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Articolo originariamente pubblicato su Harvard Business Review (Social Business Toolkit) – Giugno 2013.
L’articolo è stato rivisitato e aggiornato dopo la sua originale pubblicazione. Sono stato “obbligato” a eliminare l’articolo originale per questioni di diritti. Ma in questo caso senza troppe polemiche, applico il detto latino: rem tene, verba sequentur. E riscrivo l’articolo originale arricchendolo di spunti e riflessioni aggiornate. Enjoy! 

In un abbastanza famoso (quanto a mio avviso sottile) aforisma Brian Sutton-Smith, professore e autore di successo che ha dedicato buona parte della sua vita allo studio dei giochi, afferma:

«l’opposto del gioco non è il lavoro. È la depressione».

La frase risulta molto interessante se applicata al contesto della Gamification. Una tendenza che si è affermata sul mercato e nella nostra società negli ultimi anni. Questa stessa frase ci consente di riflettere su un punto molto importante legato alla gaming, ovvero che il fenomeno del gioco non è – sempre – da considerarsi in contraddizione e in antitesi rispetto a quello del lavoro e che le due cose, qualche volta e con opportune strategie declinate nel concreto, possono andare di pari passo. Con questo articolo e approfondimento – e lo voglio chiarire in partenza – non intendo erigermi a paladino del gaming e della Gamification (pur essendo un grande appassionato di videogame e pur avendo già scritto un volume su questi temi), ma intendo – più realisticamente – analizzare un fenomeno interessante (e particolare) che può rappresentare un punto di ulteriore rafforzamento di alcune logiche alle quali siamo abituati negli ultimi anni e che più volte abbiamo collegato a un nuovo modo di intendere l’organizzazione come impresa collaborativa e sociale. Un’organizzazione che è in grado di sfruttare al massimo il potenziale nascosto – e non – dei propri dipendenti mettendoli in grado di lavorare meglio e in modo sempre più efficace insieme verso un comune obiettivo di business.

Di fatto – ed è bene chiarirlo subito – la Gamification è uno strumento. Uno strumento al pari di molti altri strumenti che – in questi giorni – possono servire a migliorare il nostro modo di fare impresa. Una freccia ulteriore nella nostra faretra di consulenti della social organization. Un mezzo che – come tale – va considerato.
Il legame tra il mezzo che usiamo e quello che vogliamo ottenere deve essere sempre una connessione molto forte con gli obiettivi di business e strategici che ci poniamo, senza tutto questo la gamification diviene uno sterile esercizio di stile che difficilmente potrà contribuire al miglioramento dell’impresa.

Per meglio identificare e inquadrare il fenomeno di cui stiamo parlando è però opportuno fare ricorso ad alcuni dati e statistiche che ci consentano di capire della portata, tutt’altro che trascurabile del mondo al quale ci stiamo riferendo. Jane McGonigal, famosa game designer e autrice del libro Reality is Broken (2011), mette in luce proprio alcuni di questi temi: nei soli Stati Uniti D’America sono oltre 183 milioni i videogamers attivi: persone che dichiarano di spendere un tempo medio di circa 13 ore a settimana in questa attività. A livello mondiale la comunità dei videogiocatori conta oltre 4 milioni di persone nel Medio Oriente, 105 milioni in India, 100 milioni in Europa e oltre 200 milioni in Cina, 6 milioni dei quali dedicano a questa attività oltre 22 ore a settimana. Se prendiamo in esame sia gli investimenti sia i ritorni economici di uno dei giochi più di successo (GTA V) capiamo che stiamo parlando di un giro di affari di altissimo livello. Il gioco ha incassato oltre 800 milioni di dollari e ha venduto oltre 11 milioni di copie in due giorni dal lancio. A Febbraio 2014 le copie vendute sono oltre 32 milioni.
Altri dati interessanti sul fenomeno che stiamo vivendo li ritrovate in questo articolo di approfondimento, mentre quest’altro sottolinea alcuni casi di successo di grosse aziende che hanno applicato in modo consapevole e strategicamente valido la Gamification all’interno dei loro processi di business.

Eccone alcune delle principali:

More than 70% of the world’s largest 2,000 companies are expected to have deployed at least one gamified application by year-end 2014 (Gartner)

The overall market for gamification tools, services, and applications is projected to be $5.5 billion by 2018 (M2 Research)

80% of current gamified enterprise applications will fail to meet their objectives, due largely to poor design (Gartner)

63% of American adults agree that making everyday activities more like a game would make them more fun and rewarding (JW Intelligence)

51% of American adults agree that if a layer of competition were added to everyday activities, they’d be more likely to keep closer watch of their behavior in those areas (JW Intelligence)

L’industria economica che si muove attorno a questo tipo di mercato non è certo da meno: nel 2012 sono stati oltre 68 i miliardi di dollari investiti in questo settore. Proiezioni di mercato stimano investimenti crescenti e costanti nell’ambito della Gamification: si parla – a tal proposito – di circa 1.6 miliardi di dollari per il 2015 e di 2.8 per il 2016 (Bloomberg).

