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E’ recentemente uscito il report “Born to be Digital” di EY dedicato ai CIO delle organizzazioni di tutto il mondo e alla loro percezione delle sfide che il digitale sta fortemente proponendo all’interno delle organizzazioni di medie e grandi dimensioni.
Qui trovate il link completo al report di 44 pagine del quale vi consiglio la lettura per approfondire il tema (http://www.ey.com/GL/en/Services/Advisory/EY-CIO-Born-to-be-digital-The-rise-of-the-digital-business).
Cerchiamo come di consueto di mappare i principali temi e highlight che emergono dall’analisi.

  • I CIO intravedono nel digitale una grande possibilità per la propria carriera e per l’intera organizzazione. Come abbiamo più e più volte ribadito in questa e in altre sedi, il mercato è finalmente maturato e cambiato e la consapevolezza in questo senso è cresciuta parecchio. Soprattutto nelle aziende IT è oltre il 50% degli intervistati a ritenere questo fenomeno come fondamentale. Inoltre, il 67% crede anche che l’area della digital transformation sia fondamentale per realizzare il cambiamento necessario a fare dell’organizzazione di nuovo la protagonista del mercato.
  • I CIO sono messi in “crisi” dall’emergere delle figure professionali nuove (i cosiddetti Chief Digital Officer) che si stanno affermando sul mercato e stanno prepotentemente facendosi strada in settori che una volta o non esistevano o erano – molto semplicemente – dominati da loro.
    La sinergia tra CIO e CDO – ammesso che queste figure esistano in azienda – è fondamentale. Più che una lotta è bene che si innesti un processo collaborativo e sinergico che consenta all’intera organizzazione di trarne beneficio effettivo (non solo economico ma lungo tutta la catena estesa di generazione del valore).
  • Il dialogo tra CIO e altri membri della C-Suite è chiave e fondamentale. In un mondo connesso e strutturato sulle reti come quello che stiamo vivendo e sperimentando ogni singolo giorno (sia all’interno sia all’esterno dell’organizzazione) richiede da parte di tutte le figure aziendali (specie se di alto livello) connessione, comunicazione, collaborazione.
    E’ solo attraverso un lavoro di sinergia che i CIO e altri livelli organizzativi saranno in grado di determinare in modo efficace il futuro dell’organizzazione creando valore non solo per se stessi ma per tutto l’ecosistema digitale

La bella infografica realizzata per l’occasione mostra alcuni dati significativi e interessanti di quanto è emerso dall’analisi, aiutando a focalizzarsi su alcuni numeri specifici del fenomeno che stiamo discutendo.

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  • I CIO che intendono intraprendere o che hanno intrapreso le sfida della trasformazione digitale si muovono su alcuni asset fondamentali che li contraddistinguono dagli altri: innovano in modo costante e strategico, hanno una chiara visione di come la tecnologia stia radicalmente cambiando il modo di concepire e di organizzare le imprese, comprendono che il digitale è uno strumento e sanno collegarlo ai driver fondamentali di business dell’azienda massimizzando il valore che è possibile ottenere da questi strumenti.
  • Inoltre i CIO maggiormente “avanti” con l’attuazione di iniziative di digital transformation all’interno della loro impresa si fanno carico di assicurarsi che la loro visione sia compresa e accettata dall’azienda e dai colleghi contribuendo a rafforzare quei concetti di socializzazione e collaborazione ma anche di condivisione del valore e degli asset strategici che stanno alla base di ogni strategia digitale ben realizzata. Ancora una volta quindi il ruolo dell'(in)formazione è chiave per la diffusione di comportamenti corretti e di cambiamenti organizzativi di serie dimensioni.

Come si legge anche nel report:

All CIOs focus on issues relating to business performance and IT budgets, but digital-ready CIOs are far more engaged in the question of how to open new markets. For example, about two-thirds (65%) of digital-ready CIOs are strongly engaged in discussing IT’s role in researching and developing new services or products with the executive management team, compared with just 50% of IT intensive industry CIOs overall. “I spend at least 30% of my time on innovation,” remarks the CIO of a major telecommunications operator in China, who asked to remain anonymous. “I have 100% influence on technology innovation, which requires that I have both a technology background and also an understanding of corporate strategy and operations.”

