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Già Wenger (1991; 2006) nel suo celebre lavoro sulle comunità di pratica ha sottolineato l’importanza, sia per le organizzazioni sia per gli individui, di cogliere quell’apprendimento inafferrabile, intangibile che rappresenta – però – il vero nucleo di conoscenze che si possiedono. Considerato in questo modo, l’apprendimento diviene un fenomeno emergente che si colloca in un orizzonte di riflessione sulle pratiche e sugli interessi soggettivi delle persone che fanno parte di comunità in cui scambi e relazioni oltreché attività concrete fanno da collante strutturale. La riflessione sulle CdP non riguarda però semplicemente l’apprendimento ma considera molto da vicino anche i cambiamenti organizzativi che sono connessi a un approccio di questo tipo. A livello molto generale possiamo considerare le tecnologie di digital collaboration – se opportunamente organizzate – come un’evoluzione del concetto di comunità di pratica teorizzato da Wenger.

In questa stessa direzione Lipari (2009) definisce la pratica come

un processo d’azione stabilizzato e al tempo stesso dinamico, ha luogo in un contesto storico-sociale determinato e coinvolge individui e gruppi nello svolgimento di attività le cui caratteristiche tecniche, operazionali e di significato si strutturano nel tempo consolidandosi in abitudini che a loro volta si fissano nella memoria collettiva, diventando tradizione e punto di riferimento per l’azione di tutti” (pp. 24-26).

A livello organizzativo le comunità di pratica rappresentano quindi un anello di congiunzione fondamentale tra la conoscenza tacita e non strutturata presente all’interno dell’impresa e la conoscenza formale, gerarchizzata e strutturata all’interno dei silos organizzativi. In questo la social collaboration si pone come veicolo ideale per: (1) portare alla luce e far emergere pratiche consolidate all’interno del modus operandi dei dipendenti, spesso inconsapevoli di quello che – effettivamente – conoscono; (2) cristallizzare la conoscenza all’interno di unità definite e organizzabili (e.g. un wiki, un forum, un’area di discussione condivisa); (3) diffondere e rendere riutilizzabile nel tempo la conoscenza acquista e formalizzata all’interno dell’impresa [1].

Il concetto di CdP non è però l’unico al quale il percorso di digitalizzazione dell’azienda fa riferimento. Un’altra dimensione importante è quella di cultura organizzativa, primariamente teorizzata da Jacques nel volume The Changing Culture of a Factory (1951) e ripresa da Schein (1990) in diversi studi. Sommariamente possiamo definire la cultura organizzativa come un insieme di assunti di base che si sono rivelati particolarmente validi tanto da essere trasmessi ed indicati come modo corretto di percepire, pensare e sentire all’interno dell’impresa. Il sapere e le conoscenze accumulate nel tempo dall’organizzazione sono poi trasmessi attraverso specifici processi di comunicazione. Secondo Schein la cultura organizzativa si compone di:

  • Artefatti: creazioni ed espressioni artistiche, tecnologie impiegate, comportamenti manifesti e linguaggio scritto e orale proprio di un’organizzazione
  • Valori: modalità operative, principi, credenze e idee, codici morali ed etici
  • Assunti di base: assunzioni implicite e inconsapevoli, modalità di percepire e di pensare, indicazioni fondamentali circa l’organizzazione.

A livello di digital transformation risulta fondamentale indagare la cultura organizzativa con un duplice scopo: (1) valutare e comprendere la prontezza individuale e dell’impresa nell’intraprendere un percorso di cambiamento organizzativo. Non necessariamente il digitale rappresenta una strada che l’impresa intende intraprendere e lanciare un progetto di questo tipo senza aver opportunamente indagato la cultura sottesa può rappresentare un rischio enorme per il successo del progetto. (2) Indagare la cultura e la prontezza dell’impresa risulta utile per identificare in anticipo eventuali possibili problemi e resistenze che potrebbero impedire l’adozione di un approccio collaborativo e indirizzarli in anticipo per poter trovare soluzioni significative.

Altre dimensioni di analisi che toccano il fenomeno della digital collaboration e che riguardano più da vicino il tema dell’employee engagement inteso come uno stato psicologico positivo dell’individuo sono rintracciabili nel percorso di evoluzione verso un modello maggiormente digitale e collaborativo. Sono molte – in questa direzione – le ricerche che hanno dimostrato gli effetti positivi che un elevato engagement dei dipendenti ha sull’intera azienda. Miglioramento dell’impegno organizzativo e alte prestazioni (Salanova, Agut e Peirò, 2005), basso assenteismo, capacità di servire meglio il cliente, migliore soddisfazione personale, riduzione del rischio di burn-out. Un migliore engagement stimolato dalle community interne di dipendenti basate sulla collaboration non solo darebbe numerosi benefici ai dipendenti, ma sarebbe in grado – in modo indiretto – di migliorare la produttività dell’impresa in una dinamica win-win.