E per quanto riguarda l’industria videoludica? Sebbene il fenomeno sia differente rispetto a quello che stiamo descrivendo ci può aiutare a definire e calare nel concreto quello che stiamo dicendo in modo da sostenere con dati significativi l’intero fenomeno legato al mondo ludico/videoludico.

Roba da ragazzini quindi? Perdita di tempo totale?
Non esattamente: a giudicare da un’indagine del 2009 dalla rivista Cyberpsychology, Behavior and Social Networking il 61% dei C-level aziendali si concede una pausa “ludica” almeno una volta al giorno. In America 1 giocatore su 4 ha un’età media superiore ai cinquant’anni. E nel nostro paese – invece – come siamo messi?

I dati dell’AESVI [1] sottolineano come l’età media dei videogiocatori italiani (2009) fosse di 28 anni. La medesima ricerca dell’Associazione Italiana rende noto che è il 17% della popolazione italiana a giocare ai videogame, mentre in Francia le stime si attestano al 38%.
Solo nella nostra penisola parliamo di una industry che ha generato tra il 2009-2010 revenue per 604 milioni di euro (in aumento del 17% rispetto al biennio precedente).

Si tratta chiaramente di dati molto interessanti che potrebbero proseguire molto molto a lungo ma il messaggio è ormai chiaro. Stiamo parlando di un fenomeno tutt’altro che trascurabile che presenta indicatori interessanti in termini di crescita e trasversali per sesso, applicazione, regione e altro. Un fenomeno che – se non altro – merita (testimone anche questa infografica di Badgeville) di essere analizzato da vicino.

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Perché il gioco? Perchè questo “processo”, per le sue caratteristiche chiave e peculiarità educative rappresenta uno strumento privilegiato. Pensiamo a tutti i lavori e gli studi di Bruner e di Huizinga dove si mostra come i giochi siano intrinsecamente caratterizzati da una dimensione di sperimentazione e simulazione: rappresentano – cioè – un’azione libera, diversa dal mondo abituale, che impegna in modo pervasivo e completo (alle volte anche totalizzante) il (video)giocatore pur non comportando nessun interesse materiale o secondo fine. Per dirla, ancora una volta, alla Jane McGonigal i giochi sono ostacoli non necessari che scegliamo volontariamente di affrontare. Un mondo simulato che ci permette di esperire e di muoverci in sicurezza spesso anche ricollegandoci ad un senso superiore e un differente modo di fare le cose.

Dal punto di vista cognitivo e motivazionale – quindi – non esiste nulla di più ingaggiante di un gioco (pensate anche alla vostra esperienza di vita), di qualcosa che sia in grado di motivare, di sfidare, di mettere alla prova, di suscitare emozioni positive e costruttive, di insegnare e di migliorare il coinvolgimento delle persone dando loro un universo di senso e di significato differente da quello a cui sono abituati.

Ma cos’è la Gamification? Un tentativo di definizione (per esclusione)

La tabella che viene qui riportata mostra alcune definizioni che in passato e nella letteratura sono state utilizzate per spiegare il concetto.
Possiamo notare alcuni elementi ricorrenti e altri che invece differenziano le varie letture. Sommariamente e provando a trarre una conclusione potremmo definire la Gamification come:

un processo strategico che vede l’utilizzo del game thinking e degli elementi propri del gioco per motivare e coinvolgere maggiormente le persone in contesti differenti da quelli ludici, indirizzando i loro comportamenti verso obiettivi di business misurabili

Schermata 2013-05-14 a 22.43.26(da Harvard Business Review – 2013)


E’ comunque utile definire anche “in negativo” la Gamification. Di che cosa non stiamo quindi parlando?

