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Il report Human Capital Trends 2025 esplora le tensioni emergenti che le organizzazioni stanno affrontando nel mondo del lavoro. L’incertezza e la velocità del cambiamento stanno mettendo alla prova le strategie tradizionali, spingendo le aziende a ridefinire il loro approccio alla gestione delle persone, al valore del lavoro e all’adozione dell’intelligenza artificiale (AI). Cosa emerge dal report di Deloitte? Ecco alcuni dei messaggi chiave

I principali trend individuati

  1. Closing the Experience Gap – Il divario di esperienza tra i lavoratori e le esigenze delle aziende è in crescita, con impatti sul mercato del lavoro e sulle strategie di acquisizione del talento.
  2. What Moves Your People? – La personalizzazione della motivazione è cruciale per migliorare la performance umana e l’engagement.
  3. AI Is Revolutionizing Work – L’AI sta ridefinendo il valore del lavoro e richiede un aggiornamento dell’Employee Value Proposition (EVP).
  4. Is There Still Value in the Role of Managers? – Il ruolo del manager non deve essere eliminato, ma ripensato in chiave strategica con il supporto dell’AI.
  5. Reinventing Performance Management – Le tradizionali pratiche di valutazione della performance sono inefficaci nel migliorare realmente il rendimento umano.
  6. Reclaiming Organizational Capacity – Le organizzazioni devono eliminare il “lavoro inutile” per liberare capacità produttiva e focalizzarsi su attività ad alto valore.
  7. Stagility: Creating Stability for Workers for Organizations to Move at Speed – La stabilità è fondamentale per i lavoratori, ma deve coesistere con la necessità di agilità organizzativa.
  8. New Tech, New Work, Your Old Value Proposition Isn’t Enough – I vecchi modelli di valutazione della tecnologia non funzionano più: le aziende devono ridefinire il valore creato dalle nuove tecnologie nel contesto del lavoro.

I numeri chiave del report (alcuni)

  • Il 66% dei manager ritiene che i nuovi assunti non siano pronti per il lavoro.
  • Il 77% dei lavoratori afferma che l’uso dell’AI ha aumentato il loro carico di lavoro.
  • Solo il 6% delle aziende sta realmente investendo nella sostenibilità umana come strategia aziendale.
  • Il 72% dei leader ritiene che il sovraccarico lavorativo riduca l’efficienza complessiva.

I dati suggeriscono che le aziende devono trovare nuove strategie per affrontare queste tensioni, creando equilibrio tra efficienza organizzativa e sviluppo umano.


Trend 1: Closing the Experience Gap

Il divario tra le competenze richieste dalle aziende e quelle disponibili sul mercato è in crescita, rendendo più difficile il reperimento di talenti qualificati. Molti lavoratori, d’altra parte, faticano a trovare opportunità per acquisire l’esperienza necessaria, creando un ciclo di difficoltà che impatta sia le imprese che il mercato del lavoro.

Il problema

  • Mancanza di esperienza nei candidati – Il 66% dei manager ritiene che i nuovi assunti non siano pronti per il lavoro.
  • Barriere all’ingresso per i giovani lavoratori – Il 61% delle aziende ha aumentato i requisiti di esperienza per le posizioni entry-level.
  • Disoccupazione giovanile elevata – Il tasso di disoccupazione tra i laureati sotto i 25 anni ha raggiunto il 21,3% in Cina e il 42% in India.
  • Scomparsa delle posizioni formative – L’automazione sta eliminando ruoli base, riducendo le opportunità di apprendimento sul campo.

Soluzioni

  • Programmi di apprendistato e upskilling – Intel e Medtronic hanno creato percorsi formativi interni per facilitare l’ingresso nel mondo del lavoro.
  • Riduzione dei requisiti di esperienza – Le aziende devono valorizzare le competenze trasferibili piuttosto che basarsi solo sull’esperienza pregressa.
  • Simulazioni basate su AI – L’uso di strumenti digitali può accelerare l’apprendimento pratico.
  • Percorsi di crescita strutturati – Offrire sviluppo professionale continuo per colmare le lacune di esperienza.


Trend 2: What Moves Your People?

La motivazione dei dipendenti è un elemento essenziale per migliorare la performance e la retention aziendale. Tuttavia, solo il 33% dei lavoratori sente che il proprio manager comprenda davvero cosa li motiva. Personalizzare l’esperienza lavorativa diventa cruciale per migliorare il coinvolgimento e la produttività.

Il problema

  • Mancanza di personalizzazione – Le strategie motivazionali sono spesso generiche e non tengono conto delle differenze individuali.
  • Aspettative non soddisfatte – Il 60% dei lavoratori si aspetta che l’azienda faccia di più per riconoscere le loro esigenze personali.
  • Cambiamento nei driver motivazionali – Il 38% dei dipendenti afferma che ciò che li motiva è cambiato negli ultimi tre anni.
  • Rigidità nei modelli di incentivazione – Molti sistemi aziendali non permettono personalizzazione in termini di benefit e orari di lavoro.

Soluzioni

  • Approcci manageriali personalizzati – Unilever utilizza piani di sviluppo individualizzati per migliorare l’engagement.
  • Utilizzo dell’AI per il coinvolgimento – Swissport usa AI per personalizzare la comunicazione e gli incentivi ai dipendenti.
  • Modelli flessibili di benefit e orari di lavoro – Esempi come Land O’Lakes dimostrano il valore di un’employee experience su misura.
  • Analisi dei dati motivazionali – Raccogliere feedback costanti per adattare le strategie aziendali alle esigenze dei lavoratori.


Trend 3: AI Is Revolutionizing Work

L’intelligenza artificiale sta trasformando il mondo del lavoro, ridefinendo ruoli, processi e aspettative dei dipendenti. Tuttavia, senza un’attenta gestione, il rischio è che l’AI venga percepita più come una minaccia che come un’opportunità. Il 75% delle aziende sta adottando tecnologie AI, ma solo una minoranza ha sviluppato strategie per supportare i lavoratori in questa transizione.

Il problema

  • Aumento del carico di lavoro – Il 77% dei lavoratori afferma che l’AI ha aumentato il loro carico di lavoro anziché ridurlo.
  • Timore di sostituzione – Il 45% dei dipendenti teme che l’AI possa rendere il proprio ruolo obsoleto senza adeguate opportunità di riqualificazione.
  • Mancanza di governance chiara – Solo il 30% delle aziende ha definito policy chiare su come integrare AI e lavoro umano.
  • Difficoltà nell’accesso ai benefici dell’AI – Molte aziende investono in AI per l’efficienza operativa, ma senza redistribuire i vantaggi ai lavoratori.

Soluzioni

  • Strategie di upskilling e reskilling – USAA investe nella formazione dei dipendenti per prepararli a nuovi ruoli in un ambiente AI-driven.
  • Redistribuzione dei benefici dell’AI – Waste Management ha introdotto incentivi economici basati sulla produttività aumentata grazie all’AI.
  • AI come alleato e non come sostituto – Amazon ha sviluppato un AI coach per supportare i dipendenti nella crescita professionale.
  • Ridefinizione della EVP nell’era AI – Integrare l’AI nel valore aziendale, bilanciando tecnologia ed esperienza umana.