A questo concetto strettamente si correla quello di clima organizzativo, un costrutto psicologico che sottolinea l’importanza di trovare un buon equilibrio tra produttività e soddisfazione personale dei dipendenti intesa anche come qualità della vita professionale condotta. Il clima organizzativo ci aiuta a porre in evidenza in che modo i processi di digital e social collaboration vadano a contribuire al rafforzamento di un clima positivo, basato su modalità di lavoro più snelle, immediate, agili e in grado di rispondere più velocemente alle sfide che sono imposte dal mercato. Il clima organizzativo influenza (ed è influenzato) da numerosi punti chiave sui quali si basano gli approcci collaborativi:

  • gerarchia e ruoli all’interno dell’azienda, contribuendo a rendere maggiormente rilevante la competenza rispetto alla posizione occupata all’interno dell’organizzazione;
  • sistemi di riconoscimento e incentivi nell’adozione di meccanismi che premino non soltanto i risultati, ma il modo attraverso cui si raggiungono, non solo l’ambito economico ma anche la reputazione personale e la visibilità interna ed esterna all’impresa;
  • responsabilità individuale: fornendo a tutti la capacità di esprimersi in prima persona e di rispondere delle proprie azioni aumentando il senso di autoefficacia complessivo e la capacità delle persone di costruirsi un network di fiducia personale;
  • motivazione delle persone: dell’employee engagement abbiamo parlato in precedenza, in questa sede basti sottolineare l’importanza e l’impatto – molto elevato – che ambienti collaborativi hanno nell’aumento della motivazione individuale delle persone che – a sua volta – gioca un ruolo decisamente significativo sul clima organizzativo
  • senso di appartenenza all’azienda: nessun uomo è un’isola e l’appartenenza a un gruppo rappresenta uno dei bisogni fondamentali dell’individuo. All’interno dell’azienda questo bisogno si esprime tramite il senso di appartenenza che può fortemente essere influenzato dalle modalità di lavoro collaborativo che consentono di socializzare esperienze (anche non necessariamente lavorative) e di mettere a fattor comune idee e progetti;
  • accesso alle informazioni: l’accesso alle informazioni viene notevolmente semplificato e il riutilizzo della conoscenza reso molto più immediato. Questo consente di ridurre i livelli di frustrazione complessiva e di migliorare l’ambiente di lavoro;
  • autonomia e coordinamento complessivi: ambienti collaborativi influiscono sul clima aziendale contribuendo alla creazione di spazi di maggiore autonomia e di coordinamento. Strumenti di questo tipo permettono – infatti – di rimanere allineati sul lavoro degli altri, di perdere meno tempo in riunioni e meeting di allineamento e di aggiornamento e di avere migliore visibilità su quanto accade all’interno dell’impresa. Tutto questo contribuisce, in maniera più o meno diretta a generare un clima aziendale più trasparente e meritocratico.

Un’ulteriore riflessione che si collega fortemente alla dimensione psicologica può essere fatta prendendo in considerazione direttamente lo strumento tecnologico che rende possibile l’introduzione di ambienti collaborativi nell’organizzazione. Le piattaforme digitali che entrano in gioco all’interno dei processi di definizione di social e digital collaboration, rappresentano di fatto dei medium. Riva (2008) rileva come i nuovi media portino sempre con sé quattro caratteristiche peculiari legate – appunto – al passaggio da un’informazione analogica a una digitale. Queste caratteristiche sono:

  • Modularità: riguarda la possibilità di scomporre il contenuto in una serie di elementi discreti (detti appunto moduli) ed è il coronamento della separazione tra i contenuti e il supporto fisico del medium.
  • Interattività: la possibilità di fruire il contenuto mediante la navigazione tra una serie di nodi che sono collegati tra loro.
  • Automazione: la possibilità di svolgere azioni in automatico, senza che l’utente ne sia necessariamente consapevole.
  • Variabilità: la possibilità che i nuovi media possiedono di essere riutilizzati e impiegati in modi differenti, producendo più versioni dello stesso oggetto.

L’introduzione di un medium all’interno di una cultura non implica una semplice rivoluzione tecnologica, ma, come sostenuto anche da Mantovani (1995) una vera e propria riconfigurazione delle opportunità di mediazione culturale a disposizione dei soggetti. Ancora una volta, e casomai ce ne fosse ancora bisogno, viene sottolineata l’importanza che la cultura gioca all’interno di processi di trasformazione di questo tipo. L’introduzione di un medium all’interno della situazione esperita dai soggetti – infatti – li impone e li obbliga ad adattarsi al cambiamento. Sempre Mantovani (1998) riprende l’interessante metafora del bastone del cieco elaborata da Gregory Bateson nel 1972 all’interno del suo celebre volume Verso un’ecologia della mente: il bastone di Bateson (il medium dei giorni nostri)

è una protesi che filtra l’informazione disponibile e rende accessibili solo determinate esperienze. Tutti noi siamo cechi, in un certo senso, ed esploriamo la realtà con l’aiuto di strumenti, gli artefatti, attraverso cui conosciamo le cose e agiamo nel mondo” (Mantovani, 1998 pp. 121-122).

In questo senso le piattaforme digitali di social collaboration possono essere lette non solo come un medium, ma come un’affordance in grado di fornire all’utente una vasta serie di potenzialità esplorabili che prima non erano nemmeno ipotizzabili.

Un altro concetto fondamentale per la comprensione dell’esperienza e di come questa viene modificata dai media digitali è quello di interfaccia. L’interfaccia può essere definita come

l’insieme di caratteristiche del medium che si pone in mezzo tra i diversi utenti consentendogli di raggiungere la propria intenzione” (Riva, 2008).