  • il semplice trasformare tutti i processi in un gioco;
  • l’utilizzo del gioco all’interno del workplace aziendale, se ne impiegano meccaniche e dinamiche ma non certo ci si mette a giocare a Risiko sulle scrivanie d’ufficio… purtroppo o per fortuna!
  • l’impiego dei serious game o delle simulazioni. Quello è un mondo che riguarda maggiormente in temi della formazione aziendale
  • un nuovo modo di fare marketing (come molti purtroppo hanno inteso e stanno facendo applicando nomi innovativi a pratiche obsolete senza un reale campio di mindset e di cultura organizzativa)
  • l’apporre qua e là badge semplicemente dando qualifiche o facendo piovere titolini che hanno poco a vedere con il mondo del business. Su questo con una bella presentazione si era già espressa Jane McGonigal
  • la banalizzazione di concetti complessi cercando di ridurre tutto all’impiego del gioco e riconducendo qualunque processo a questo
  • la semplificazione eccessiva di strategie e processi di business
  • una novità, un fenomeno nuovo o qualcosa di mai sperimentato nel passato. Il concetto di Gamification ha oltre 10 anni e applicazioni legate ai videogame e al gioco nei contesti di lavoro è ancora precedente.
  • la teoria dei giochi. Che è invece una teoria economica che poggia su altre basi e che non riguarda la Gamification. Si veda anche:

Giunti a questo punto risulta evidente che la Gamification rappresenta un approccio strategico di valore che vede nell’applicazione di dinamiche, meccaniche ed estetiche [2] proprie del gioco e dell’ambito ludico e videoludico un asset fondamentale per massimizzare il valore che viene co-generato all’interno dell’intero ecosistema aziendale (partner, fornitori, stakeholder, clienti finali, consumatori, dipendenti…). In questo senso diventa un prezioso strumento per tutti coloro che siano sinceramente interessati ad applicarla al proprio contesto.
Cerchiamo quindi di capire quali siano le modalità migliori per applicarla e quali soluzioni possano derivarne.

Quali scenari e applicazioni concrete per la Gamification?

Compreso il perimetro di riferimento della Gamification quali sono i processi e le applicazioni che possono darci maggiore evidenza di quali siano le concrete risultanti della Gamification all’interno dei processi di business?
Ecco alcuni livelli di intervento propri della Gamification che spesso si ritrovano nelle organizzazioni più mature e nelle applicazioni più interessanti.

  • intranet collaboration e engagement. Con l’impiego di nuove intranet e di nuovi strimenti collaborativi all’interno dell’azienda o il potenziamento di quelle che già si anno. Si veda per esempio l’applicazione di Nitro alla Social Business Suite Jive. [3].
    Sono molte – in questo senso – le soluzioni di SBS che includono ormai di default delle meccaniche e delle dinamiche di gaming. Certo: vale quello che si diceva prima. La cosa ha un effetto se e solo se è opportunamente calata in precisi e concreti obiettivi di business che siano raggiungibili e misurabili. Altrimenti è un banale esercizio di stile.
  • Efficientamento delle pratiche attraverso una migliore gestione dei processi e obiettivi più comprensibili. Darsi obiettivi, visualizzare come si possono raggiungere e raggiungerli venendo premiati in modo formale e informale per questo.
  • Knowledge Management. Nella gestione delle risorse e delle informazioni un contributo “dal basso” può essere sicuramente rilevante.
  • Human Resources, nello specifico:
    • Nelle procedure di recruiting e di attrazione dei talenti. In questo senso ottima è l’esperienza di Plantville fatta da Siemens. [4]
    • Nell’induction dei nuovi assunti.
    • Nella review delle performance. In un mix (si veda anche quello che descriviamo in seguito) tra incentivi e riconoscimenti classici e formali e incentivi informali di riconoscimento più esteso e più ampio
    • Nel riconoscimento e nel premiare i dipendenti. Chiaramente il tutto deve essere connesso a una politica di HR di ampio respiro e a un contesto molto più strutturato e in grado di prevedere cambiamenti di questo tipo e logiche che vadano verso una direzione differente.
    • Nell’e-Learning e in generale nello stimolo dei processi di apprendimento attraverso il gioco e simulazioni più ludiche e ingaggianti
  • All’interno dei processi di innovazione per strutturare un’azienda maggiormente aperta e maggiormente in linea con i principi del Social Business. In questo senso possiamo considerare la piattaforma MyStarbucksIdea [5] che include al suo interno elementi di Gamification.
  • All’interno del marketing e della promozione: verso l’esterno dell’azienda per ingaggiare in modo molto più attivo i consumatori e i clienti finali all’interno delle branded community (si vedano per esempio i casi di Dell – e delle sue community – in questo senso).

Uno dei temi maggiormente interessanti quando si parla di Gamification è sicuramente quello relativo alla motivazione e al superamento dell’empasse tra un disengagement totale dei dipendenti che stiamo attualmente vivendo e che sempre più organizzazioni si trovano oggi a dover fronteggiare. In questo senso si veda anche il report di Gallup del 2013 sul calo totale di motivazione all’interno del workplace in US.
In questo senso un report di PwC [6] del quale abbiamo parlato anche in questa sede mostra aspetti di connessione molto interessanti con la Gamification e i processi dei quali stiamo discutendo.

