volte. Negli stati uniti la medesima crescita si è vista nel medesimo  Questo ruolo che “siede alla destra” del CEO rappresenta un ruolo estremamente funzionale e strategico per la progettazione e la realizzazione di nuove strategie di comunicazione, di pianificazione e di ingaggio dei consumatori.
  • Non si tratta semplicemente di uno strategist o di un consulente che abbia un particolare acume legato ai social media ma di un vero e proprio senior manager (o executive) che sia in grado di prendere decisioni concrete – partendo da obiettivi di business ben specifici – in grado di influenzare la direzione della company.
  • Che sia solo una moda destinata a passare in breve tempo? La trasformazione alla quale stiamo assistendo non è passeggera, a differenza di altri trend degli anni passati (si veda per esempio la figura del Chief E-Commerce Officer) in questo caso – come testimoniato anche da questa intervista: http://www.russellreynolds.com/content/leadership-and-talent-rise-of-chief-digital-officer-CDO – i cambiamenti sono troppo evidenti e troppo avanzati perché si possa semplicemente parlare di fenomeno passeggero. Alcune statistiche (dell’anno scorso, ma comunque interessanti) sottolineano in modo massiccio i cambiamenti di cui stiamo parlando:

In March 2011, Apple announced it had sold its 100 millionth iPhone. As of July 2011, Google’s Android Operating System was on 130 million devices.
In July 2011, it was reported that the Apple Retail Store is handling 24 million app downloads per day, and the Android Market is handling 17 million app downloads a day.
As of September 2011, there were more than 800 million users on Facebook. On average, Facebook users install over 20 million apps every day. There are more than 350 million active users currently accessing Facebook through mobile devices
In April 2011, it was announced that more than 200 million people had signed up on Twitter, while, in September 2011, it was revealed that there were 100 million active monthly users.
In 2010, global revenue for the virtual goods industry was over $7 billion, according to Ted Sorom, CEO of Risty, a virtual currency platform.

Ray Wang e Esteban Kolsky sono tornati su questo tema nella loro recente presentazione al Social Business Forum 2013. Sottolineando alcuni aspetti fondamentali di interazione tra questi differenti livelli.

Nello specifico Ray Wang ( http://blog.softwareinsider.org/2013/03/06/trends-seven-priorities-in-the-shift-from-cmo-to-chief-digital-officer/ ) identifica anche 7 azioni e 7 priorità specifiche nell’evoluzione verso questo modello.

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Drive relevancy with context not content. Context trumps content as relevancy required to break channel fatigue.  Relevancy will improves engagement metrics.
Move mobile strategies from campaign to commerce. With engagement moving to mobile first around the world, campaigns without commerce will result in wasted marketing efforts. Point of sale must be part of the strategy as we shift to a world of matrix commerce.
Focus on conversion rate optimization. Conversion rate optimization takes center stage.  How catalysts are built to create the right offer should be tested, measured, and optimized.  This is the 8th C in the 9C’s of engagement.
Design for people to people interaction models. B2B and B2C are dead.  With context, individuals play different roles. This move to engagement and experience will require design thinking in crafting the P2P models of the future.
Use marketing automation to gain efficiencies. Repetitive processes should be rapidly automated and even given to the CIO for maintenance.  Scaling up with marketing automation is a key requirement for success.
Address big and small data. Social and mobile provide great signals that can be used to make the shift from data to information.  Finding patterns in the information helps marketers identify insights and then make the appropriate decisions.  Marketers should focus on the business outcomes not the data.
Expect more accountability in marketing budgets. With so much money flowing into marketing and digital efforts, expect a higher degree of scrutiny.  Marketers must be prepared to talk financial speak. Moving to digital will improve accountability and lead to data driven marketing that many have sought in the past.

In questo senso stiamo dunque parlando di una rivoluzione culturale, organizzativa e social che le aziende devono seriamente cominciare a intraprendere. Il valore che il social business e i digital media hanno creato negli ultimi anni è davvero notevole (basti pensare anche al report di McKinsey ormai dello scorso luglio in cui viene stimato il valore della “Social Economy”), al giorno d’oggi la sfida è quella cher riguarda il saper cogliere questo valore e questa sfida realizzando soluzioni integrate, che uniscano cioè componenti strategiche, manageriali, tecnologiche e di ingaggio per massimizzare le soluzioni messe in atto.