Ll’interfaccia assume una dimensione fondamentale e richiede una riflessione specifica non solo perché responsabile di come – effettivamente – è costruita l’intera esperienza, ma anche perché in grado di inibire o facilitare l’attuazione delle intenzioni all’interno del medium stesso [2]. L’interfaccia ha poi una funzione anche sulle informazioni che l’utente desidera fruire, attraverso la loro presentazione – infatti – guida l’utente nella scelta di ciò che deve essere colto dalla sua attenzione orientando la lettura della realtà che lo circonda. Riva (2008) rileva come – poi – l’interfaccia nei media digitali assuma caratteristiche specifiche che la portano a separarsi dal medium stesso e a porsi come una sorta di meta-medium, essendo caratterizzata da dimensioni fisiche, simboliche e pragmatiche proprie.

In sintesi si può dire che l’interfaccia all’interno dell’universo dei media digitali ricopra tre ruoli fondamentali:

  1. Rappresenta le caratteristiche del medium attraverso un modello.
  2. Rende “visibili” gli oggetti digitali contenuti al suo interno.
  3. Facilita l’uso mediante un’opera di filtro e selezione degli stimoli e dei contenuti.

Gli ambienti digitali possono essere, poi, analizzati alla luce della teoria dell’inter-azione situata che consente di comprendere meglio come i processi comunicativi e relazionali siano influenzati dall’essere all’interno di una situazione “aumentata” dai media.

Cercando di riassumere i concetti alla base di questa teoria, Riva (2008) chiarifica le dimensioni fondamentali che entrano in gioco durante una comunicazione mediata.

  • Intenzione: ogni comportamento è espressione di una complessa rete intenzionale organizzata su più livelli e messa in atto mediante una pluralità di canali, questa definizione è un’integrazione delle posizioni di Anolli (2006) e Pacherie (2008) con quelle della pragmatica della comunicazione (Watzlawick, Beavin e Jackson 1971). Le intenzioni sono una struttura dinamica organizzata su più livelli, questa si sviluppa gerarchicamente secondo tre fasi specifiche:
    • le intenzioni motorie (prensione, contrazione…): sono innate e la loro soddisfazione è data dall’azione stessa, l’oggetto di queste intenzioni è sempre il “semplice” movimento del corpo;
    • le intenzioni prossimali: nascono come combinazione di diverse intenzioni motorie dirette verso un oggetto del mondo presente, la loro soddisfazione dipende dal rapporto tra il contenuto intenzionale (prendere la macchina fotografica) e l’oggetto del mondo reale a cui è diretto (la macchina fotografica);
    • le intenzioni distali: sono composte da una catena d’intenzioni motorie e prossimali dirette verso un oggetto che può non far parte del mondo reale ma dell’universo del possibile.

La soddisfazione delle intenzioni motorie e prossimali riguarda sempre il rapporto tra il soggetto, il corpo e il mondo degli oggetti. La verifica delle intenzioni distali – invece – è sempre “situata”, in riferimento al rapporto tra il soggetto, le sue rappresentazioni e i suoi mondi possibili.

Accanto al concetto d’intenzione e del suo ruolo specifico nell’esperienza del soggetto, la teoria dell’inter-azione situata richiede l’ingresso in gioco di altri concetti ugualmente importanti, questi assunti riguardano la capacità di cogliere gli stimoli provenienti dall’ambiente (affordance) e la sensazione che sperimenta il soggetto (presenza e presenza sociale). Con il termine affordance s’intende l’opportunità di azione offerta dall’ambiente all’utente, una sorta d’invito – cioè – che l’ambiente rivolge a essere usato in un determinato modo . Le affordance si suddividono in due categorie:

  • Dirette: se sono il risultato di un flusso d’informazione. Sono stabili e non si modificano se non cambiando le proprietà fisiche dell’oggetto
  • Mediate: risultato di un’interpretazione che il soggetto attribuisce all’ambiente; a caratterizzare questo tipo di affordance è invece la sua relatività, infatti, è il risultato sia del significato attribuito all’oggetto, sia dell’analisi del contesto

L’affordance ha quindi carattere dinamico ed è il risultato di un’interpretazione di ciò che l’utente è in grado di cogliere dall’ambiente e non solo di ciò che l’ambiente (reale o digitale) è in grado di offrirgli.

Ma cosa ne è dell’esperienza del soggetto?  Quali sensazioni è possibile sperimentare all’interno di un ambiente digitale? Per rispondere a queste domande è possibile introdurre due concetti che forniscono una dimensione chiara di dove si collochi l’esperienza del soggetto all’interno di situazioni in cui entrano in gioco i media digitali.