Recenti studi in ambito motivazionale (si veda anche l’ottimo volume di Daniel Pink Drive) mostrano l’inefficacia dei classici sistemi d’incentivo (economico o meno) che sono stati storicamente utilizzati dalle aziende. Il classico meccanismo “del bastone e della carota” (ti premio se fai bene e ti punisco se fai male, in una logica molto genitoriale) non funzione e mostra – ormai sempre più palesemente e insistentemente – la sua inefficacia. Ma perché questo modello non funziona?
Di Daniel Pink potete vedere qui anche un approfondimento al TED di qualche anno fa che merita – a mio avviso – la visione e che tratta proprio il tema in esame.

  • Abbatte la motivazione intrinseca delle persone
  • Il locus of control (ciò che controlla la nostra motivazione a fare le cose e il nostro senso di efficacia) viene spostato sull’esterno, da fattori che non dipendono da noi. Tendiamo quindi a dare la colpa all’esterno dei nostri insuccessi e a credere che i nostri successi siano un caso o frutto della fortuna.
  • I comportamenti diventano addictive, diminuisce il senso di autoefficacia e la volontà delle persone nel migliorare quello che fanno.
  • Orienta gli atteggiamenti e consolida i comportamenti nel breve termine: impedendo un apprendimento significativo e sul lungo termine aumentando resistenze al cambiamento e difficoltà evolutive. In questo senso si diventa molto molto simili ai famosi cani di Pavlov in cui a stimolo corrisponde risposta immediata, ma comprendete anche voi come l’approccio sul lungo termine non sia sostenibile.
  • La capacità di pensare fuori dagli schemi è inibita. Le persone (come ben mostrato anche nell’esperimento della candela) tendono a essere meno efficaci nella generazione di nuove idee.
  • Contrasta i comportamenti positivi: per esempio ricerche dimostrano che un sistema d’incentivi esterni riduce la volontà di fare beneficenza e di compiere azioni senza secondi fini.
  • Specularmente incoraggiano comportamenti negativi e poco etici. Considerando l’incentivo estrinseco come unico “motivatore” vengono incoraggiate. In questo senso quindi l’incentivo estrinseco è qualcosa che può portarci a “barare” e giocare “sporco” perchè l’obiettivo finale dell’incentivo diviene prioritario rispetto a quello che sto facendo e rispetto al processo che sto portando avanti.

Mihaly Csikszentmihalyi ha identificato negli anni passati un modello molto interessante che viene definito “Flow” o modello dell’esperienza ottimale (o ancora stato di flusso). Quello che il professore ungherese sostiene è che, perché si possa “entrare in flow”, devono essere presenti alcune condizioni, la prima delle quali è un bilanciamento perfetto tra sfide offerte dall’ambiente e capacità/competenze del soggetto. Capacità troppo elevate in un contesto semplice annoiano il soggetto mentre il contrario porta ad uno stato di ansia.
In sostanza se riusciamo a mantenere un bilanciamento adeguato tra questi due aspetti possiamo entrare in uno stato di Flow, uno stato in cui il soggetto sperimenta un altissimo senso di piacevolezza, consapevolezza nell’azione, autoefficacia e in cui vede accrescere emozioni positive e senso di controllo della situazione diventando maggiormente proattivo, resiliente ed efficace nell’azione che sta portando avanti. La Gamification – attraverso precisi set di obiettivi, di ricompense e di meccaniche proprie del gioco – è in grado di sostenere questo stato e di alimentarlo, con grande vantaggio motivazione e di coinvolgimento della persona e gioca quindi un ruolo fondamentale nella motivazione e nel mantenimento degli obiettivi prefissati. Ma perchè lo stato di Flow risulta così importante e interessante per il lavoro? Perchè il fatto di riuscire a mantenerlo, e in questo la Gamification è in grado di giocare un ruolo maggiore, ci rende migliori e in grado di dare il massimo.

In questo senso si tratta – ancora una volta – di ragionare in una direzione strategica ben definita.

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Ecco un altro video del TED in cui il professore ungherese collega il flow e il suo mantenimento ad un maggiore effetto sulle nostre vite in grado anche di renderci sensibilmente più felici rispetto a chi non fa esperienza di questo stato.