Saper strutturare una social business strategy è questo: connettere l’esterno con l’interno dell’organizzazione, abbattere i silos, fare accadere le cose e permettere alle persone di farle accadere, misurare i risultati di business, mettere al centro le persone e le loro esigenze, unire la capacità di visione a all’execution (fare o non fare non c’è provare)

Chi saprà realizzare questo mix di visone, strategia, competenza e capacità di esecuzione si conquisterà il mercato del prossimo – immediato – futuro.

Non molto tempo fa – a seguito di un intervento svolto per le BCC dell’Emilia Romagna – avevo concretizzato alcune riflessioni sull’applicazione degli strumenti e delle pratiche di social enterprise all’interno del settore bancario e assicurativo. Nello specifico avevo analizzato trend e prospettive, ma anche applicazioni concrete, di come il banking potesse beneficiare attivamente dell’adozione di soluzioni mutuate dalla social enterprise (Per riferimenti e maggiori dettagli si veda anche il relativo post: https://sociallearning.it/2012/12/05/applicare-il-social-business-allecosistema-ba/ ).

Da quel post alcune cose sono cambiate e alcuni trend – che al tempo sembravano solo lontani – hanno cominciato a concretizzarsi e a divenire “spendibili”. Grosse realtà hanno cominciato a muoversi in questa direzione e quello che – fino a qualche tempo fa – nel nostro paese sembrava un lontano miraggio destinato a un mercato di nicchia, è divenuto di fatto un modo imprescindibile di lavorare.

Un recente report di KPMG ( http://www.kpmg.com/IT/it/IssuesAndInsights/ArticlesPublications/Pagine/socialbanking.aspx ) mostra l’evoluzione che il mercato ha assunto in questo senso nell’ultimo periodo.
Al di là dei dati di contesto e di penetrazione della rete internet a livello italiano e degli usi funzionali che ne vengono fatti, il report di 80 pagine mette in evidenza alcune dimensioni pratiche legate proprio al settore del banking.

Schermata 2013-06-05 alle 20.15.40Cerchiamo di riassumere alcuni dei dati maggiormente significativi dell’analisi:

  • il 61% delle banche impiega almeno un social media
  • E’ LinkedIn quello ad essere maggiormente impiegato con il 71% del campione analizzato. Il numero è di più di due volte superiore rispetto ai medesimi dati del 2010: il che dimostra una crescente penetrazione dei social media all’interno anche di questo settore.
  • Il nuovo cliente delle banche è un consumatore che ricalca le logiche del social customer di cui più e più volte abbiamo parlato in questa e in altre sedi. E’ un consumatore molto più consapevole, più informato, che orienta i propri comportamenti di acquisto di beni e servizi a seconda di quelle che sono le opinioni dei propri pari. Opinioni che ricerca attivamente tramite i network e opinioni che gli giungono attraverso le nuove logiche push introdotte dai social media. E’ un consumatore che tende a connettersi con persone che gli somigliano e ad avere una aspettativa sempre maggiore. Pretende di essere ascoltato e ha molta più voce rispetto al passato.

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  • A livello di contenuto (come sappiamo è altrettanto importante il dato qualitativo) all’interno dei Social Media quando si parla di banche si parla soprattutto (41%) di servizio alla clientela e di capacità della banca di rispondere a stimoli, esigenze e bisogni espressi dai loro consumatori. A livello minore si parla di tassi e pagamenti (31%), e onestà della banca (15%). Temi che spesso devono fare i conti con un sentiment negativo e con consumatori tanto social quanto indispettiti.
  • Il 75% dei consumatori utilizza internet per condividere le proprie opinioni e percentuali altrettanto elevate li usano per orientare le proprie scelte. Diviene altresì fondamentale per i brand e per le banche presidiare questi canali e instaurare un dialogo con i propri clienti in modo da evitare problemi e massimizzare la loro capacità di risposta.
  • Grazie ai social media – rapidi, efficaci, economici, funzionali, di larga portata – le persone tendono a fidarsi molto di più delle opinioni dei propri pari (90%) rispetto all’advertising classico
  • Entrando poi più nel vivo dell’analisi emergono dati interessanti. E’ l’80% delle banche intervistate a ritenere i social media importanti per la comunicazione con i propri clienti.
  • La metà delle banche intervistate ha già lanciato strategie e impiegato questi canali in modo massiccio
  • Tutte le banche che non hanno avviato attività in questo senso hanno in progetto di farlo nei prossimi 12 mesi.
  • Tra le motivazioni che impediscono o che hanno impedito l’adozione dei social media all’interno delle banche: la mancanza di risorse (83%), la difficoltà – dovuta a mancanza di corretti processi di governance e di formazione – a stimare i pericoli del passaggio a queste soluzioni (67%).
  • Rispetto anche alla penetrazione dei differenti servizi emergono dati interessanti