Trend 4: Is There Still Value in the Role of Managers?

Il ruolo del manager è in forte trasformazione. Con l’avvento dell’AI e dei nuovi modelli organizzativi, alcune aziende stanno riducendo il numero di manager, mentre altre li stanno trasformando in figure più strategiche e meno operative. Il 78% dei CEO percepisce un elevato livello di incertezza nel business, aumentando la pressione sui manager, e il 40% di loro dichiara di soffrire di burnout.

Il problema

  • Sovraccarico e stress manageriale – Il 40% dei manager riferisce livelli elevati di burnout a causa delle crescenti responsabilità.
  • Necessità di un nuovo modello di leadership – Il 78% dei CEO ritiene che l’incertezza richieda una trasformazione nel ruolo dei manager.
  • Difficoltà nell’integrazione dell’AI – Molti manager faticano a utilizzare l’AI come strumento di supporto anziché vederla come una minaccia.
  • Rigidità dei modelli di gestione tradizionali – L’eccesso di burocrazia riduce la capacità dei manager di concentrarsi su strategia e sviluppo delle persone.

Soluzioni

  • AI come assistente decisionale – Goldman Sachs utilizza AI per supportare i manager nel mentoring e nella presa di decisioni strategiche.
  • Semplificazione della gerarchia – BMW ha sperimentato team auto-organizzati con meno livelli manageriali.
  • Focus sul coaching e sviluppo delle persone – I manager devono essere formati per diventare facilitatori di crescita e non solo supervisori.
  • Revisione del performance management per adattarlo alle nuove esigenze di leadership e autonomia.


Trend 5: Reinventing Performance Management

Il 57% delle aziende ha riformato i propri processi di performance management negli ultimi tre anni, ma solo il 22% ritiene che siano realmente efficaci. Le tradizionali valutazioni annuali non rispondono più alle esigenze di un mondo del lavoro rapido e in evoluzione. Le aziende devono spostare il focus dal semplice monitoraggio della performance alla crescita e allo sviluppo continuo delle persone.

Il problema

  • Sistemi di valutazione obsoleti – Il 57% delle aziende ha aggiornato i propri processi, ma il 78% dei lavoratori li considera ancora inefficaci.
  • Mancanza di feedback continui – Il 65% dei dipendenti preferirebbe un sistema di revisione costante piuttosto che valutazioni annuali.
  • Focus sui risultati a breve termine – Molti sistemi di performance management non tengono conto dello sviluppo professionale nel lungo periodo.
  • Scarso coinvolgimento dei manager – Senza strumenti adeguati, i manager non riescono a fornire un supporto efficace alla crescita dei team.

Soluzioni

  • Feedback continuo e personalizzato – Amazon utilizza AI per fornire feedback in tempo reale ai dipendenti.
  • Valutazioni basate sull’impatto e non solo sulla produttività – Deloitte ha sviluppato nuovi modelli di misurazione della performance che tengono conto anche del benessere dei lavoratori.
  • Approcci di coaching e sviluppo – Le aziende di successo stanno investendo in programmi di mentorship per far crescere le competenze dei dipendenti.
  • Utilizzo di AI per il performance tracking per garantire una valutazione equa e oggettiva.

Trend 6: Reclaiming Organizational Capacity

Le organizzazioni spesso confondono il concetto di produttività con la quantità di lavoro svolto, portando a un accumulo di attività poco strategiche e all’inefficienza operativa. Il 72% dei leader aziendali ritiene che il sovraccarico lavorativo riduca l’efficacia complessiva e che una gestione più intelligente delle attività possa liberare risorse da destinare a progetti ad alto valore aggiunto.

Il problema

  • Sovraccarico di lavoro inutile – Il 68% dei dipendenti passa gran parte del proprio tempo su attività amministrative e di coordinamento anziché su progetti strategici.
  • Eccesso di riunioni e comunicazioni inefficaci – Il 35% del tempo lavorativo viene sprecato in meeting non essenziali e scambi di email ridondanti.
  • Mancanza di strumenti per il lavoro efficace – Il 60% dei lavoratori lamenta la carenza di strumenti digitali integrati per migliorare la produttività.
  • Difficoltà nel ridefinire le priorità – Solo il 42% dei lavoratori afferma di avere una chiara comprensione delle attività prioritarie della propria azienda.

Soluzioni

  • Zero-based work – Applicare i principi dello zero-based budgeting al lavoro per eliminare attività ridondanti e focalizzarsi sulle iniziative più strategiche.
  • Ottimizzazione della gestione del tempo – Google ha ridotto del 30% le riunioni interne, migliorando significativamente la produttività.
  • Automazione delle attività ripetitive – Le tecnologie di automazione consentono di ridurre il tempo impiegato in attività amministrative e burocratiche.
  • Ridefinizione delle priorità aziendali – Le aziende devono aiutare i dipendenti a identificare le attività a più alto impatto e fornire linee guida chiare per migliorare l’efficienza operativa.

Trend 7: Stagility – Creating Stability for Workers for Organizations to Move at Speed

La necessità di agilità organizzativa spesso entra in conflitto con il bisogno di stabilità dei lavoratori. Il concetto di “stagility” (stabilità + agilità) è fondamentale per bilanciare queste due esigenze, offrendo ai dipendenti sicurezza lavorativa pur consentendo alle aziende di adattarsi rapidamente ai cambiamenti di mercato.

Il problema

  • Crescente insicurezza lavorativa – Il 54% dei dipendenti teme che le continue riorganizzazioni aziendali possano mettere a rischio la propria posizione.
  • Scarsa trasparenza nei percorsi di carriera – Solo il 40% delle aziende offre piani di crescita chiari per i dipendenti, aumentando il senso di incertezza.
  • Difficoltà ad adattarsi ai cambiamenti – Il 48% dei lavoratori fatica a stare al passo con le nuove competenze richieste dall’evoluzione del mercato.
  • Modelli di lavoro non flessibili – Il 62% delle aziende riconosce la necessità di modelli ibridi, ma trova complesso implementarli efficacemente.

Soluzioni

  • Benefit e percorsi di carriera strutturati – Le aziende devono garantire stabilità con percorsi di crescita definiti e trasparenti.
  • Modelli di lavoro ibridi – Il 60% dei dipendenti preferisce una combinazione tra lavoro remoto e in ufficio per bilanciare produttività e benessere.
  • Formazione continua e aggiornamento professionale – Investire nella crescita e nel reskilling riduce l’incertezza e aumenta l’engagement dei lavoratori.
  • Strutture organizzative flessibili – Adottare modelli organizzativi adattivi per garantire agilità senza compromettere la sicurezza lavorativa.


Trend 8: New Tech, New Work, Your Old Value Proposition Isn’t Enough

L’adozione di nuove tecnologie sta trasformando il modo di lavorare, ma le aziende spesso adottano innovazioni senza una chiara strategia su come queste influenzeranno il valore offerto ai dipendenti. La tecnologia non può essere valutata solo in base al ritorno economico, ma deve considerare anche il suo impatto sulla collaborazione, il benessere e la crescita professionale.