  • Presenza: con questo termine s’intende la sensazione di “essere” all’interno di un ambiente fisico o digitale, che risulta dalla capacità/possibilità di attuare le proprie intenzioni (Riva, 2008: p. 127). Si divide, anch’essa, in tre livelli fondamentali:
    • protopresenza: ovvero, la capacità di attuazione delle intenzioni motorie attraverso il solo movimento del corpo;
    • presenza nucleare: la capacità – cioè – di attuazione delle intenzioni prossimali attraverso l’identificazione delle affordance dirette;
    • presenza estesa: capacità di attuazione delle intenzioni distali, attraverso l’identificazione delle affordance mediate.
  • Presenza sociale: la sensazione di “essere con altri da Sé” all’interno di un ambiente fisico o digitale, che risulta dalla capacità/possibilità di comprendere le intenzioni degli altri (Riva, 2008: p. 49). Anche in questo caso si possono distinguere tre differenti livelli:
    • proto-presenza sociale: la capacità di riconoscimento delle intenzioni motorie, che permettono al Sé di riconoscere un Altro intenzionale;
    • presenza sociale oggettuale: la capacità di riconoscimento delle intenzioni motorie e prossimali che consente al Sé di riconoscere un Altro la cui intenzione è rivolta verso di lui;
    • presenza sociale empatica: la capacità di riconoscimento delle intenzioni motorie, prossimali e distali, che consente al Sé di riconoscere un Altro le cui intenzioni corrispondano a quelle del Sé.

La teoria dell’inter-azione situata, quindi,

suppone che la coerenza dell’azione non sia spiegata adeguatamente da schemi cognitivi preconcetti, né da norme sociali istituzionali. Piuttosto, l’organizzazione dell’azione situata è una priorità emergente delle interazioni momento per momento degli attori” (Riva, 2008: p. 90).

Essere presenti all’interno di una specifica situazione riveste un ruolo importantissimo per l’apprendimento e per i processi di conoscenza ad esso legati: l’essere umano è tale in quanto immerso sempre in una situazione, in un ambiente che ne determina i confini e le possibilità. La situazione formativa e l’esperienza di apprendimento che ne deriva (sia essa auto-diretta dal soggetto o etero-diretta) è sempre la combinazione di più elementi che concorrono a determinare uno “sfondo” specifico (tempi, modalità, azioni, vincoli, relazioni…) all’interno del quale si muovono i soggetti (Reggio, 2003). A livello organizzativo questo legame si esplica molto bene nella relazione tra gestione della conoscenza e piattaforme collaborative e/o di apprendimento digitale.

Più in generale, sul duplice rapporto e influenza tra media (canali digitali e non) e cultura, esperienza del soggetto è stato scritto parecchio. Tra le posizioni maggiormente interessanti e in linea con la riflessione presentata all’interno di questo lavoro vi è sicuramente quella di Huges, che afferma:

un sistema tecnologico può essere la causa o l’effetto: può influenzare la società o essere influenzato da essa. Man mano che crescono e diventano più complessi, i sistemi tendono più a influenzare che a essere influenzati. Per questo motivo, il momento dei sistemi tecnologici è un concetto che può essere collocato a metà strada tra i poli del determinismo tecnologico e del costruttivismo sociale” (Hughes, 1994: pp. 103-104).

In questa stessa direzione si collocano anche le riflessioni del più recente modello bi-circolare bi-direzionale sviluppato da Antonietti & Colombo (2008) inizialmente introdotto per spiegare il rapporto tra studenti e Computer Supported Learning Tools (CSLT), ma il cui impianto si presta molto bene a descrivere il rapporto tra nuove pratiche, rappresentazioni mentali degli utilizzatori e media digitali in generale. Tale modello consente di tenere in considerazione come le rappresentazioni e le credenze (implicite o esplicite) delle persone circa il mezzo che utilizzano, influenzino concretamente i processi che sono attuati; al contempo, sottolinea anche le dinamiche bi-direzionali esercitate dal medium o dall’uso sull’utente e viceversa. La novità e insieme il pregio di questo modello è di porre l’accento su una dimensione spesso non considerata nelle ricerche che è quella relativa alle credenze implicite delle persone riguardo ad un determinato oggetto (tecnologia), sottolineandone il ruolo fondamentale sia nell’accettazione sia nell’utilizzo del nuovo strumento

Provando, quindi, a tracciare una sintesi di quanto espresso in queste prime pagine possiamo sostenere come l’influenza tra tecnologia, media ed esperienza umana sia una storia costellata da rapporti circolari e da feedback retroattivi più che da nessi di causalità lineare. L’analisi del rapporto tra uomo e tecnologia deve dunque – come sostenuto anche da Watzlawick (1976) – integrare le differenti prospettive al fine di allargare il più possibile l’orizzonte di comprensione.

A titolo conclusivo di questa breve rassegna, risulta quindi evidente il contributo fattivo che la psicologia della comunicazione può fornire nella comprensione dei contesti digitali e in particolar modo nel supportare il percorso di transizione dalle organizzazioni tradizionali a modelli maggiormente flessibili e agili basati sulla collaborazione e su una dimensione maggiormente umana, culturale e centrata sulla qualità dell’esperienza che viene percepita. In questo senso la psicologia della comunicazione può rappresentare sia il veicolo per comprendere al meglio i vari termini in gioco sia per supportare un cambiamento che sia più semplice ed efficace.