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  • Utile risulta anche considerare quante di queste banche abbiano un team dedicato internamente (ben il 42%), mentre nessuna azienda affida completamente all’esterno la gestione dei canali. Esistono forme miste nel 37% dei casi, ma risulta comunque significativo analizzare il modello di maturità di queste soluzioni che non demandano la gestione a una realtà terza, a testimonianza – anche – di quanto il tema sia sentito e sensibile.
  • Nel 60% dei casi è stato stabilito anche un responsabile delle attività social. Ancora una volta una testimonianza di crescente interesse sul tema e di senso di progettazione non indifferente.
  • La maggior parte di queste iniziative sono guidate dalla funzione di Marketing e Comunicazione
  • E’ solo il 35% delle banche oggetti di analisi ad avere una social media policy interna.
  • Rispetto ala gestione emergono anche altri aspetti critici. Nel 56% dei casi – infatti – i canali social non sono presidiati all’esterno di orari di lavoro tradizionali. Ed è solo l’11% a dedicare attenzione 24 ore su 24 (festivi e weekend compresi).
  • Le iniziative che sono lanciate in rete risultano ancora molto legate a linee di business votate sulla comunicazione e sul marketing. Come si vede nello schema riportato sono sempre poche quelle che impiegano i social media per altre tipologie di iniziative.Schermata 2013-06-05 alle 21.43.57
  • Su uno dei temi che maggiormente dovrebbe interessare le banche (l’uso dei social media in funzione di customer care) emergono alcuni pesanti problemi: l’adozione e il livello di maturità in questo senso configura una fase ancora embrionale. E’ meno del 7% il numero di richieste che effettivamente viene gestita ed evasa attraverso i social network.

In questo senso emergono dunque alcuni trend precisi che configurano – finalmente – i social media come una realtà sempre meno di nicchia e pronta a entrare, a livello trasversale sulle industry in modo più massiccio e consistente.
E’ tuttavia interessante rimarcare come la strada da fare possa essere ancora molta e molto varia. Sull’interno dell’azienda per esempio ancora poco è stato fatto. Gli approcci guidati dall’esterno, guidati dai margini dell’azienda e dal contesto socio economico mutato, impongo ai dipartimenti “esterni” e limitrofi all’azienda comportamenti e cambiamenti più repentini. Risulta quindi chiaro che iniziative guidate dal marketing si siano affermate prima di altre anche se – a conti fatti – la direttiva di sviluppo si muove in entrambi i sensi: sull’interno e sull’esterno dell’ecosistema aziendale.

Per chi ha intenzione di fare dunque finalmente sul serio si pone il tema di sistematizzare gli sforzi fatti e di andare in un’unica direzione condivisa che massimizzi il risultato studiando strategie che integrino l’esterno e l’interno dell’azienda.

Di recente mi è capitato di scambiare alcune opinioni con colleghi e amici e di leggere approfondimenti legati al tema del ruolo che la funzione HR deve – o perlomeno dovrebbe – ricoprire all’interno dei progetti di social business e di trasformazione digitale.

Questo post è ispirato da alcuni altri: primo di tutti quello di Niall Cook ( http://www.niallcook.com/2013/05/hr-the-missing-link-in-social-business/ ) e secondariamente da quelli di Emanuele Quintarelli ( http://www.socialenterprise.it/en/index.php/2013/05/03/hr-the-unwanted-link-in-social-business/ ) e Jane McConnell ( http://www.netjmc.com/leadership/is-hr-the-missing-player-we-are-waiting-for-in-the-digital-workplace/ ) ai quali vanno i miei ringraziamenti per l’ispirazione e per la condivisione.