Il problema

  • Mancanza di una strategia chiara per la tecnologia – Il 67% delle aziende investe in nuove tecnologie senza una roadmap chiara sull’impatto che avranno sui lavoratori.
  • Gap di competenze digitali – Il 52% dei dipendenti ritiene che la formazione ricevuta sulle nuove tecnologie sia insufficiente per sfruttarle al meglio.
  • Focus esclusivo sull’efficienza operativa – Molti investimenti tecnologici vengono misurati solo in termini di costi ridotti, trascurando il loro impatto sulla qualità del lavoro.
  • Resistenza al cambiamento – Il 49% delle aziende trova difficoltà nell’integrare nuove tecnologie senza compromettere il morale e l’engagement dei dipendenti.

Soluzioni

  • Ridefinizione del valore della tecnologia – Le metriche di successo devono includere creatività, collaborazione e benessere dei dipendenti.
  • Programmi di upskilling e digital literacy – Le aziende devono investire in percorsi di aggiornamento per garantire che i dipendenti possano sfruttare appieno le nuove tecnologie.
  • Integrazione intelligente dell’AI – L’AI deve essere adottata per migliorare l’esperienza lavorativa, riducendo il lavoro ripetitivo e lasciando spazio a compiti ad alto valore.
  • Business case basati sul valore umano – Ogni investimento tecnologico dovrebbe essere valutato anche per il suo impatto sulle persone, non solo sul bilancio aziendale.


Conclusioni

Le organizzazioni devono affrontare tensioni complesse: dall’adozione dell’AI alla gestione della motivazione, dalla necessità di agilità alla creazione di stabilità per i lavoratori. Le aziende che sapranno bilanciare questi elementi e investire in innovazione sostenibile saranno quelle che guideranno il futuro del lavoro.


Nota Metodologica

Il report si basa su un’analisi globale condotta su un campione di oltre 10.000 leader, manager e dipendenti provenienti da oltre 100 paesi. L’indagine è stata realizzata attraverso survey quantitative per raccogliere dati statistici e interviste qualitative per comprendere percezioni, sfide e aspettative. L’obiettivo è stato identificare le principali tendenze che stanno ridefinendo il mondo del lavoro e fornire alle organizzazioni insight strategici per affrontarle con successo.

Già Wenger (1991; 2006) nel suo celebre lavoro sulle comunità di pratica ha sottolineato l’importanza, sia per le organizzazioni sia per gli individui, di cogliere quell’apprendimento inafferrabile, intangibile che rappresenta – però – il vero nucleo di conoscenze che si possiedono. Considerato in questo modo, l’apprendimento diviene un fenomeno emergente che si colloca in un orizzonte di riflessione sulle pratiche e sugli interessi soggettivi delle persone che fanno parte di comunità in cui scambi e relazioni oltreché attività concrete fanno da collante strutturale. La riflessione sulle CdP non riguarda però semplicemente l’apprendimento ma considera molto da vicino anche i cambiamenti organizzativi che sono connessi a un approccio di questo tipo. A livello molto generale possiamo considerare le tecnologie di digital collaboration – se opportunamente organizzate – come un’evoluzione del concetto di comunità di pratica teorizzato da Wenger.

In questa stessa direzione Lipari (2009) definisce la pratica come

un processo d’azione stabilizzato e al tempo stesso dinamico, ha luogo in un contesto storico-sociale determinato e coinvolge individui e gruppi nello svolgimento di attività le cui caratteristiche tecniche, operazionali e di significato si strutturano nel tempo consolidandosi in abitudini che a loro volta si fissano nella memoria collettiva, diventando tradizione e punto di riferimento per l’azione di tutti” (pp. 24-26).

A livello organizzativo le comunità di pratica rappresentano quindi un anello di congiunzione fondamentale tra la conoscenza tacita e non strutturata presente all’interno dell’impresa e la conoscenza formale, gerarchizzata e strutturata all’interno dei silos organizzativi. In questo la social collaboration si pone come veicolo ideale per: (1) portare alla luce e far emergere pratiche consolidate all’interno del modus operandi dei dipendenti, spesso inconsapevoli di quello che – effettivamente – conoscono; (2) cristallizzare la conoscenza all’interno di unità definite e organizzabili (e.g. un wiki, un forum, un’area di discussione condivisa); (3) diffondere e rendere riutilizzabile nel tempo la conoscenza acquista e formalizzata all’interno dell’impresa [1].

Il concetto di CdP non è però l’unico al quale il percorso di digitalizzazione dell’azienda fa riferimento. Un’altra dimensione importante è quella di cultura organizzativa, primariamente teorizzata da Jacques nel volume The Changing Culture of a Factory (1951) e ripresa da Schein (1990) in diversi studi. Sommariamente possiamo definire la cultura organizzativa come un insieme di assunti di base che si sono rivelati particolarmente validi tanto da essere trasmessi ed indicati come modo corretto di percepire, pensare e sentire all’interno dell’impresa. Il sapere e le conoscenze accumulate nel tempo dall’organizzazione sono poi trasmessi attraverso specifici processi di comunicazione. Secondo Schein la cultura organizzativa si compone di:

  • Artefatti: creazioni ed espressioni artistiche, tecnologie impiegate, comportamenti manifesti e linguaggio scritto e orale proprio di un’organizzazione
  • Valori: modalità operative, principi, credenze e idee, codici morali ed etici
  • Assunti di base: assunzioni implicite e inconsapevoli, modalità di percepire e di pensare, indicazioni fondamentali circa l’organizzazione.

A livello di digital transformation risulta fondamentale indagare la cultura organizzativa con un duplice scopo: (1) valutare e comprendere la prontezza individuale e dell’impresa nell’intraprendere un percorso di cambiamento organizzativo. Non necessariamente il digitale rappresenta una strada che l’impresa intende intraprendere e lanciare un progetto di questo tipo senza aver opportunamente indagato la cultura sottesa può rappresentare un rischio enorme per il successo del progetto. (2) Indagare la cultura e la prontezza dell’impresa risulta utile per identificare in anticipo eventuali possibili problemi e resistenze che potrebbero impedire l’adozione di un approccio collaborativo e indirizzarli in anticipo per poter trovare soluzioni significative.

Altre dimensioni di analisi che toccano il fenomeno della digital collaboration e che riguardano più da vicino il tema dell’employee engagement inteso come uno stato psicologico positivo dell’individuo sono rintracciabili nel percorso di evoluzione verso un modello maggiormente digitale e collaborativo. Sono molte – in questa direzione – le ricerche che hanno dimostrato gli effetti positivi che un elevato engagement dei dipendenti ha sull’intera azienda. Miglioramento dell’impegno organizzativo e alte prestazioni (Salanova, Agut e Peirò, 2005), basso assenteismo, capacità di servire meglio il cliente, migliore soddisfazione personale, riduzione del rischio di burn-out. Un migliore engagement stimolato dalle community interne di dipendenti basate sulla collaboration non solo darebbe numerosi benefici ai dipendenti, ma sarebbe in grado – in modo indiretto – di migliorare la produttività dell’impresa in una dinamica win-win.