Bibliografia e riferimenti consultati

Anolli L. (2006), Fondamenti di psicologia della comunicazione, Il Mulino: Bologna

Antonietti A., Colombo B., (2008), Computer-supported learning tools: a bi-circular bi-directional framework, New Ideas in Psychology, 26, pp. 120-142

Hughes T.P. (1994), Technological momentum, in Smith M.R. e Leo M. (a cura di), Does technology drive history? The dilemma of technological determinism, MIT press: Cambridge, pp. 101-114

Lave’ J., Wenger E. (1991), Situated Learning: Legitimate Peripheral Participation, Cambridge University Press: Cambridge

Lipari D. (2009), La “comunità di pratica” come contesto di apprendimento. Personale e Lavoro, n. 509 pp. 24-26

Riva G. (2008), Psicologia dei nuovi media, Il Mulino: Bologna

Salanova M., Agut S., Peiro’ J. M. (2005), Linking Organizational Resources and Work Engagement to Employee Performance and Customer Loyalty: The Mediation of Service Climate. Journal of Applied Psychology, Vol 90(6)

Schein E. (1990), Cultura d’azienda e leadership, Guerini e Associati: Milano

Watzlawick P., Beavin J.H., Jackson D.D.  (1976), Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio: Roma

Wenger E. (2006), Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità, Raffaello Cortina Editore: Milano


[1] Su questo tema risulta estremamente significativa la citazione di Lew Platt sul sistema di knowledge management di HP, la famosa azienda produttrice di PC: “If only HP knew what HP knows, we would be three times more productive”. Per maggiori informazioni e una trattazione più approfondita del tema knowledge management all’interno di HP si rimanda a https://www.researchgate.net/publication/235269396_If_only_HP_knew_what_HP_knows_The_roots_of_knowledge_management_at_Hewlett-Packard

[2] Sull’importanza dell’interfaccia e della user experience all’interno di portali digitali di collaboration, intranet e – più in generale – di siti web è stato scritto parecchio. Tra i report e le fonti degne di nota si segnala, per approfondimenti, il lavoro che – ogni anno – Nielsen Group rilascia sulle Intranet: https://www.nngroup.com/reports/intranet-design-annual/

Un processo di trasformazione digitale basato sulla social organization e sui principi ispiratori della collaboration è un percorso circolare, fatto di sperimentazione, tentativi e co-progettazione assieme alle persone.

Ma qual è la ricetta perfetta impiegata dalle aziende che sono riuscite a trasformarsi ed evolversi secondo il paradigma della trasformazione digitale massimizzando i ritorni della social collaboration?

  • Valutare la prontezza e l’attitudine dell’organizzazione. Non tutte le organizzazioni esprimono il medesimo grado di accettazione rispetto ai temi della collaborazione organizzativa. Valutare la prontezza individuale e quella complessiva dell’azienda rappresenta il punto di partenza fondamentale per la creazione di un progetto di successo. L’assessment iniziale è in grado anche di sottolineare potenziali problematiche connesse all’adozione e barriere che potrebbero rallentare il processo di cambiamento (ad esempio specifiche unit organizzative, persone con seniority aziendale elevata, stakeholder esterni…)
  • Progettare con le persone al centro. Senza un adeguato coinvolgimento delle persone e degli utenti finali il progetto, molto semplicemente, non funziona. E’ impossibile ottenere il giusto risultato se le persone che compongono l’azienda non si sentono parte del medesimo processo. E’ proprio per questo motivo che il modello proposto è circolare e impone un approccio di costante revisione rispetto a quello che si sta progettando.