Progettare e realizzare un ambiente di Gamification

Nella realizzazione di un progetto esteso di Gamification ci sono alcuni aspetti che devono essere considerati come punti di partenza imprescindibili dai quali fa partire tutta la progettazione. Werbach e Hunter ne sintetizzano alcuni nel loro volume For the Win: How Game Thinking Can Revolutionize Your Business

Nello specifico:

  • Definire obiettivi di business specifici: è impossibile realizzare una seria iniziativa di Gamification senza che questa sia connessa a obiettivi di business misurabili e identificabili nello specifico con precise metriche e valutazioni. Se non abbiamo obiettivi non sappiamo dove stiamo andando, se non sappiamo dove stiamo andando non possiamo nemmeno capire se stiamo facendo bene o meno.
  • Decidere quali comportamenti i nostri utenti devono agire per raggiungere gli obiettivi che ci siamo posti
  • Capire e descrivere chi sono i nostri player e che cosa devono poter fare e non fare
  • Prevedere cicli di attività: progettare – sin dall’inizio – come si dovranno comportare i player è fondamentale per capire come organizzare l’esperienza di Gamification che stiamo realizzando. Organizzare dei cicli e’ una delle azioni principali: chi fa cosa, quando e come. Anche in modo da prevedere dei picchi e dei momenti più di relax all’interno dell’esperienza di gaming.
  • Have fun! Alla fine la gamification nasce anche e soprattutto per divertire e far divertire quindi questo ingrediente non deve mancare
  • Strutturare e prevedere i tool adeguati: la tecnologia – anche nel caso della Gamification come in molti altri aspetti – è un contesto abilitante, non lo scopo finale. Permettere alle persone di lavorare meglio, con modalità più efficaci ed efficienti grazie a queste strategie è il compito delle aziende e delle organizzazioni di oggi.

Per concludere penso non ci siano parole migliori di quelle di Joseph Chilton Pearce: «Play is the only way the highest intelligence of humankind can unfold».

E non dimentichiamoci anche di applicare la Gamification alla nostra vita quotidiana!


[1] Associazione Editori e Sviluppatori Videogiochi Italiani http://www.aesvi.it/

[2] Meccaniche, Dinamiche ed Estetiche sono identificate da un modello molto apprezzato in letteratura (Hunicke, Robin; LeBlanc, Marc; Zubek, Robert, MDA: A Formal Approach to Game Design and Game Research) http://en.wikipedia.org/wiki/MDA_framework.

[6] Il whitepaper di PricewaterhouseCoppers http://www.pwc.com/us/en/technology-forecast/2012/issue3/index.jhtml

Negli ultimi mesi mi è capitato di leggere e analizzare moltissimi report dedicati al social business e a come i nuovi strumenti digitali stiano modificando i contesti organizzativi nei quali – quotidianamente – ci muoviamo.
Come spesso emerge esiste però uno scollamento tra quanto si legge sui report e quanto in realtà sperimentiamo.
In questa direzione, una delle domande che mi viene fatta più spesso – anche quando in aula e mi capita di citare i grandi casi di successo – è proprio: “Ma in Italia?” 

Ciò che emerge è proprio questo: la mancanza di dati strutturati e sistematizzati sullo stato della social collaboration nel nostro paese.

Assieme a Emanuele Quintarellihttp://www.socialenterprise.it/ ) abbiamo deciso di colmare – o perlomeno di provare – questo gap, cercando di raccogliere dati significativi, imparziali e completi sull’evoluzione di questo mercato nel nostro paese. 
In questa direzione abbiamo quindi voluto realizzare una survey che indagasse lo stato dell’arte, gli ostacoli all’adozione di tecnologie e strategie di questo tipo, i desiderata, le applicazioni concrete e i trend futuri.

La Social Collaboration Survey 2013 si concentra quindi su 4 dimensioni fondamentali per la diffusione della social collaboration: cultura, organizzazione e processi, tecnologia, misurazione.

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Con quale scopo?

I vantaggi dell’avere dati aggiornati sono molteplici, sia per i consulenti che si muovono in questo settore sia per le aziende che avrebbero modo di capire:

  • Lo stato dell’arte rispetto ad altri paesi nel mondo cercando un confronto arricchente ed evolutivo
  • Il loro posizionamento rispetto ad altre realtà nazionali comparabili
  • Quali siano le best practice e gli errori da evitare nel caso maturi una volontà nell’evolvere verso soluzioni di questo tipo
  • In che modo vengano allocati e distribuiti i budget all’interno di iniziative di questo tipo
  • In che modo si comportino le differenti industry e se siano rintracciabili dei trend trasversali o dei fattori differenzianti significativi
  • Quali sono le figure aziendali coinvolte all’interno di strategie e iniziative di social collaboration
  • Fino a che punto si possa investire in questa direzione nel nostro paese: sia in termini di ritorno economico sia in termini di percezione da parte degli utenti
  • Quale sia lo stato attuale della collaborazione all’interno delle aziende italiane
  • La penetrazione di tecnologie in ambito mobile e all’interno del contesto lavorativo quotidiano

E’ per questi motivi che abbiamo scelto di realizzare un progetto completamente gratuito, senza fini di lucro e gestito interamente nel nostro tempo libero. I nomi dei partecipanti saranno mantenuti anonimi mentre gli esiti della raccolta dei dati e dell’analisi (che si chiuderà a Settembre 2013) verrano resi pubblici e condivisi liberamente. 