A questo concetto strettamente si correla quello di clima organizzativo, un costrutto psicologico che sottolinea l’importanza di trovare un buon equilibrio tra produttività e soddisfazione personale dei dipendenti intesa anche come qualità della vita professionale condotta. Il clima organizzativo ci aiuta a porre in evidenza in che modo i processi di digital e social collaboration vadano a contribuire al rafforzamento di un clima positivo, basato su modalità di lavoro più snelle, immediate, agili e in grado di rispondere più velocemente alle sfide che sono imposte dal mercato. Il clima organizzativo influenza (ed è influenzato) da numerosi punti chiave sui quali si basano gli approcci collaborativi:

  • gerarchia e ruoli all’interno dell’azienda, contribuendo a rendere maggiormente rilevante la competenza rispetto alla posizione occupata all’interno dell’organizzazione;
  • sistemi di riconoscimento e incentivi nell’adozione di meccanismi che premino non soltanto i risultati, ma il modo attraverso cui si raggiungono, non solo l’ambito economico ma anche la reputazione personale e la visibilità interna ed esterna all’impresa;
  • responsabilità individuale: fornendo a tutti la capacità di esprimersi in prima persona e di rispondere delle proprie azioni aumentando il senso di autoefficacia complessivo e la capacità delle persone di costruirsi un network di fiducia personale;
  • motivazione delle persone: dell’employee engagement abbiamo parlato in precedenza, in questa sede basti sottolineare l’importanza e l’impatto – molto elevato – che ambienti collaborativi hanno nell’aumento della motivazione individuale delle persone che – a sua volta – gioca un ruolo decisamente significativo sul clima organizzativo
  • senso di appartenenza all’azienda: nessun uomo è un’isola e l’appartenenza a un gruppo rappresenta uno dei bisogni fondamentali dell’individuo. All’interno dell’azienda questo bisogno si esprime tramite il senso di appartenenza che può fortemente essere influenzato dalle modalità di lavoro collaborativo che consentono di socializzare esperienze (anche non necessariamente lavorative) e di mettere a fattor comune idee e progetti;
  • accesso alle informazioni: l’accesso alle informazioni viene notevolmente semplificato e il riutilizzo della conoscenza reso molto più immediato. Questo consente di ridurre i livelli di frustrazione complessiva e di migliorare l’ambiente di lavoro;
  • autonomia e coordinamento complessivi: ambienti collaborativi influiscono sul clima aziendale contribuendo alla creazione di spazi di maggiore autonomia e di coordinamento. Strumenti di questo tipo permettono – infatti – di rimanere allineati sul lavoro degli altri, di perdere meno tempo in riunioni e meeting di allineamento e di aggiornamento e di avere migliore visibilità su quanto accade all’interno dell’impresa. Tutto questo contribuisce, in maniera più o meno diretta a generare un clima aziendale più trasparente e meritocratico.

Un’ulteriore riflessione che si collega fortemente alla dimensione psicologica può essere fatta prendendo in considerazione direttamente lo strumento tecnologico che rende possibile l’introduzione di ambienti collaborativi nell’organizzazione. Le piattaforme digitali che entrano in gioco all’interno dei processi di definizione di social e digital collaboration, rappresentano di fatto dei medium. Riva (2008) rileva come i nuovi media portino sempre con sé quattro caratteristiche peculiari legate – appunto – al passaggio da un’informazione analogica a una digitale. Queste caratteristiche sono:

  • Modularità: riguarda la possibilità di scomporre il contenuto in una serie di elementi discreti (detti appunto moduli) ed è il coronamento della separazione tra i contenuti e il supporto fisico del medium.
  • Interattività: la possibilità di fruire il contenuto mediante la navigazione tra una serie di nodi che sono collegati tra loro.
  • Automazione: la possibilità di svolgere azioni in automatico, senza che l’utente ne sia necessariamente consapevole.
  • Variabilità: la possibilità che i nuovi media possiedono di essere riutilizzati e impiegati in modi differenti, producendo più versioni dello stesso oggetto.

L’introduzione di un medium all’interno di una cultura non implica una semplice rivoluzione tecnologica, ma, come sostenuto anche da Mantovani (1995) una vera e propria riconfigurazione delle opportunità di mediazione culturale a disposizione dei soggetti. Ancora una volta, e casomai ce ne fosse ancora bisogno, viene sottolineata l’importanza che la cultura gioca all’interno di processi di trasformazione di questo tipo. L’introduzione di un medium all’interno della situazione esperita dai soggetti – infatti – li impone e li obbliga ad adattarsi al cambiamento. Sempre Mantovani (1998) riprende l’interessante metafora del bastone del cieco elaborata da Gregory Bateson nel 1972 all’interno del suo celebre volume Verso un’ecologia della mente: il bastone di Bateson (il medium dei giorni nostri)

è una protesi che filtra l’informazione disponibile e rende accessibili solo determinate esperienze. Tutti noi siamo cechi, in un certo senso, ed esploriamo la realtà con l’aiuto di strumenti, gli artefatti, attraverso cui conosciamo le cose e agiamo nel mondo” (Mantovani, 1998 pp. 121-122).

In questo senso le piattaforme digitali di social collaboration possono essere lette non solo come un medium, ma come un’affordance in grado di fornire all’utente una vasta serie di potenzialità esplorabili che prima non erano nemmeno ipotizzabili.

Un altro concetto fondamentale per la comprensione dell’esperienza e di come questa viene modificata dai media digitali è quello di interfaccia. L’interfaccia può essere definita come

l’insieme di caratteristiche del medium che si pone in mezzo tra i diversi utenti consentendogli di raggiungere la propria intenzione” (Riva, 2008).

Ll’interfaccia assume una dimensione fondamentale e richiede una riflessione specifica non solo perché responsabile di come – effettivamente – è costruita l’intera esperienza, ma anche perché in grado di inibire o facilitare l’attuazione delle intenzioni all’interno del medium stesso [2]. L’interfaccia ha poi una funzione anche sulle informazioni che l’utente desidera fruire, attraverso la loro presentazione – infatti – guida l’utente nella scelta di ciò che deve essere colto dalla sua attenzione orientando la lettura della realtà che lo circonda. Riva (2008) rileva come – poi – l’interfaccia nei media digitali assuma caratteristiche specifiche che la portano a separarsi dal medium stesso e a porsi come una sorta di meta-medium, essendo caratterizzata da dimensioni fisiche, simboliche e pragmatiche proprie.

In sintesi si può dire che l’interfaccia all’interno dell’universo dei media digitali ricopra tre ruoli fondamentali:

  1. Rappresenta le caratteristiche del medium attraverso un modello.
  2. Rende “visibili” gli oggetti digitali contenuti al suo interno.
  3. Facilita l’uso mediante un’opera di filtro e selezione degli stimoli e dei contenuti.