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  • Educare al cambiamento. I progetti che riguardano percorsi di cambiamento come quelli illustrati richiedono una propensione alla gestione dell’incertezza molto elevata. Le modifiche strutturali e organizzative presenti saranno molteplici ed è necessario predisporre le persone a questa nuova modalità di lavoro.
  • Assicurarsi la sponsorship del top management. E’ impossibile cambiare un’azienda senza coinvolgere la testa, sarebbe un’azione tanto difficile quanto stupida. Garantire il coinvolgimento del top management è uno dei punti chiave che distinguono progetti di successo da progetti che non hanno funzionato
  • Utilizzare il codesign per facilitare l’adozione. Il coinvolgimento estensivo dell’intera popolazione aziendale è possibile solo se si tiene in alta considerazione il contributo che possono dare tutti gli utenti. Lavorare con le persone al centro significa anche – e soprattutto – fare ampio uso di metodologie collaborative di progettazione del nuovo modello di lavoro. Strutturare questi processi assieme agli utenti finali rende possibile il raggiungimento degli obiettivi di business e la massima soddisfazione ottenibile considerando che le nuove modalità rispondono alle esigenze espresse dagli utenti
  • Prevedere incentivi e riconoscimento adeguato. Il cambiamento a parole non è sufficiente. La cultura aziendale deve essere parte dell’intero processo. E’ necessario prevedere meccanismi di riconoscimento formali e informali che premino i comportamenti positivi delle persone in modo che l’intera azienda riesca ad apprendere
  • Misurare non solo l’engagement ma anche il business. Le metriche sono un aspetto fondamentale e spesso trascurato dell’intero processo di trasformazione in atto. Sono cruciali per determinare se la direzione intrapresa sia quella efficace e per fare il “punto nave” in modo costante. E’ necessario altresì misurare non solo l’engagement ma anche gli effettivi ritorni di business dell’iniziativa di trasformazione
  • Coinvolgere l’intera azienda. HR, IT, Marketing, Comunicazione, Finance & Control: tutti i dipartimenti aziendali devono essere coinvolti e poter contribuire in modo fattivo al percorso di trasformazione digitale
  • Provare il valore della collaboration. Un business case e una roadmap che prevedano l’impatto che la collaboration può avere sull’intera organizzazione sono sicuramente consigliati e previsti all’interno dei progetti che hanno successo. Questo passaggio risulta strettamente connesso anche alla capacità dell’azienda di stanziare gli investimenti adeguati (in termini di risorse, tempo, denaro) per sostenere il percorso di trasformazione digitale
  • Adottare una strategia ibrida. Le aziende che hanno successo investono equamente tra IT, cambiamento e strategia di implementazione senza dimenticare il business. Troppo spesso si vedono approcci – in coloro che non hanno successo – che riguardano solo la dimensione tecnologica e di implementazione degli strumenti collaborativi. Ancora una volta: non stiamo parlando di un progetto tecnologico ma di un cambio di modelli di lavoro e di processi di organizzazione interna
  • Definire policy, linee guida e modelli di governance. Più che rappresentare modelli limitanti e impedire errori da parte dei dipendenti, linee guida e policy devono rappresentare lo strumento in grado di stimolare l’atteggiamento proattivo dei dipendenti. Questi strumenti servono anche a fornire esempi di comportamenti positivi e definire con chiarezza i comportamenti da tenere all’interno delle community che verranno costruite all’interno del progetto
  • Rispondere alla domanda “che cosa ci guadagno io?”. Perché il tutto funzioni, le persone devono poter rispondere alla domanda riportata e comprendere l’effettivo valore del nuovo modo di lavorare. Dal punto di vista delle HR risulta cruciale – come già sottolineato – stabilire dei percorsi di carriera e di riconoscimenti che premino le risorse che maggiormente sono in grado di investire all’interno del percorso di trasformazione digitale e che siano in grado di stimolare il cambiamento organizzativo. Se i dipendenti non vedono il valore di quello che stanno facendo difficilmente si sentiranno ingaggiati e si faranno promotori del cambiamento, la dimensione umana – ancora una volta – gioca un ruolo preponderante
  • Formare le proprie risorse. Il ruolo dei community manager è fondamentale: l’iniziativa – perlomeno nelle fasi iniziali – sarà assolutamente “spintanea” e degli attivatori e ambassador all’interno dell’organizzazione sono fondamentali per mantenere acceso il fuoco del cambiamento

Per concludere con una citazione di Norman:

la tecnologia ci pone di fronte a problemi fondamentali che non possono essere superati basandoci su quanto abbiamo fatto nel passato. Abbiamo bisogno di un approccio più tranquillo, più affidabile, più a misura d’uomo.”

E’ recentemente uscito un nuovo approfondimento di Altimeter relativo allo stato dell’arte del mondo digitale. Il numero si concentra in particolar modo sulla creazione e sulla definizione dei principi guida che dovrebbero fornire il punto di partenza per una strategia digitale (qui trovate il report se siete interessati a una lettura completa – http://www2.prophet.com/crafting-a-digital-strategy)

Analizziamo i principali messaggi che emergono dal documento.

In primo luogo – e casomai ce ne fosse ancora bisogno – sono sottolineate le motivazioni che portano le aziende di tutto il mondo a intraprendere un serio cammino verso la trasformazione digitale. A conti fatti le ragioni sottese sono molto semplici e sono state evidenziate più volte in questa e in altre sedi: presenza sul mercato, necessità di incontrare le esigenze dei consumatori, definizione di nuovi modelli di business…
Siamo però arrivati al punto in cui le aziende si stanno diversificando tra coloro che impiegano i servizi digitali (e sono la maggior parte delle organizzazioni presenti ad oggi sul mercato) e coloro che sono effettivamente in grado di fare la differenza all’interno di questo tipo di servizi.

Detto in altri termini siamo giunti al bivio in cui il digitale diviene parte naturale e integrante della strategia di business dell’azienda o rimane semplicemente un canale da utilizzare per attività e iniziative generiche 

Altimiter mette subito in luce una distinzione con la quale personalmente non concordo moltissimo:

Digital Transformation:

The realignment of or new investment in technology, business models, and processes to more effectively compete in an everchanging digital economy.

Digital Strategy: 

A plan of action to achieve business objectives using digital technologies

Al di là delle definizioni e delle etichette di sorta ciò che mi sembra importante sottolineare è che – ad oggi – la trasformazione digitale deve riguardare tutti i processi e i meccanismi che contribuiscono alla stessa struttura dell’impresa. Senza un approccio complessivo, olistico e completo non è possibile ottenere nessun risultato.

All’interno del percorso di costruzione di una strategia digitale (che coinvolga sia l’interno sia l’esterno dell’impresa) le organizzazioni incontrano notevoli difficoltà e barriere che devono essere correttamente affrontate per poter avere successo.