Proprio perché il successo di questa iniziativa – che reputiamo molto interessante e valida – dipende da tutti, noi vi chiediamo uno sforzo comune, una vera e propria chiamata alle armi per completare la survey e per farla circolare tra i vostri contatti.

Questa iniziativa è mossa da una sincera sete di conoscenza e di volontà di aiutare aziende, manager e consulenti che hanno scelto di intraprendere la via della trasformazione digitale della propria organizzazione.

Cosa ne dite? Siete dei nostri?
Contiamo su di voi!

Ecco di nuovo il link e grazie in anticipo!
Qui trovate anche il post di Emanuele con i riferimenti dell’indagine.

Un report del CEB di qualche mese fa (http://www.executiveboard.com/) mette in evidenza alcuni cambiamenti interessanti e alcune dinamiche significative che ci consentono di porre l’attenzione sui cambiamenti che sono avvenuti e che stanno avvenendo all’interno delle nostre aziende.
In un contesto dove né l’innovazione né il fatturato sono più sufficienti a decretare il successo o il fallimento di un’azienda diviene necessario ripensare le logiche tradizionali e i meccanismi classici secondo i quali strutturiamo la nostra operatività quotidiana.
Nello specifico il report mette in luce alcuni dati molto interessanti che meritano di essere sottolineati e portati alla luce.

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Il nuovo contesto socio economico che stiamo vivendo impone alcuni cambiamenti e presenta alcuni – significativi – impatti sul modo di fare business delle aziende:

  • esiste uno scollamento tra la produttività effettiva e quella percepita. O per meglio dire, i dati dimostrano uno sbilanciamento a fronte del quale a maggior lavoro non corrisponde – affatto – una maggiore resa e produttività. L’80% delle persone intervistate riporta una crescita nel carico del lavoro negli ultimi 3 anni e oltre il 50% una crescita conseguente dello stress.
  • Esiste un bias molto consistente anche tra quello che i dipendenti percepiscono (limite nel loro workload) e quello che gli executive richiedono (la maggior parte di loro ritiene che si possa lavorare ancora un 20% in più) e che solo il 29% dell’intera forza lavoro stia lavorando al massimo delle sue possibilità.
  • L’economia globale è meno stabile rispetto al passato, la tecnologia si evolve in modo estremamente rapido e le informazioni sono diventate ubique assumendo una dimensione estremamente importante. Negli ultimi 3 anni il 63% dei dipendenti ha riportato significativi cambiamenti nel proprio modo di lavorare e nelle sfide quotidiane che sono costretti ad affrontare.
  • La dimensione della collaborazione sta diventando fondamentale e cruciale, come si legge nel report:

As organizations have become more matrixed, employees across the organization share formal responsibilities, authority, and accountability for more work outcomes. While informal working relationships and networks have always been important, getting work done today requires more collaboration among a broader and more diverse set of people who are performing new tasks and working across more geographic locations. Collaborating today is harder than it was yesterday.
[…]

Ma la collaborazione all’interno delle aziende non è cosi semplice come si potrebbe pensare:

  • Il 67% dei dipendenti ritiene che ci sia un aumento di lavoro che richiede – per essere svolto – necessariamente la collaborazione di tutto l’ecosistema aziendale.
  • Il 50% ritiene che siano aumentati gli stakeholder necessari per la presa di decisione
  • Nel 57% dei casi analizzati dall’indagine si registra un aumento nei casi di coworking
  • Il 65% riporta la necessità di coinvolgere anche gli stakeholder esterni all’azienda per il raggiungimento dei propri obiettivi professionali. In questo senso riflessioni che riprendono molto i concetti propri del social business e dell’evoluzione dell’azienda verso una social organization soprattutto nella dimensione che vede l’abbattimento dei silos e delle barriere esterne e interne dell’azienda.
    Con una precisazione su cui fare attenzione però! Come si legge anche nel report:

Collaboration will not occur unless organizations enable and encourage broader employee networks—connecting employees as needed and providing clear direction, aligned incentives, integrated workflow, and better technology.

Diviene dunque necessario – oggi più che mai – e per chi non lo avesse ancora capito, allineare i flussi di conversazione interni con quelli esterni, realizzare progetti integrati che sappiano unire le differenti dimensioni aziendali e sappiano trasformare davvero l’azienda in un’organizzazione più aperta, più collaborativa, più partecipata e in grado di generare maggiore valore non solo in termini economici, ma anche – e soprattutto – dal punto di vista del coinvolgimento delle persone e del loro benessere.