Gli ambienti digitali possono essere, poi, analizzati alla luce della teoria dell’inter-azione situata che consente di comprendere meglio come i processi comunicativi e relazionali siano influenzati dall’essere all’interno di una situazione “aumentata” dai media.

Cercando di riassumere i concetti alla base di questa teoria, Riva (2008) chiarifica le dimensioni fondamentali che entrano in gioco durante una comunicazione mediata.

  • Intenzione: ogni comportamento è espressione di una complessa rete intenzionale organizzata su più livelli e messa in atto mediante una pluralità di canali, questa definizione è un’integrazione delle posizioni di Anolli (2006) e Pacherie (2008) con quelle della pragmatica della comunicazione (Watzlawick, Beavin e Jackson 1971). Le intenzioni sono una struttura dinamica organizzata su più livelli, questa si sviluppa gerarchicamente secondo tre fasi specifiche:
    • le intenzioni motorie (prensione, contrazione…): sono innate e la loro soddisfazione è data dall’azione stessa, l’oggetto di queste intenzioni è sempre il “semplice” movimento del corpo;
    • le intenzioni prossimali: nascono come combinazione di diverse intenzioni motorie dirette verso un oggetto del mondo presente, la loro soddisfazione dipende dal rapporto tra il contenuto intenzionale (prendere la macchina fotografica) e l’oggetto del mondo reale a cui è diretto (la macchina fotografica);
    • le intenzioni distali: sono composte da una catena d’intenzioni motorie e prossimali dirette verso un oggetto che può non far parte del mondo reale ma dell’universo del possibile.

La soddisfazione delle intenzioni motorie e prossimali riguarda sempre il rapporto tra il soggetto, il corpo e il mondo degli oggetti. La verifica delle intenzioni distali – invece – è sempre “situata”, in riferimento al rapporto tra il soggetto, le sue rappresentazioni e i suoi mondi possibili.

Accanto al concetto d’intenzione e del suo ruolo specifico nell’esperienza del soggetto, la teoria dell’inter-azione situata richiede l’ingresso in gioco di altri concetti ugualmente importanti, questi assunti riguardano la capacità di cogliere gli stimoli provenienti dall’ambiente (affordance) e la sensazione che sperimenta il soggetto (presenza e presenza sociale). Con il termine affordance s’intende l’opportunità di azione offerta dall’ambiente all’utente, una sorta d’invito – cioè – che l’ambiente rivolge a essere usato in un determinato modo . Le affordance si suddividono in due categorie:

  • Dirette: se sono il risultato di un flusso d’informazione. Sono stabili e non si modificano se non cambiando le proprietà fisiche dell’oggetto
  • Mediate: risultato di un’interpretazione che il soggetto attribuisce all’ambiente; a caratterizzare questo tipo di affordance è invece la sua relatività, infatti, è il risultato sia del significato attribuito all’oggetto, sia dell’analisi del contesto

L’affordance ha quindi carattere dinamico ed è il risultato di un’interpretazione di ciò che l’utente è in grado di cogliere dall’ambiente e non solo di ciò che l’ambiente (reale o digitale) è in grado di offrirgli.

Ma cosa ne è dell’esperienza del soggetto?  Quali sensazioni è possibile sperimentare all’interno di un ambiente digitale? Per rispondere a queste domande è possibile introdurre due concetti che forniscono una dimensione chiara di dove si collochi l’esperienza del soggetto all’interno di situazioni in cui entrano in gioco i media digitali.

  • Presenza: con questo termine s’intende la sensazione di “essere” all’interno di un ambiente fisico o digitale, che risulta dalla capacità/possibilità di attuare le proprie intenzioni (Riva, 2008: p. 127). Si divide, anch’essa, in tre livelli fondamentali:
    • protopresenza: ovvero, la capacità di attuazione delle intenzioni motorie attraverso il solo movimento del corpo;
    • presenza nucleare: la capacità – cioè – di attuazione delle intenzioni prossimali attraverso l’identificazione delle affordance dirette;
    • presenza estesa: capacità di attuazione delle intenzioni distali, attraverso l’identificazione delle affordance mediate.
  • Presenza sociale: la sensazione di “essere con altri da Sé” all’interno di un ambiente fisico o digitale, che risulta dalla capacità/possibilità di comprendere le intenzioni degli altri (Riva, 2008: p. 49). Anche in questo caso si possono distinguere tre differenti livelli:
    • proto-presenza sociale: la capacità di riconoscimento delle intenzioni motorie, che permettono al Sé di riconoscere un Altro intenzionale;
    • presenza sociale oggettuale: la capacità di riconoscimento delle intenzioni motorie e prossimali che consente al Sé di riconoscere un Altro la cui intenzione è rivolta verso di lui;
    • presenza sociale empatica: la capacità di riconoscimento delle intenzioni motorie, prossimali e distali, che consente al Sé di riconoscere un Altro le cui intenzioni corrispondano a quelle del Sé.

La teoria dell’inter-azione situata, quindi,

suppone che la coerenza dell’azione non sia spiegata adeguatamente da schemi cognitivi preconcetti, né da norme sociali istituzionali. Piuttosto, l’organizzazione dell’azione situata è una priorità emergente delle interazioni momento per momento degli attori” (Riva, 2008: p. 90).

Essere presenti all’interno di una specifica situazione riveste un ruolo importantissimo per l’apprendimento e per i processi di conoscenza ad esso legati: l’essere umano è tale in quanto immerso sempre in una situazione, in un ambiente che ne determina i confini e le possibilità. La situazione formativa e l’esperienza di apprendimento che ne deriva (sia essa auto-diretta dal soggetto o etero-diretta) è sempre la combinazione di più elementi che concorrono a determinare uno “sfondo” specifico (tempi, modalità, azioni, vincoli, relazioni…) all’interno del quale si muovono i soggetti (Reggio, 2003). A livello organizzativo questo legame si esplica molto bene nella relazione tra gestione della conoscenza e piattaforme collaborative e/o di apprendimento digitale.

Più in generale, sul duplice rapporto e influenza tra media (canali digitali e non) e cultura, esperienza del soggetto è stato scritto parecchio. Tra le posizioni maggiormente interessanti e in linea con la riflessione presentata all’interno di questo lavoro vi è sicuramente quella di Huges, che afferma:

un sistema tecnologico può essere la causa o l’effetto: può influenzare la società o essere influenzato da essa. Man mano che crescono e diventano più complessi, i sistemi tendono più a influenzare che a essere influenzati. Per questo motivo, il momento dei sistemi tecnologici è un concetto che può essere collocato a metà strada tra i poli del determinismo tecnologico e del costruttivismo sociale” (Hughes, 1994: pp. 103-104).