Il tema nato come provocazione, ma nemmeno troppo forse, è assolutamente chiaro. La funzione HR non ha un ruolo strategico (spesso non ha addirittura nemmeno un ruolo) all’interno dei processi di social business e di digital workplace. Ma come è possibile che la funzione aziendale che maggiormente dovrebbe interessarsi dei processi di change management e delle persone ignori completamente questi trend e i cambiamenti di fronte ai quali ci pone il mercato ?

Paura? Ignoranza? Perdita del controllo ?

Forse.

Cerchiamo però di tracciare un quadro completo che evidenzi non solo i trend e le criticità del mercato ma anche e soprattutto alcuni dati precisi che ci permettano di avere una visione più chiara e nitida della situazione nella quale ci stiamo muovendo.

In particolare:

  • Il 70% delle funzioni e dei manager HR intervistati da Jane mostra una resistenza al cambiamento verso le iniziative di digital workplace
  • Il 47% degli HR manager ha la possibilità di impattare in modo significativo sulla possibilità delle aziende di creare collaborazione, iniziative di open innovation e di partecipazione estesa (una media molto superiore rispetto alle altre funzioni aziendali a testimonianza della “strategicità” di questa funzione)
  • Rispetto al mobile è un 82% a considerarsi proattivo e a sponsorizzare coerentemente questa iniziativa, molto più di altri dipartimenti le HR vedono nel mobile una sicura frontiera di sviluppo per il lavoro del domani
  • Secondo il report dell’MIT riportato anche da Quintarelli la funzione HR non è certo ai primi posti (anzi) relativamente alle funzioni aziendali che spingono e sostengono progetti di social business transformation
  • Senza fare menzione ai dati del famoso e ormai arcinoto report di McKinsey dello scorso Giugno che non identifica la funzione HR come una funzione strategica – allo stato attuale – all’interno dei processi di social enterprise.
  • Anche nelle organizzazioni con più di 4/5 anni di esperienza e di sperimentazioni nell’ambito del social business e dei social media ha meno del 30% della funzione HR ingaggiata in questa iniziativa
  • La maggior parte delle funzioni HR intervistate da Jane McConnell testimonia una scarsa fiducia proprio nella componente umana: pare paradossale ma si parla proprio di “comportamenti pericolosi”, “mancanza di rispetto” e disomogeneità nella gestione del controllo, come si legge nel suo articolo: http://www.netjmc.com/workforce-engagement/why-is-hr-late-for-social-collaboration/

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Se da un lato emergono trend negativi dall’altro alcuni report come quello delle 2013 Predictions di Bersin (Deloitte – http://marketing.bersin.com/2013-predictions.html ) sottolineano l’importanza e i cambiamenti a cui la funzione HR dovrebbe essere messa di fronte per realizzare un nuovo modello di impresa, una trasformazione ormai non più evitabile.

Siamo in un’epoca in cui il ruolo delle risorse e dei talenti gioca all’interno delle imprese un ruolo fondamentale. Come si legge dall’introduzione:

In 2013, businesses will likely see an accelerating need for training, facilitated talent mobility programs, leadership development and reengagement of their workforces. Despite the slow economy, we witnessed a 12 percent increase in learning and development (L&D) spending this year, the largest increase in eight years. Further driving this theme, our clients have shown tremendous interest in learning how to drive a learning culture, implement continuous learning and design modern career development strategies.

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I modelli tradizionali di HR e di gestione delle risorse umane stanno mostrando la loro imprecisione, la loro inefficacia e la loro inadeguatezza completa nei confronti del saper cogliere le nuove sfide del mercato e delle organizzazioni che risultano – oggi più che mai – assai mutate rispetto al passato.

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Il medesimo report sottolinea anche altri punti chiave che consentono di inquadrare – o perlomeno di presupporre – un ruolo nuovo per l’HR del futuro. In primo luogo la partita cruciale che si gioca sul campo della formazione, del change management e del training: sulla formazione delle risorse, sull’accompagnamento al cambiamento e su come solo le iniziative gestite con la partecipazione dell’intera azienda siano quelle di successo e possano vantare un’adozione tale da permettere che non naufraghino in breve periodo (si vedano anche in questo senso le considerazioni sul Co-Design fatte in passati post).