  • I CIO digitalmente maturi si fanno carico di applicare una strategia che tenga in considerazione vari aspetti del progetto di sviluppo: dall’execution, all’abilitazione fino ad arrivare allo sviluppo concreto e alla messa in atto delle iniziative di trasformazione digitale e socializzazione dei processi di business.
  • Non ultimo: i CIO assumono rischi in prima persona, dandosi occasione di sperimentare, di provare e di “sporcarsi le mani” nella realizzazione di questo tipo di iniziative. Come sappiamo molto bene, in questo tipo di progetti, il fare conta più del parlare.

CIO Digital

Lascio alla lettura del report l’approfondimento di altri dati e informazioni che possono emergere. Quello che è sicuro è che al momento in cui si scrive il mercato è davvero pronto a un salto di maturità e di evoluzione nei confronti degli scenari digitali. Salti di evoluzione che non siano solamente legati al digitalizzare le imprese ma a derivarne concreti risultati di business. Finalmente siamo nell’epoca in cui il digitale diviene uno strumento operativo concreto al servizio di persone e imprese e coloro che sapranno sfruttarne le potenzialità, misurarne i risultati e derivarne obiettivi concreti e strategici saranno in grado di evolvere verso gli scenari.

Passare dal digital/social al business (quello vero) è la sfida dei prossimi giorni.

Chi si occupa di social media management, è un community manager, o semplicemente ha gestito pagine Facebook negli ultimi anni (di piccola media o grande importanza) si sarà reso conto che qualcosa è cambiato.

Ma cerchiamo di partire dall’inizio e di capire meglio cosa sia successo e di cosa stiamo parlando.
Fino a non molto tempo fa i social media – e Facebook in primis – venivano considerati all’interno delle cosiddette property owned o earned, spazi digitali e canali – cioè – che sono gestiti e amministrati dal brand direttamente, spazi nei quali un brand può realizzare le iniziative che preferisce, condurre un piano editoriale ad hoc, strutturare azioni mirate e via dicendo. In poche parole: spazi in cui i brand sono in grado di raggiungere consumatori senza dover spendere per farlo, spazi guadagnati (con azioni di community management o digital PR o altro).

Lo schema sotto riportato – tra i tanti disponibili in rete sull’argomento (in numerose e differenti versioni se avete voglia di divertirvi) riporta la suddivisione tra i vari media che sono possibili. Per intenderci ed essere “terra-terra” la televisione è un media paid, si deve – di fatto – pagare per poter promuovere un messaggio su questo canale, come anche si deve pagare per poter pubblicare un annuncio pubblicitario su un giornale o su uno qualunque di questi altri media.

PaidOwnedEarnedSocial

Il punto è che tutto questo, negli ultimi mesi è cambiato.

Un recente e molto, molto interessante report di Ogilvy (che trovate qui http://www.slideshare.net/socialogilvy/facebook-zero-white-paper-31934430) fornisce informazioni e spunti molto utili per riconsiderare le proprie azioni sui social media e in particolare su canali come Facebook sui quali i brand, fino all’ultimo anno e, ancora oggi, continuano a investire in modo massiccio per la comunicazione e per raggiungere i propri fan e iscritti.

Era noto – ai più perlomeno – che per come era costruito l’algoritmo di Facebook era solo una piccola parte della propria fanbase che era possibile raggiungere. Nello specifico senza fare attività di advertising e senza spingere in alcun modo il contenuto quello che accadeva era che – per quanto bello, ben realizzato e ben fatto un contenuto o un post – era solo una percentuale minore al 10% ad essere effettivamente raggiunta (attenzione raggiunta: non ingaggiata!) da quel tipo di contenuto.

“Based on a recent quality check, we made an adjustment to the news feed algorithm to respond to the negative feedback signals of spam and people hiding posts. Current signals show the adjustment has been successful. Median reach of Facebook pages has remained the same, while spam complaints and stories hidden by users have fallen significantly.”

Uso il passato perchè a quanto pare – a leggere non solo dai post dei community manager che seguono importanti pagine internazionali – ma secondo appunto quanto affermato da Ogilvy stessa, la situazione sembra essere notevolmente peggiorata.
Questo grafico riassume la condizione attuale nella quale ci troviamo molto meglio di moltissime parole.