In questa stessa direzione si collocano anche le riflessioni del più recente modello bi-circolare bi-direzionale sviluppato da Antonietti & Colombo (2008) inizialmente introdotto per spiegare il rapporto tra studenti e Computer Supported Learning Tools (CSLT), ma il cui impianto si presta molto bene a descrivere il rapporto tra nuove pratiche, rappresentazioni mentali degli utilizzatori e media digitali in generale. Tale modello consente di tenere in considerazione come le rappresentazioni e le credenze (implicite o esplicite) delle persone circa il mezzo che utilizzano, influenzino concretamente i processi che sono attuati; al contempo, sottolinea anche le dinamiche bi-direzionali esercitate dal medium o dall’uso sull’utente e viceversa. La novità e insieme il pregio di questo modello è di porre l’accento su una dimensione spesso non considerata nelle ricerche che è quella relativa alle credenze implicite delle persone riguardo ad un determinato oggetto (tecnologia), sottolineandone il ruolo fondamentale sia nell’accettazione sia nell’utilizzo del nuovo strumento

Provando, quindi, a tracciare una sintesi di quanto espresso in queste prime pagine possiamo sostenere come l’influenza tra tecnologia, media ed esperienza umana sia una storia costellata da rapporti circolari e da feedback retroattivi più che da nessi di causalità lineare. L’analisi del rapporto tra uomo e tecnologia deve dunque – come sostenuto anche da Watzlawick (1976) – integrare le differenti prospettive al fine di allargare il più possibile l’orizzonte di comprensione.

A titolo conclusivo di questa breve rassegna, risulta quindi evidente il contributo fattivo che la psicologia della comunicazione può fornire nella comprensione dei contesti digitali e in particolar modo nel supportare il percorso di transizione dalle organizzazioni tradizionali a modelli maggiormente flessibili e agili basati sulla collaborazione e su una dimensione maggiormente umana, culturale e centrata sulla qualità dell’esperienza che viene percepita. In questo senso la psicologia della comunicazione può rappresentare sia il veicolo per comprendere al meglio i vari termini in gioco sia per supportare un cambiamento che sia più semplice ed efficace.

Bibliografia e riferimenti consultati

Anolli L. (2006), Fondamenti di psicologia della comunicazione, Il Mulino: Bologna

Antonietti A., Colombo B., (2008), Computer-supported learning tools: a bi-circular bi-directional framework, New Ideas in Psychology, 26, pp. 120-142

Hughes T.P. (1994), Technological momentum, in Smith M.R. e Leo M. (a cura di), Does technology drive history? The dilemma of technological determinism, MIT press: Cambridge, pp. 101-114

Lave’ J., Wenger E. (1991), Situated Learning: Legitimate Peripheral Participation, Cambridge University Press: Cambridge

Lipari D. (2009), La “comunità di pratica” come contesto di apprendimento. Personale e Lavoro, n. 509 pp. 24-26

Riva G. (2008), Psicologia dei nuovi media, Il Mulino: Bologna

Salanova M., Agut S., Peiro’ J. M. (2005), Linking Organizational Resources and Work Engagement to Employee Performance and Customer Loyalty: The Mediation of Service Climate. Journal of Applied Psychology, Vol 90(6)

Schein E. (1990), Cultura d’azienda e leadership, Guerini e Associati: Milano

Watzlawick P., Beavin J.H., Jackson D.D.  (1976), Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio: Roma

Wenger E. (2006), Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità, Raffaello Cortina Editore: Milano


[1] Su questo tema risulta estremamente significativa la citazione di Lew Platt sul sistema di knowledge management di HP, la famosa azienda produttrice di PC: “If only HP knew what HP knows, we would be three times more productive”. Per maggiori informazioni e una trattazione più approfondita del tema knowledge management all’interno di HP si rimanda a https://www.researchgate.net/publication/235269396_If_only_HP_knew_what_HP_knows_The_roots_of_knowledge_management_at_Hewlett-Packard

[2] Sull’importanza dell’interfaccia e della user experience all’interno di portali digitali di collaboration, intranet e – più in generale – di siti web è stato scritto parecchio. Tra i report e le fonti degne di nota si segnala, per approfondimenti, il lavoro che – ogni anno – Nielsen Group rilascia sulle Intranet: https://www.nngroup.com/reports/intranet-design-annual/

Questo recente articolo di McKinsey circa i bias che affliggono la presa di decisione nelle organizzazioni ben si presta a sottolineare uno dei punti chiave nella definizione di una strategia organizzativa che sia funzionale e adatta ai nostri obiettivi di business.

Che le persone non sappiano prendere una decisione, o che quantomeno, facciano estremamente fatica a essere dei decisori razionali ci viene confermato dalla psicologia cognitiva. Famosi in questo senso sono gli esperimenti condotti da Kahneman e Tversky (tra gli altri):

Dopo aver selezionato due gruppi di candidati, Tversky e Kahneman hanno posto il seguente problema chiedendo ai partecipanti cosa avrebbero fatto se la scelta fosse dipesa da loro: negli Stati Uniti sta per giungere una nuova malattia proveniente dall’Asia, sono a rischio le vite di 600 persone; al primo gruppo è stato proposto quanto segue:

  • Programma A: 200 persone si salvano
  • Programma B: 1/3 di probabilità di salvare tutti, 2/3 di probabilità di non salvare nessuno

I programmi per il secondo gruppo erano invece i seguenti:

  • Programma C: 400 persone muoiono
  • Programma D: 1/3 di probabilità che nessuno muoia, 2/3 di probabilità che muoiano tutti

Da un punto di vista di contenuto i programmi A e B sono del tutto equivalenti rispettivamente ai programmi C e D, eppure le risposte dei due gruppi sono state profondamente diverse. Nel primo gruppo è stato scelto il programma A nel 72% dei casi e il programma B nel restante 28%; nel secondo gruppo la scelta prioritaria (78%) è caduta sul programma D mentre il programma C è stato preferito solo nel restante 22% dei casi.

È evidente che al primo gruppo di candidati è stato sottoposto un messaggio in cui prevalevano elementi positivi, mentre il secondo gruppo è stato esposto a contenuti negativi. Si può notare che nel primo caso i candidati si sono orientati verso una risposta di tipo certo, nel secondo caso la polarizzazione delle risposte è invece avvenuta intorno alla soluzione di tipo probabilistico.

Si tratta di un classico esempio di come il “framing”, il modo – cioè – in cui viene presentato un problema, influenza il nostro modo di rispondere e di fornire una soluzione. 

Le organizzazioni, in questo senso, essendo composte da persone e da esseri umani – con i loro pregi e difetti – non sono esenti da questo tipo di problematiche.

Bias organizational

Come persone, all’interno delle organizzazioni di cui facciamo parte, e all’esterno di esse, siamo costantemente coinvolti in bias che ci fanno credere di: essere più competenti di quello che in realtà siamo, sottostimare la possibilità di fallire, sottostimare i nostri difetti e punti deboli, essere non soggetti agli errori che commettono gli altri…
Alcuni di questi errori all’interno della definizione di una strategia di business di un’azienda possono portare a vere e proprie crisi “esistenziali” che minano i presupposti stessi dell’organizzazione.

L’ottima ruota dei bias cognitivi mostra in modo semplice ed efficace l’enorme quantità di errori alla quale siamo soggetti quotidianamente

Cognitive Biases

Uno scenario tutt’altro che roseo che mostra quanto difficile sia realizzare strategie consapevoli che coinvolgano livelli di decisione differente.