In secondo luogo si tratta di intraprendere la sfida della gestione dei talenti. Muoversi verso modelli che matchino maggiormente le esigenze dei singoli individui con quelle dell’azienda per creare un continuum propositivo e positivo che consenta lo sviluppo globale. In questo senso si innesta anche un altro tema fondamentale che è il saper ragionare per competenze. Per le organizzazioni di oggi è impensabile investire solo in pochi individui e in poche persone. E’ un modello che non funziona e che non riesce a rispecchiare la complessità del mondo di oggi. Similmente a quanto sosteneva già George Siemens nel suo “Knowing Knowledge” ciò che bisogna fare è riorientarsi verso un modello di conoscenza distribuita condivisa, appoggiata sulla rete composta da singoli nodi interconnessi tra loro.

Risulta quindi chiaro che gli HR manager – e più in generale i dipartimenti di risorse umane all’interno delle aziende – devono giocare un ruolo chiave ed estremamente importante nell’accompagnamento verso questi processi.

Il tempo di guardare è passato: quello del fare è finalmente giunto.

L’ottima Jane McConnell (http://www.netjmc.com/) ha recentemente reso disponibile il suo report annuale legato alle evoluzioni e ai trend del Digital Workplace su come le nuove modalità e le nuove tecnologie stiano trasformando il nostro modo di lavorare, collaborare, entrare in relazione e scambiare conoscenza. Con 7 anni di storia alle spalle il report di Jane – di fatto – rappresenta un punto di riferimento nel settore.

Procediamo però per gradi. Che cosa si intende con il termine Digital Workplace? 

The term “digital workplace” is not used here to represent a desirable end state. It is used to represent what most organizations already have – a combination of digital applications, tools and intranets that people use to do their jobs. The digital workplace has different dimensions, not all equally mature. They include managed information and processes, structured collaboration, social collaboration and a mobile dimension.

Jane analizza alcuni interessanti trend che aiutano a comprendere meglio il fenomeno.

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Nello specifico:

  • l’interesse nei confronti del Digital Workplace sta aumentando e sta crescendo progressivamente sia in termini di semplice interessamento sia in termini di aziende che stanno continuando a investire nella direzione di realizzare iniziative di questo tipo.
  • Gli early adopter che hanno tratto maggiori benefici dall’investimento in questa direzione sono quelli che hanno coinvolto in maniera più pianificata e consapevole il Top Management dell’azienda. Il rovescio della medaglia è che sebbene sia il 61% di loro a considerare questo tipo di iniziative strategiche solo il 25% ha intrapreso un serio percorso in questa direzione. Tuttavia abbiamo più volte sottolineato come tutte le iniziative di social business transformation siano impossibili da intraprendere se non guidate da un percorso di coinvolgimento dell’intera azienda.
  • La Governance assume una dimensione estremamente importante: gli early adopter hanno policy, strategie e tecniche di governance molto più mature, condivise e strutturate rispetto al resto del mercato. In questo senso diviene importante pianificare strategie adatte a tradurre in risultati concreti e fattivi gli obiettivi di business che si intendono raggiungere.
  • Coinvolgimento dell’azienda: abbiamo parlato di top management e di come il coinvolgimento di questa funzione sia estremamente importante per poter realizzare i progetti e per fare in modo che il cambiamento verso un ecosistema aziendale digitale sia possibile. Ma non solo!
    E’ importante un coinvolgimento in due direzioni dell’azienda, dall’alto – come indicato – e dal basso, trovando le risorse e le competenze corrette per fare in modo – per davvero – che l’intera azienda sia coinvolta e remi nella stessa direzione.