Non finisce comunque qui. Cambiano anche le modalità effettive di lavoro:

  • il 76% dei dipendenti intervistati sostiene di aver notato un incremento nei lavori concettuali e nel tempo speso con dati e informazioni: come a dire che ognuno di noi è – ormai – un knowledge worker
  • 3/4 degli executive e dei C-Level aziendali riportano che almeno metà del loro team è ormai composto da knowledge workers
  • Tuttavia pur a fronte di questa tendenza non tutti i knowledge worker e non tutti i lavoratori sanno come lavorare correttamente con le informazioni di cui dispongono

Perché le aziende funzionino e perché sappiano dunque cogliere le sfide che vengono offerte dai mutati contesti economico-sociali è necessario sviluppare nuove competenze e nuove modalità organizzative che integrino nuove istanze e competenze fresche:

  • adattarsi al cambiamento anticipandolo e muovendosi in modo proattivo se necessario
  • lavorare in modo collaborativo è oggi fondamentale per poter ottenere davvero un ruolo differenziante rispetto ai competitor e affermarsi sul mercato
  • misurare, misurare e ancora misurare: esperienza, competenza, analytics e costante miglioramento devono essere le parole chiave per la costruzione di processi che funzionino e che sia possibile comprendere appieno e replicare con successo.
  • evolvere le logiche manageriali verso modelli più consapevoli che sappiano: riconoscere e premiare i talenti; sviluppare in modo rapido ma consistente le competenze nelle e delle persone, investire correttamente nella tecnologia come fattore abilitante
  • Ristabilire un ruolo efficace per i consumatori, consentendo loro di interagire e di partecipare nella generazione di valore dell’impresa
  • Investire nel networking e nella realizzazione di team con competenze multiple che possano essere componibili e applicabili/spendibili in modo differente su tutto l’ecosistema aziendale.

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Le persone vogliono collaborare, il mercato lo richiede.
Sta a noi dare questa possibilità alle imprese di oggi.

Di recente ho avuto l’occasione di leggere l’ultimo report di Altimiter dedicato all’evoluzione del Social Business.
Lo trovate a questo indirizzo: http://www.altimetergroup.com/research/reports/evolution-social-business

Partiamo dalle basi. La definizione che Altimiter da di Social Business è

The deep integration of social media and social methodologies into the organization to drive business impact.

In realtà questa definizione – senza voler essere pignoli sul focus meramente tecnologico che include (limitato in realtà rispetto ai risvolti e agli impatti che questo nuovo paradigma ha sulle organizzazioni e sui consumatori) – evidenzia uno dei primi problemi di molte social media strategy e di tanti dei progetti che negli ultimi anni sono stati fatti sui social media.
Quando si parla di social business e di digital transformation, il focus deve essere inevitabilmente connesso a obiettivi aziendali misurabili.

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Il report sottolinea bene alcuni problemi di coerenza e di capacità di scalare che molte aziende hanno incontrato nell’approcciarsi a questi strumenti, il mercato è cambiato: il tempo delle startup è finito. Più nello specifico:

  • Solo il 34% delle aziende ha la sensazione che la sua strategia sui social media sia connessa agli obiettivi di business
  • La maggior parte dei C-Level, dei Top-Manager non è coinvolta e non è consapevole di quello che avviene in azienda: manca committment dall’alto, uno degli aspetti fondamentali
  • Buona parte dei manager non è consapevole e non è adeguatamente formata rispetto a queste tecnologie. Molti di loro sono addirittura restii nell’uso e nell’impiego – anche a livello personale – delle social technologies.
  • Il 92% delle aziende ha almeno una risorsa dedicata ai social media nell’area Marketing/Comunicazione, mentre è meno del 20% la percentuale di aziende che ha destinato una risorsa di questo profilo su altre aree (Innovation, R&D, HR, IT…)
  • Gli effort che le aziende stanno facendo in questa direzione sono spesso non coordinati, frammentari, caotici e non riescono a far ottenere gli scopi preposti.
  • L’investimento in questo tipo di direzione è ancora molto limitato. Molto spesso non viene compresa la grande potenzialità di questi strumenti e – di conseguenza, come spesso accade – non sono considerate attività prioritarie da parte delle aziende.

Realizzare una Social Business Strategy
Come fare dunque per massimizzare il valore scambiato e co-costruito all’interno dell’ecosistema aziendale? Come fare per strutturare una social business strategy che sia davvero efficace e che trasformi davvero il nostro modo di fare – e di intendere – l’impresa?