Ma come possiamo muoverci in un contesto di questo genere? Come possiamo fare in modo che all’interno delle organizzazioni non si innestino questi meccanismi che ci portano – inevitabilmente – ad essere dei terribili decisori?

McKinsey consiglia alcuni punti chiave da tenere presente:

  • Diffondere una cultura basata sul dialogo e sul confronto. Il “non essere d’accordo” ha un valore fondamentale: in termini psicologici il group-think rappresenta uno dei rischi maggiori nella presa di decisione
  • Aumentare la propria consapevolezza e utilizzare meccanismi meta-cognitivi per analizzare i propri processi decisionali, sia nelle organizzazioni sia all’esterno di esse
  • Ingegnerizzare – per quanto possibile – la presa di decisione attraverso tool e strumenti che possano aiutarci a comprendere in che modo commettiamo errori

Come si legge anche in chiusura dell’articolo:

Companies can’t afford to ignore the human factor in the making of strategic decisions. They can greatly improve their chances of making good ones by becoming more aware of the way cognitive biases can mislead them, by reviewing their decision-making processes, and by establishing a culture of constructive debate.

Il grosso del lavoro da fare è dunque su se stessi: diventare migliori decisori, aumentare la propria consapevolezza sul funzionamento di questi processi ci aiuterebbe a diventare non solo dipendenti migliori ma anche persone maggiormente consapevoli e in grado di risolvere problemi e di pensare in modo strategico.

Un report del CEB di qualche mese fa (http://www.executiveboard.com/) mette in evidenza alcuni cambiamenti interessanti e alcune dinamiche significative che ci consentono di porre l’attenzione sui cambiamenti che sono avvenuti e che stanno avvenendo all’interno delle nostre aziende.
In un contesto dove né l’innovazione né il fatturato sono più sufficienti a decretare il successo o il fallimento di un’azienda diviene necessario ripensare le logiche tradizionali e i meccanismi classici secondo i quali strutturiamo la nostra operatività quotidiana.
Nello specifico il report mette in luce alcuni dati molto interessanti che meritano di essere sottolineati e portati alla luce.

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Il nuovo contesto socio economico che stiamo vivendo impone alcuni cambiamenti e presenta alcuni – significativi – impatti sul modo di fare business delle aziende:

  • esiste uno scollamento tra la produttività effettiva e quella percepita. O per meglio dire, i dati dimostrano uno sbilanciamento a fronte del quale a maggior lavoro non corrisponde – affatto – una maggiore resa e produttività. L’80% delle persone intervistate riporta una crescita nel carico del lavoro negli ultimi 3 anni e oltre il 50% una crescita conseguente dello stress.
  • Esiste un bias molto consistente anche tra quello che i dipendenti percepiscono (limite nel loro workload) e quello che gli executive richiedono (la maggior parte di loro ritiene che si possa lavorare ancora un 20% in più) e che solo il 29% dell’intera forza lavoro stia lavorando al massimo delle sue possibilità.
  • L’economia globale è meno stabile rispetto al passato, la tecnologia si evolve in modo estremamente rapido e le informazioni sono diventate ubique assumendo una dimensione estremamente importante. Negli ultimi 3 anni il 63% dei dipendenti ha riportato significativi cambiamenti nel proprio modo di lavorare e nelle sfide quotidiane che sono costretti ad affrontare.
  • La dimensione della collaborazione sta diventando fondamentale e cruciale, come si legge nel report:

As organizations have become more matrixed, employees across the organization share formal responsibilities, authority, and accountability for more work outcomes. While informal working relationships and networks have always been important, getting work done today requires more collaboration among a broader and more diverse set of people who are performing new tasks and working across more geographic locations. Collaborating today is harder than it was yesterday.
[…]

Ma la collaborazione all’interno delle aziende non è cosi semplice come si potrebbe pensare:

  • Il 67% dei dipendenti ritiene che ci sia un aumento di lavoro che richiede – per essere svolto – necessariamente la collaborazione di tutto l’ecosistema aziendale.
  • Il 50% ritiene che siano aumentati gli stakeholder necessari per la presa di decisione
  • Nel 57% dei casi analizzati dall’indagine si registra un aumento nei casi di coworking
  • Il 65% riporta la necessità di coinvolgere anche gli stakeholder esterni all’azienda per il raggiungimento dei propri obiettivi professionali. In questo senso riflessioni che riprendono molto i concetti propri del social business e dell’evoluzione dell’azienda verso una social organization soprattutto nella dimensione che vede l’abbattimento dei silos e delle barriere esterne e interne dell’azienda.
    Con una precisazione su cui fare attenzione però! Come si legge anche nel report:

Collaboration will not occur unless organizations enable and encourage broader employee networks—connecting employees as needed and providing clear direction, aligned incentives, integrated workflow, and better technology.

Diviene dunque necessario – oggi più che mai – e per chi non lo avesse ancora capito, allineare i flussi di conversazione interni con quelli esterni, realizzare progetti integrati che sappiano unire le differenti dimensioni aziendali e sappiano trasformare davvero l’azienda in un’organizzazione più aperta, più collaborativa, più partecipata e in grado di generare maggiore valore non solo in termini economici, ma anche – e soprattutto – dal punto di vista del coinvolgimento delle persone e del loro benessere.

Non finisce comunque qui. Cambiano anche le modalità effettive di lavoro:

  • il 76% dei dipendenti intervistati sostiene di aver notato un incremento nei lavori concettuali e nel tempo speso con dati e informazioni: come a dire che ognuno di noi è – ormai – un knowledge worker
  • 3/4 degli executive e dei C-Level aziendali riportano che almeno metà del loro team è ormai composto da knowledge workers
  • Tuttavia pur a fronte di questa tendenza non tutti i knowledge worker e non tutti i lavoratori sanno come lavorare correttamente con le informazioni di cui dispongono

Perché le aziende funzionino e perché sappiano dunque cogliere le sfide che vengono offerte dai mutati contesti economico-sociali è necessario sviluppare nuove competenze e nuove modalità organizzative che integrino nuove istanze e competenze fresche:

  • adattarsi al cambiamento anticipandolo e muovendosi in modo proattivo se necessario
  • lavorare in modo collaborativo è oggi fondamentale per poter ottenere davvero un ruolo differenziante rispetto ai competitor e affermarsi sul mercato
  • misurare, misurare e ancora misurare: esperienza, competenza, analytics e costante miglioramento devono essere le parole chiave per la costruzione di processi che funzionino e che sia possibile comprendere appieno e replicare con successo.
  • evolvere le logiche manageriali verso modelli più consapevoli che sappiano: riconoscere e premiare i talenti; sviluppare in modo rapido ma consistente le competenze nelle e delle persone, investire correttamente nella tecnologia come fattore abilitante
  • Ristabilire un ruolo efficace per i consumatori, consentendo loro di interagire e di partecipare nella generazione di valore dell’impresa
  • Investire nel networking e nella realizzazione di team con competenze multiple che possano essere componibili e applicabili/spendibili in modo differente su tutto l’ecosistema aziendale.