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  • L’area del mobile diventerà a tendere sempre più importante: il 70% delle aziende ha deciso di fare investimenti in questo senso. Gli investimenti sono cresciuti del 39% rispetto all’anno precedente.
  • Il trend verso il quale si sta andando e sempre più aziende si stanno muovendo è il cosiddetto BYOD (Bring Your own Device). E’ tollerato dal 70% delle compagnie intervistate. Sono soprattutto gli early adopter – in questo senso – che stimolano e incoraggiano questa pratica con relativi connessi benefici.
  • La popolazione di riferimento per il Mobile risulta essere ancora non estesa a tutto l’ecosistema aziendale. Sono soprattutto i manager o i viaggiatori frequenti a utilizzarlo e implementarlo nella loro operatività quotidiana.
  • Le funzionalità sono comunque ancora tutte da sviluppare. E’ solo il 20% a utilizzare app ad hoc per il lavoro mobile. La maggior parte delle aziende utilizza questi strumenti ancora in modo sporadico, soprattutto legandole alla semplice mail e senza che siano collocate realmente all’interno dei processi di lavoro.
  • Tra le maggiori problematiche associate al mobile (ma non solo in realtà) quelle di sicurezza e di accesso alle informazioni seguito dai costi e dalla formazione delle risorse che dovrebbero usare queste tecnologie.

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  • In generale l’adozione delle nuove tecnologie digitali all’interno del workplace aziendale non ha ancora preso completamente piede. Le potenzialità da esplorare sono ancora molte e non tutti ne hanno colto – anche tra gli early adopters e tra le aziende maggiormente all’avanguardia – i risultati possibili. Le vie di sviluppo restano ancora ampie.
  • La strada degli Enterprise Social Network è quella che è stata maggiormente esplorata dalle aziende. E’ solo il 7% delle aziende – infatti – rispetto al 38% del 2011 a non avere piani per l’implementazione di social network all’interno dello spazio aziendale.
  • Le iniziative di CoDesign all’interno delle aziende non hanno ancora preso piede. Le stesse Intranet e gli stessi Social Network sono visti poco come strumenti per la collaborazione aziendale e molto di più come repository di file e simili. Lo spazio di sviluppo qui è ancora molto e le aziende che hanno iniziato esplorazioni in questo senso non sono ancora riuscite a capitalizzare i risultati a causa di strategie scarse e non del tutto adeguate a far fronte al cambiamento di processi.
  • Il lavoro in real time ha assunto una dimensione preponderante e sempre più aziende – con successo e soddisfazione – lo adottano.
  • I Budget che vengono destinati a iniziative di questo tipo sono ancora troppo esigui: non c’è reale comprensione di come queste tecnologie e questi cambiamenti possano modificare il modo di fare impresa. In questo senso budget sbilanciati portano anche a benefici non immediatamente tangibili e spesso ridotti rispetto alle complete possibilità realizzabili. Capire che questi processi non sono solamente IT (pur avendone una forte componente) è fondamentale per fare un salto di livello che consenta l’evoluzione completa dell’azienda.
  • La conoscenza delle nuove modalità di lavoro – come mostrato dallo schema sotto-riportato – è ancora scarsa e questo non consente l’ottenimento dei benefici sperati o potenziali.

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Una delle sfide maggiori risulta comunque l’integrazione dei social all’interno dei processi aziendali.
In tal senso risultano ancora poche e sporadiche le sperimentazioni.
E’ solo il 10% delle aziende che hanno correttamente intrapreso questa strada e sono in grado di sottolineare più di un processo completamente integrato con gli strumenti e i servizi digitali. Anche le più avanzate non sono – molto spesso – in grado di elencarne che uno.
Anche negli early adopters è solo il 22% ad aver dato una risposta largamente positiva, mentre se estendiamo l’analisi alla maggior parte del campione siamo limitati al 3%.

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Un’altro dato molto interessante all’interno del report di Jane è quello legato alle funzioni che maggiormente ostacolano e sono contro l’adozione di social collaboration tool all’interno dell’azienda. A prevalere sono i senior manager e i middle manager che sembrano essere quelli maggiormente restii a una cultura della condivisione e della collaborazione.

A vedere i minori benefici – invece – sono i dipartimenti HR e IT non per mancanza di effettivi ritorni sull’investimento che sono pur presenti ma per una mancanza di adeguata conoscenza e di adeguata consapevolezza su questi temi.
In questo senso – come per altro in questa e in altre sedi ho sempre prontamente sottolineato – risulta fondamentale il coinvolgimento dell’intero ecosistema aziendale e soprattutto dei gruppi che possono fare la differenza (talenti, key-people, influencers, champions).