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Altimiter identifica una roadmap evolutiva delle aziende e del processo che porta a divenire un Social Business a 360°.
Vengono enucleate 6 fasi fondamentali ognuna delle quali rispetta precisi principi e precise metriche di business.
Nel dettaglio:

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Step 1 – Listen to Learn
Comprendere il consumatore

  • Ascoltare ascoltare ascoltare: è il consumatore che ci dice chi siamo e – a volte – anche dove dobbiamo andare. 
  • Partire dall’ascolto attivo – come dimostrano i grandi casi storici (Dell, 2006) è uno degli assett principali per la costruzione di una seria strategia di presenza sui social media.
  • Non solo verso l’esterno: pilot, audit e processi di ascolto applicati all’interno delle imprese possono far comprendere appieno verso quale direzione andare. E – non di minore importanza – andare nella direzione di definire e individuare ambassador, influencer, e key-people all’interno dell’organizzazione.
  • L’approccio e l’attitudine verso l’ascolto devono guidare i processi strategici.

Step 2 – Presence: Stake Our Claim
Il secondo step da intraprendere è quello che vede il passaggio dal pensiero, dalla pianificazione all’azione: stabilire delle metriche connesse – ancora una volta  – agli obiettivi di business. La presenza social deve quindi essere sensata, non deve rappresentare un placeholder e deve essere strutturata secondo precise indicazioni e linee guida. La prima fase deve essere quella della strutturazione di una presenza seria. L’engagement è un passo sucessivo, curare la forma è – infatti – importante tanto quanto il contenuto.

Step 3 – Costruire l’engagement – Partecipare al dialogo
Il passo del coinvolgimento deve essere costruito con attenzione:

  • Partecipare alle conversazioni tra brand e utenti, facilitare, creare contesti abilitanti e community che consentano di costruire valore attorno al dialogo che i consumatori naturalmente fanno nascere
  • Evolvere il Customer Support in ottica di socializzazione dei processi (Social CRM)
  • Agire nel piccolo prima di scalare nel grande 

Strutturare un percorso, un processo significa procedere per piccoli passi e piccoli step. Non bisogna essere ossessionati – da subito – dal – ROI dei Social Media o dal ritorno degli investimenti, ma concentrarsi piuttosto sulla creazione e sullo scambio di valore all’interno dell’ecosistema aziendale.

Step 4 – Formalizzare: Organizzarsi per Scalare
Il passaggio successivo è quello di concentrare tutti gli sforzi in un’unica direzione e focalizzare ancora di più i propri obiettivi di business. Ma come mettere in pratica una serie strategia di Social Business e fare in modo che questa venga accolta all’interno dell’organizzazione?
Ecco alcuni punti chiave che vengono identificati:

  • Trovare un executive sponsor: coinvolgere i vertici dell’azienda, come dicevamo anche in apertura, è assolutamente fondamentale per il successo e la riuscita di questo tipo di azioni e di attività. Coinvolgere i C-Level e i top manager all’interno di questo processo consente di aumentare l’efficacia dei processi di digital transformation all’intero delle organizzazioni. 
  • Creare HUB, Champions e gruppi di ambassador: muoversi con l’ottica della rete coinvolgendo prima piccoli gruppi e poi ampliando sempre di più il contesto di execution.
  • Stabilire una governance: stabilire un piano di lavoro, delle regole e degli assett fondamentali attorno cui costruire l’intera strategia. I passi da intraprendere per la costruzione di una governance sono anch’essi ben dettagliati all’interno del report di Altimiter.
  • Formalizzare un nuovo modello di organizzazione.
  • Stabilire ruoli, processi, azioni e ownership precise per i task.

Step 5 – Diventare un Social Business
Socializzare tutti i processi di Business e arrivare ad essere una social enterprise significa estendere questi concetti a tutte le aree aziendali. Come riportato in questo schema il valore che è possibile generare è parecchio: dall’HR all’innovation, dal marketing alla comunicazione interna, dalla collaborazione dei dipendenti all’IT.

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Step 6 – Business is Social
L’ultimo step a cui tendere è quello che consente di andare nella direzione di un approccio olistico che consenta la socializzazione dell’intera azienda, processi in cui social e digital siano integrati all’interno di un unico sistema con lo scopo preciso di migliorare il modo di fare organizzazione.
E’, pertanto, ridefinire interamente l’azienda e la sua vision per ri-orientarla nei confronti del nuovo paradigma.
In questo senso per raggiungere e massimizzare l’efficacia di un processo di questo tipo è necessario avere una visione di lungo termine e insistere sugli obiettivi di business. Una parentesi (finale) importante è opportuna anche sulla tecnologia. Il discorso sulla tecnologia deve partire dalla riflessione che essa rappresenti un di cui e che sia da collegare – in primo luogo – agli obiettivi di business e a ciò che si vuole ottenere.