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Il numero di persone che è possibile quindi raggiungere senza attività a pagamento è precipitato ulteriormente impedendo – di fatto – ai brand di raggiungere le persone che intendono raggiungere senza che i loro post non siano supportati da una seria attività media, il che non è necessariamente un male, ma piuttosto un modo differente di concepire questo tipo di strumento. Oggi, realizzare una strategia digitale e social che non integri le due dimensioni (contenuto di qualità e media) non ha più molto senso.
Le agenzie che si distingueranno nei prossimi anni saranno quelle in grado di lavorare in modo sinergico su due livelli che vanno visti non come antitetici e contrapposti ma piuttosto come due processi che devono muoversi di pari passo: senza un contenuto di livello non è possibile stimolare engagement, così come senza del paid media alla base non è possibile fare in modo che il nostro contenuto (di valore o meno che sia) riesca a raggiungere una base utenti significativa.

E’ un gatto che si morde la coda, ma il processo è anche abbastanza semplice da comprendere. Senza considerare che – di fatto – Facebook offre a chiunque attraverso la propria piattaforma di ADV una profilazione davvero dettagliata del target e delle custom audience che si vogliono andare a costruire e rappresenta di fatto una delle più potenti piattaforma di digital marketing e advertising che sono alla portata di chiunque. Dal freelance alla grande agenzia strutturata.

Come si legge anche su Business2Community:

Facebook has worked long and hard at ensuring that fans acquired through their network are kept within the Facebook platform while engaging with brands. Smart marketers are going to have to get creative enticing fans off the platform and onto other brand properties and channels, where getting a message across doesn’t cost another paid click and ongoing engagement is earned, not bought. This makes a unified, integrated effort across social, website, email and other touchpoints more important than ever.

L’importanza di costruire strategie cross che impieghino diversi asset digitali diviene – oggi – molto più importante di qualunque azione su un singolo canale.
Chi intenda seriamente investire in questo mercato e vederne il tanto agognato ROI dovrà unire elementi di creatività intelligenti nella definizione di piani editoriali di valore, supportarli con adeguate attività di paid advertising, convertire i consumatori all’interno di funnel e canali digitali ad hoc (eCommerce) e coltivare la propria community su property esterne e dedicate (branded community) all’interno delle quale sarà possibile strutturare iniziative davvero ad hoc per i propri clienti.

Di recente, leggendo il buon libro Flat Army: Creating a connected and Engaged organization mi è capitato di approfondire il concetto di “Employee Engagement”, del coinvolgimento – cioè – esteso dei dipendenti interni alla propria organizzazione al fine di massimizzare il valore generato all’interno delle organizzazioni di oggi.
Nel primo capitolo del volume Dan Pontefract prende in esame alcuni miti e alcune statistiche legate all’ingaggio corretto della propria forza lavoro, evidenziando però anche i benefici di un corretto ingaggio della forza lavoro per generare effettivo valore economico (ma non solo) all’interno dell’impresa.

The ability to engage employees, to make them work with our business, is going to be one of the greatest organizational battles of the coming ten years

Con questa citazione di Mike Johnson si vuole sottolineare proprio l’importanza che negli ultimi anni ha assunto un concetto come quello legato – appunto – al coinvolgimento dei propri dipendenti. Per le aziende di oggi si tratta di intraprendere una sfida che riguarda un cambiamento organizzativo, culturale e sociale. Un cambiamento nello stile di leadership – che oggi più che mai – mostra la propria inefficacia a fronte di modelli organizzativi e comportamentali completamente nuovi. Modelli che emergono grazie alle nuove tecnologie e attraverso questi strumenti (similmente a quanto scrive Euan Semple nel suo libro “Organizations Don’t Tweet People Do”).
In questa stessa direzione un recente articolo di Harvard Business Review mostra la fondamentale differenza tra un vero leader e un “wannabe” sottolineando anche gli errori da non fare e il percorso da seguire per ispirare i propri collaboratori (ne suggerisco la lettura qui: http://blogs.hbr.org/haque/2013/07/how_and_why_to_be_a_leader_not.html ).