Niente fuochi d’artificio e niente stravolgimenti di sorta dunque. Le lezioni, i casi di successo e anche i grandi fallimenti del passato fanno ufficialmente emergere il percorso verso il digital workplace come un qualcosa di maggiormente maturo: fugati gli entusiasmi dell’ora zero, i dubbi e le relative perplessità, ora è davvero possibile – in un contesto di mercato completamente rinnovato – fare la differenza.

Di recente mi è capitato di scambiare alcune visioni sia con alcuni amici sia con alcuni colleghi su come il mercato del Social Business sia cambiato negli ultimi mesi e anni.
Dalla storica teorizzazione del concetto di Enterprise 2.0 di Andrew McAfee* è passata molta “acqua sotto ai ponti” e le aziende – anche quelle apparentemente meno mature e meno adatte al cambiamento – hanno cominciato, chi più chi meno, chi in maniera più strutturata, chi in maniera meno solida a intraprendere iniziative di socializzazione dei processi aziendali: da chi ha iniziato veri e propri progetti di digital workplace a chi si limita – ancora – a aprire qualche canale social senza una strategia ben precisa.

* Enterprise 2.0 is the use of emergent social software platforms within companies, or between companies and their partners or customers.

Superato però un’iniziale momento di aspettative inflazionate e di forte slancio verso questo tipo di strumenti, le aziende – e i consulenti – si stanno rendendo conto che “non è tutto oro quello che luccica”.

In questo senso una serie di ragioni ben precise fanno ipotizzare anche che la maggior parte dei progetti di social enterprise e di social business vadano verso una direzione assolutamente fallimentare. (Si vedano anche le ottime riflessioni di Emanuele Quintarelli sul tema, ricche di dati e di spunti molto utili http://www.socialenterprise.it/index.php/2013/02/11/80_socialbusiness_fallira/ ).
Come è possibile? Come si spiega che possa fallire qualcosa che per molti non è nemmeno iniziato? Perché qualcuno riesce a ottenere benefici enormi dall’adozione delle social technologies e qualcun altro – invece – non sa nemmeno da dove cominciare?

Una serie di ragioni ben precise (lo stesso Jacob Morgan nel suo ultimo volume The Collaborative Organization evidenzia alcuni di questi temi) ci consente di prendere le mosse da adozioni e progetti fallimentari per capire cosa spesso va storto.