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Le persone vogliono collaborare, il mercato lo richiede.
Sta a noi dare questa possibilità alle imprese di oggi.

Il numero di Aprile di McKinsey Quarterly riporta uno studio molto interessante relativo al tema della networked enterprise. (E’ possibile trovarlo qui: http://www.mckinsey.com/insights/business_technology/evolution_of_the_networked_enterprise_mckinsey_global_survey_results). Vengono – infatti – riportati i risultati di un’analisi condotta su oltre 3,500 executives di tutto il mondo che mostrano la percezioni e lo stato dell’adozione delle social technologies all’interno di organizzazioni di tutto il mondo.

Tra i dati maggiormente significativi che emergono dalla ricerca sicuramente da segnalare resta – per l’appunto – quello legato all’adoption rate. Il mercato sta cambiando. Sempre più persone, anche tra i livelli aziendali strategici (C-Level) stanno usando i Social Media e i Social Network all’interno e all’esterno dell’azienda e dell’organizzazione per aumentare l’engagement e per ottenere risultati di business. I media digitali e l’intero processo che ha portato – negli ultimi anni e negli ultimi mesi – verso una digitalizzazione del workplace aziendale sta cominciando a essere considerato non più come una chimera o un fortunato accidente ma come un qualcosa a cui guardare con maturato interesse e strategia critica.

Si tratta di numeri molto interessanti – come riportato anche nella tabella mostrata – che evidenziano una industry in forte crescita che merita di essere analizzata da vicino. Come affermato più volte – in questa e in altre sedi – il mercato è cambiato: sono cambiati i consumatori, le modalità di trattare i propri dipendenti e la  stessa recessione sta evidenziando debolezze strutturali dei modelli gerarchici e di management 1.0 che risultano ormai di fatto inefficaci per gestire il nuovo e mutato scenario.

Come si legge nel report:

The share of executives who say their companies use at least one social technology continues to climb, from 72 percent in 20113 to 83 percent in 2012. More than half report the use of social networks—almost twice the level of 2009—while the two tools we asked about for the first time in the latest survey (videoconferencing and collaborative document editing) are among those that are used most frequently (Exhibit 1).

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Restano comunque alcuni punti critici:

  • sebbene le aziende (o perlomeno buona parte di esse) abbiano compreso la necessità di spostarsi verso un modello organizzativo nuovo, non tutte hanno cominciato a darsi da fare per farlo. Come a dire che la capacità di execution rappresenta ancora un fattore differenziante molto forte.  
  • I problemi maggiori nell’adozione delle nuove tecnologie social all’interno delle aziende riguardano molteplici fattori, tra i principali: mancanza di un’adeguata strategia, mancata volontà di assumersi responsabilità verso scelte nuove e spesso anche in controtendenza rispetto ai comportamenti ai quali siamo abituati, mancanza di un coordinamento, mancanza delle competenze adeguate per evolvere in questa direzione…
  • la mancanza di una strategia che traghetti le organizzazioni verso un modello di social business si fa sentire anche lato gestionale. La gestione delle modalità collaborative: tra dipendenti interni e tra consumatori e clienti esterni è spesso assegnata al caso, senza un preciso scopo e senza che i benefici possano essere replicabili e gestibili sul lungo termine.  
  • Gli approcci che sono stati tentati fino ad ora, perlomeno nella maggior pate dei casi, sono ancora troppo in un’ottica “mordi e fuggi” di progetti spot che non rappresentano un vero cambiamento per l’intero ecosistema aziendale. Iniziative di questo tipo cavalcano un picco di aspettative inflazionate per poi esaurirsi nel giro di pochi mesi dal lancio.
  • I budget che vengono allocati sono spesso sbilanciati. Pur essendo ormai chiaro che la dimensione tecnologica seppur di primaria importanza non è l’unica a cui prestare attenzione, molti stanno continuando a investire.
  • il coinvolgimento dei top manager resta sempre molto complesso e non è un caso raro che essi rappresentano proprio il punto debole nell’adozione delle strategie social all’interno delle organizzazioni.

Molto interessanti sono anche i risultati che mostrano ciò che è stato ottenuto dalle aziende grazie agli strumenti di social software che sono stati introdotti negli ultimi anni e i benefici effettivi che le aziende hanno potuto ritrovare nell’adozione di queste tecnologie nel contesto e nel tessuto organizzativo. 

Il ritorno maggiormente significativo che si incontra all’interno di questo processo è legato all’efficientamento dei flussi informativi e delle modalità di lavoro, ma si riscontrano benefici concreti anche nella gestione della conoscenza all’interno dell’azienda e nei processi maggiormente collaborativi che si riescono a instaurare, non sono verso l’interno ma anche sull’esterno dell’azienda (Co-Creation).
La tabella riportata mostra il cambiamento e la crescita che le tecnologie di questo tipo hanno avuto negli ultimi anni evidenziando anche i rami di competenza.

In questo senso si consideri anche quanto descritto nel report:

Financially, respondents say social tools contribute 20 percent and 18 percent, respectively, to the revenue increases and cost improvements their companies attribute to the use of all digital technologies. These percentages may appear small but are driven by the extent to which—and the ways in which—companies deploy the technologies. At companies using at least six tools (or half of the tools the survey asked about), executives say this usage amounts to a larger share of financial benefits. Even larger shares at the companies using six or more tools on mobile say so: these respondents report that social tools contribute 32 percent and 26 percent, respectively, to their companies’ revenue and cost-cutting benefits.

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Dall’altro lato aumentano in modo considerevole anche le aspettative nei confronti di questi strumenti.
Chi ha iniziato – negli ultimi mesi – a intraprendere il percorso della Digital Transformation si sta rendendo conto che le potenzialità da esplorare e gli orizzonti verso cui andare sono ancora molti e del tutto in sviluppo. Le possibilità per le aziende (come per altro sottolineato anche nell’indagine dello scorso Giugno della stessa McKinsey) sono ancora elevatissime e la strada da fare è ancora lunga. I maggiori cambiamenti si avranno in prospettiva nei prossimi 3-5 anni dove le aziende che non avranno intrapreso questa direzione difficilmente troveranno o riusciranno a trovare una collocazione in un mercato sempre più informato, competitivo e digitalizzato.

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Quale la direzione da intraprendere quindi?

Il processo – sulla carta – è molto semplice e ne abbiamo parlato altre volte in questa e in altre sedi. Si tratta di strutturare e di preparare una seria strategia che consenta di procedere per gradi, coinvolgere correttamente tutti gli stakeholder e le figure aziendali nel processo e di muoversi verso una direzione univoca. Il mercato ha ormai raggiunto un livello di maturità tale per cui i casi studio e le occasioni di crescita sono alla portata di tutti. Non vi sono più dubbi sull’efficacia di queste modalità e sulla possibilità che offrono di migliorare le nostre organizzazioni.

La vera sfida, la vera partita si gioca (oggi) e si giocherà domani sulla capacità di mettere in pratica, in modo concreto e fattivo, le occasioni che il mercato ci offre.