Vediamo alcuni dati che sottolineano in modo più consistente quello che stiamo dicendo:

  • Gallup – una global human capital consulting firm – ha mostrato come negli ultimi 10 anni non si siano evolute le dinamiche organizzative e il disingaggio dei dipendenti sia rimasto stanziale (parliamo di 70% circa di persone che non sono ingaggiate nel loro lavoro quotidiano)
  • Una survey del 2011 condotta in oltre 120 paesi del mondo su oltre 47’000 rispondenti mostra dati ancora meno incoraggianti: è solo l’11% dei lavoratori di tutto il mondo ad essere ingaggiata con quello che sta attualmente facendo.
  • Sempre la stessa survey mostra come ben il 27% sia attivamente non ingaggiata e veda in modo negativo il proprio posto di lavoro ostacolando addirittura l’operatività quotidiana.
  • Blessing White arriva a risultati simili: il 19% delle persone non sono ingaggiate, il 52% lo è solo moderatamente, mentre il 29% è completamente coinvolto.
  • I leader delle organizzazioni stanno adottando sistemi e logiche inadatte a rispondere a queste sfide
  • I dipendenti che non sono engaged hanno minori possibilità di essere più produttivi e tenderanno a lasciare più in fretta e più facilmente l’azienda.
  • Problemi – inevitabilmente anche per i talenti e per le giovani generazioni (Millenials e Generation X) che nel 37% dei casi abbandonano il posto di lavoro entro i 3 anni dall’assunzione.
  • Scostamento tra leadership e organizzazione reale che viene mostrato anche da una survey di Hay Group: a fronte del 63% dei CEO che sono effettivamente in grado di modificare lo status quo è solo il 38% ad esserne consapevole.
  • Il ruolo dell’HR e delle politiche HR è ancora meno legato al cambiamento e ancora più fautore del mantenimento dello status quo.

Accanto a tutto questo ci si aggiunga che gli stessi strumenti classici di misurazione, ingaggio, tracciamento dell’efficacia e valutazione sono completamente inefficaci e mostrano la loro non concretezza. (Si veda ad esempio questo articolo sempre di Harvard Business Review – http://hbr.org/2013/07/the-network-secrets-of-great-change-agents/ar/1 ) che sottolinea come a fronte di un’organizzazione formale, gerarchica, strutturata, la realtà sia ben differente e ben diversa da quella che si immagina. Talenti emergono al di là dell’organizzazione e richiedono lo spazio che meritano e che – naturalmente – altre figure aziendali gli riconoscono.

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Una situazione tutt’altro che rosea su cui forse è bene e significativo riflettere.
Per quanto riguarda l’engagement possiamo sommariamente definirlo come viene definito da Pontefract all’interno del volume, senza in questo caso formalizzarsi troppo sulle definizioni semantiche:

Employee Engagement: the state in which there is reciprocal trust between the employee and leadership to do what’s right however, whenever and with whomever.

Ma perché tanta insistenza sull’engagement degli utenti e dei dipendenti? E quali vantaggi porta – in concreto all’azienda – questa direzione?

  • Una organizzazione altamente ingaggiata ha la possibilità di ridurre il suo turnover dell’87% diventando più efficace di circa il 20%
  • Le aziende che hanno una forza lavoro motivata e ingaggiata migliorano il fatturato del 19%, mentre quelle che non lo sono lo riducono del 32%.
  • Un dipendente ingaggiato ha maggiori possibilità (e ricerca proattivamente) di rendere soddisfatto il consumatore finale (10%), aumentare il suo livello di produttività (27%), stabilire migliori relazioni lavorative (13%).
  • Oltre il 66% dei manager che ha una forza lavoro ingaggiata dichiara di avere reali e concreti benefici nell’aumento della produttività quotidiana.
  • Un maggiore e più esteso coinvolgimento dei dipendenti porta anche a una riduzione degli incidenti del 50%.
  • Le compagnie con personale maggiormente motivato hanno un margine operativo – in media – di circa il 6% più elevato

Diviene dunque importante per le aziende di oggi (e di domani) riflettere seriamente e sinceramente su questi temi, domandandosi – per i manager, i CEO, i leader e anche gli “wannabe” – verso quale direzione stia andando la propria realtà.
I miei dipendenti sono motivati? I miei collaboratori sono coinvolti sinceramente nel mio progetto? Il mio progetto è un NOSTRO progetto? Al di là degli incentivi economici sono presenti pratiche strategie per l’ingaggio dei miei dipendenti?

Le riflessioni che ormai da qualche anno ci accompagnano sul tema del social business sono anche rivolte in questa direzione, verso la creazione di un’azienda più semplice, più efficace più resiliente, in un una frase: più a misura d’uomo.