  • Mancanza di commitment da parte del Top Management: le iniziative di maggior successo non sono quelle che nascono dal basso, né quelle che vengono calate dall’alto. Sono quelle che uniscono entrambi gli aspetti. Un serio commitment, non solo sulla carta del top management (e dal giorno 0 del progetto) aiuta tutta l’azienda nel passaggio più difficile: un cambio di mentalità radicale. 
  • Il “Social Business non è una nostra priorità”: argomentazione difficile questa contro la quale ribattere, resta importante in questo senso focalizzarsi sugli obiettivi e mostrare – a chi non ci crede – quale sia il valore che questo tipo di approcci possono generare sull’intero ecosistema aziendale. Nelle aziende – non nascondiamocelo – le priorità vengono associate a ciò che permette di creare business. Far capire che l’adozione delle tecnologie digitali non è un gioco ma una cosa molto seria sta ai consulenti.
  • “Non vogliamo imparare a fare cose nuove!”
    Anche in questo caso, è inutile nasconderselo: ogni cambiamento richiede fatica, richiede rischio e richiede un investimento in termini di risorse, impegno, apprendimento che non è assolutamente da sottovalutare. Assistere le persone nel cambiamento e nel passaggio è assolutamente fondamentale.
  • “Qual è il ROI di questa roba?”
    Molte aziende non riescono a comprendere i vantaggi di questi approcci. Il meccanismo ricorsivo che si innesta può essere devastante. In questo senso risulta – ancora una volta – assai importante il ruolo della formazione e dell’accompagnamento. Per smentire questa tesi basterebbero le molte ricerche e studi condotti da McKinsey (non ultimo https://sociallearning.it/2012/10/31/il-valore-e-il-mercato-del-social-business/ ): tra i più recenti una survey condotta su oltre 1’600 persone ha mostrato significativi passi in avanti. Il 77% delle persone ha riscontrato un miglioramento dell’accesso all’informazione, il 52% una velocità nell’accesso agli esperti e nel contattare referenti aziendali, il 44% un abbattimento di costi di viaggio e di riunione.
    Tuttavia non è sufficiente. I benefici non tangibili che si possono avere da queste lezioni sono molti ed evidenti ma il tema è sempre quello di collocarli nel concreto della propria azienda.
  • Mancanza di Budget: uno dei punti altrettanto fondamentali è la mancanza di budget rispetto alle iniziative che nascono o che si vogliono far nascere. La riduzione delle risorse è in questo senso uno dei fattori maggiormente critici, senza questo le cose non possono funzionare. E’ bene quindi destinare o capire come sbloccare le risorse necessarie per portare un cambiamento che possa – sul breve sul medio e sul lungo termine – migliorare l’efficacia e l’efficienza della nostra organizzazione.
  • Chi se ne occupa? “Ho del lavoro in più da fare?”
    Oltreché a livello culturale le resistenze maggiori si possono incontrare nel momento in cui le persone percepiscono questo cambiamento come un carico aggiuntivo o non vengono ben esplicitati nemmeno i ruoli e le responsabilità aziendali connesse a questo processo. E’ sempre opportuno esplicitare ruoli, funzioni, compiti da svolgere e allineare tutti i referenti sul processo in atto. Una mancanza di coordinamento e di coesione in questo senso può portare a risultati disastrosi o all’abbandono delle piattaforme.
  • Mantenimento: un’altra delle cose fondamentali – come ben illustrato dallo stesso Jacob Morgan – è quella del mantenere l’iniziativa. Capita di frequente che oltre l’entusiasmo del primo momento ci si scontra con quelli che sono i tempi e le modalità naturali del corso delle cose (e del lavoro) e le iniziative – non correttamente mantenute – vadano piano piano morendo o adagiandosi in uno stato poco utile o non efficace per l’azienda. Cogliere la tendenza, invertirla e considerare il processo di social transformation non come un interruttore acceso/spento ma come un qualcosa da coltivare costantemente è fondamentale.
  • Obiettivi di business: molte aziende intraprendono il percorso (o perlomeno il tentativo di un percorso) di social transformation senza aver dichiarato a priori quali obiettivi di business vogliono ottenere. Senza chiarire quali sono tutto il resto perde di senso: sarà impossibile ottenere il commitment, misurare il valore e gli impatti aziendali, e via dicendo…
    Mi interessa il mondo degli Enterprise Social Network? Benissimo: prima di partire con un progetto che vada in questa direzione è opportuno domandarsi se è realmente funzionale per la mia realtà, quali benefici può portare e quali obiettivi voglio ottenere con questi strumenti.
  • Integrazione e operatività: le strategie social non devono essere improvvisate o inserite casualmente in un flusso aziendale ma correttamente integrate con i processi e i flussi esistenti. In una frase: bisogna risolvere i problemi concreti delle persone e dare una risposta ai loro bisogni. 
  • Misurazione e valutazione: stabilire degli indicatori di successo, misurare e analizzare i fenomeni che accadono e avere una chiara valutazione di quello che sta succedendo risulta fondamentale per tarare e misurare il successo o meno della nostra iniziativa. In questo senso risulta molto importante per poter correggere il tiro (si pensi anche nel caso di eventuali – suggeriti – pilot per sedimentare gli apprendimenti e fare le dovute valutazioni) e per poter costantemente migliorare i processi nei quali siamo coinvolti.
  • Talenti e competenze: progetti di questo tipo non si improvvisano. Non si diventa strategist aprendo una startup di consulenza o leggendo un paio di libri. La sfida del futuro è quella di aggregare competenze, talenti e persone che siano davvero in grado di fare la differenza sul piano del cambiamento delle aziende e del nostro modo di lavorare.

Come visibile dall’elenco sopra riportato (che sia chiaro è incompleto e vuole essere solo una disamina generale) le sfide e le difficoltà sono molte ma la possibilità di crescita sono altrettante.

Le aziende che hanno in mente di fare davvero la differenza in questo settore devono considerare seriamente i punti sopra e comprendere come i social media, il social business, l’intera trasformazione digitale deve essere pianificata e non può certo essere lasciata al caso o alla fortuna.
Solo attraverso una pianificazione e dei progetti concreti e precisi, le persone giuste, le competenze di eccellenza, saremo in grado di migliorare il nostro modo di fare impresa.