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Cerchiamo di capire meglio quali sono queste barriere:

  • Allineamento: riguarda la capacità di agire come un unico organismo a livello organizzativo. Il digital deve essere considerato a livello cross dai diversi dipartimenti e dalle diverse service line dell’azienda consentendo al massimo il ritorno dei risultati per tutta l’organizzazione. Allineamento significa anche coinvolgimento esteso di tutta l’organizzazione dai livelli più alti di senior leadership e top management (senza i quali è impossibile cambiare le modalità di lavoro) e dei livelli “più bassi” dell’organizzazione che rappresentano di fatto gli utenti finali del processo di trasformazione aziendale
  • Competenze: il ruolo delle competenze è fondamentale. Nel mondo del digitale ci troviamo di fronte a clienti e consumatori che sono molto più rapidi, informati, veloci e – spesso – competenti di noi. L’unico modo per far fronte a queste nuove sfide e per insegnare all’organizzazione a muoversi di conseguenza è dotarsi di strumenti e di capacità nuove che sian in grado di rispondere alle sollecitazioni e alle sfide imposte dal mercato. Il ruolo della formazione e dell’educazione, in questo senso, risulta – ancora una volta – fondamentale.
  • Silos e barriere interne: le organizzazioni sono sempre state abituate a ragionare organizzandosi in compartimenti stagni. Questa logica oggi è assolutamente inadatta a gestire le eccezioni ai processi organizzativi che siamo chiamati a fronteggiare.

As Bennet Harvey, Director of U.S. West Coast Digital Strategy at Wipro Digital, told us, “Many companies are realizing that top-down
organizations can’t drive significant improvements in customer experience,” but then again, completely breaking silos — as Zappos attempted with its shift to a holocracy — isn’t easy either

  • Metriche: le aziende con cui mi confronto quotidianamente molto spesso non impiegano né sono consapevoli dell’importanza delle (ne ho parlato anche in un articolo per Centodieci qui – http://www.centodieci.it/2016/06/per-migliorare-il-business-con-il-digital-devi-puntare-sui-tuoi-dipendenti/). Molto spesso si “naviga” a vista, senza avere una chiara idea della direzione da intraprendere e dei modelli da seguire. Sono solo le aziende più mature a conoscere approfonditamente i modelli di valutazione e ad impiegare metriche che non si limitino a valutare solamente una dimensione di engagement (like, commenti, share…) ma che includano anche una dimensione maggiormente connessa al business e al fare impresa (efficienza, capacità di innovazione, vendite, miglioramento della soddisfazione interna…)
  • Risorse: anche il tema delle risorse è un tema molto molto delicato e richiede seri investimenti. Senza la presenza di agenti di cambiamento, community manager, strategist di livello che siano in grado di scaricare a terra il valore aggiunto di quanto il digitale è in grado di fare, le cose semplicemente… non funzionano!
  • Cultura: da Schein in poi le Culture d’Impresa hanno sempre avuto un ruolo fondamentale nella definizione di un’organizzazione. L’unico modo per ottenere risultati significativi in termini di trasformazione digitale è cambiare il modus operandi e la cultura organizzativa evolvendola verso un modello completamente nuovo che sia in grado di imparare dalle lezioni del digitale
  • Governance e regolamentazione: è importante definire principi e linee guida che supportino i processi e i cambiamenti in atto. Anche in questo caso sono molto poche le aziende e le organizzazioni che si sono dotate negli anni di una governance e di policy adeguate all’uso dei media digitali. E’ un passaggio importante intimamente connesso con la struttura stessa del fare azienda

Oltre alle barriere Altimeter identifica una serie di principi da seguire per poter evolvere la propria situazione luno il continuum della trasformazione digitale.

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Un percorso tracciato quindi che le organizzazioni di tutto il mondo dovrebbero avere la forza di intraprendere in modo significativo per poter fare la differenza in termini di leadership digitale.

L’ottima The Community Roundtable ha rilasciato – come ogni anno – il report dedicato allo stato del Community Management nel mondo. I dati aggiornati si riferiscono all’impatto e ai trend che governano le community di business sul mercato.

Chi segue questo blog da qualche tempo sicuramente si ricorderà delle riflessioni condivise negli anni precedenti sul medesimo tema (qui il post riferito all’anno scorso https://sociallearning.it/2014/05/09/lo-stato-del-community-management/) e l’importanza che le community hanno acquisito negli anni da un punto di vista del business e dell’operatività delle aziende. In un’ottica di sempre crescente prestigio e importanza le community rappresentano oggi uno dei nodi cruciali delle aziende e delle organizzazioni che si orientano attorno a criteri molto ben precisi di efficienza, agilità, trasparenza e collaborazione coinvolgendo in senso esteso tutti gli attori che partecipano alla creazione di valore all’interno di un’organizzazione: clienti, dipendenti, fornitori, partner…

Ma analizziamo con maggiore precisione i messaggi che emergono dal report che trovate nella sua versione completa qui:

Il report comincia con l’identificazione di alcuni punti chiave per comprendere il contesto nel quale ci muoviamo e sottolinea alcune importanti sfide per il mondo delle community al giorno d’oggi:

  • Una mancanza di strategia su come utilizzare, creare e comprendere appieno il ROI delle community, un tema molto delicato che è molto sentito specie nelle organizzazioni finanziare. Se i ritorni sull’investimento non sono ancora chiari, come possiamo pensare di realizzare correttamente una community? E come possiamo pensare che questa funzioni in modo corretto aiutandoci a raggiungere i nostri obiettivi professionali?
  • Una incapacità di allineare la strategia di alto livello con le azioni tattiche più modeste. Assistiamo a una totale divergenza tra le due: progetti collaborativi troppo “alti” e poco calati nella realtà dei fatti e progetti troppo concreti che perdono di vista una dimensione di trasformazione più strategica e profonda con impatti di maggiore profondità e importanza
  • Un enorme gap tra le elevatissime aspettative in termini di risultati che si attendono dalle community e gli investimenti che effettivamente vengono effettuati in questo senso. Il risultato è che molto spesso ci si trova di fronte a progetti che non sono in grado di rispondere efficacemente al modello proposto e che falliscono proprio per questo motivo
  • Elevate difficoltà anche nell’assunzione delle persone giuste per i ruoli più senior. Il tema delle competenze nelle community e dei ruoli specifici che ne fanno parte sono ancora qualcosa di molto “misterioso” e complesso da recuperare. L’esperienza di business connessa a questi ruoli necessità ancora di una crescita elevata per essere al pari con altri settori. Questa sfida rende estremamente difficile riconoscere i modelli e cambiare le attuali modalità di lavoro
  • Mancanza di coinvolgimento e di comprensione dei nuovi modelli di business da parte degli executive che faticano a calare a terra le logiche della collaboration e delle community

Queste sfide rappresentano dei punti saldi che devono essere gestiti in modo corretto. Come fare quindi? La ricerca di TCR suggerisce alcune aree di sviluppo da prendere in considerazione per raggiungere gli obiettivi di business che le community possono aiutarci a raggiungere.

  • Provvedere uno sviluppo professionale per i community manager e percorsi di carriera che consentano la crescita in questa direzione e permettano di lavorare in modo più efficiente ed efficace. I top player del settore in questo senso si sono già ampiamente mossi e hanno capito l’importanza di rafforzare le competenze dei team e di puntare sulle competenze che le persone hanno acquisito o su quelle che ancora devono sviluppare
  • Prevedere un corretto staffing delle risorse in modo da destinare il giusto tempo ai progetti di questo tipo senza che vengano sacrificati in nome di qualcosa di maggiormente importante
  • Investire nell’integrazione degli approcci di community e di collaboration con le funzioni esistenti del business in modo che i risultati non solo siano immediatamente tangibili ma anche che si comprenda meglio la modalità e la connessione con quelli che sono gli obiettivi principali dell’impresa e dell’organizzazione. Anche nella mia esperienza progettuale questo è l’unico modo per poter ottenere dei risultati significativi che consentano da un lato di far comprendere l’importanza del lavoro sulle community e dall’altro di cambiare in modo radicale l’organizzazione e il nostro modo di fare impresa
  • Ripensare la formazione: a livello complessivo è importante valorizzare il ruolo della formazione sia nel processo di onboarding di nuove risorse sia in quello di mantenimento di un alto livello di competenza esteso a tutta l’organizzazione. In questo senso la formazione rappresenta un importantissimo elemento ad alto valore aggiunto per permettere il sedimentare di competenze e la diffusione di un nuovo modello culturale all’interno dell’ecosistema azienda
  • Ripensare i sistemi di incentivazione e di riconoscimento. Non è pensabile gestire queste community e questi nuovi modelli di lavoro attraverso modalità e logiche antiquate. Le HR devono riconoscere e premiare comportamenti e modalità di lavoro nuove che consentano di valorizzare i contributi individuali all’interno della community e all’interno dei meccanismi e delle logiche di collaboration. I sistemi di riconoscimento in questo senso devono essere sia di natura formale sia di natura informale in modo da motivare al massimo le persone a dare il meglio e contribuire fattivamente alla relaizzazione della community e al raggiungimento degli obiettivi di business sia individuali sia di gruppo

The Community Roundtable propone poi un framework articolato che consente di posizionarsi a diversi livelli di maturità rispetto agli obiettivi identificati. Lavorare su questi livelli consente davvero di comprendere appieno la portata delle community e di effettuare un percorso di evoluzione complessivo che permetta di raggiungere gli obiettivi di business preposti

Community Roundtable model

Il lavoro di TCR rappresenta un prezioso punto di partenza per tutti coloro che intendono intraprendere un percorso di evoluzione verso nuovi modelli organizzativi o che si trovano in difficoltà nei confronti di un’adozione che non arriva e di risultati che non si riescono a ottenere.

La strada è tracciata, sta ai più coraggiosi e saggi intraprendere il percorso corretto e migliorare il modo di fare impresa di oggi

Qualche mese fa è uscito un report molto interessante del MIT Sloan in collaborazione con Deloitte University Press che analizza attorno a quali assett si muovano le organizzazioni realmente digitali.

Come facilmente intuibile il report (che trovate liberamente scaricabile a questo indirizzo: http://sloanreview.mit.edu/projects/strategy-drives-digital-transformation/) si concentra su una dimensione di cambiamento legata all’importanza che una corretta direzione di impostazione strategica è in grado di fornire. Per chi segue questo blog e per chi segue il cambiamento organizzativo da vicino non si tratta certo di una novità: la tecnologia – digitale e non –  ha da sempre rappresentato un fattore abilitante e mai il motore del cambiamento vero e proprio. Per cambiare concretamente le organizzazioni è necessario agire su altre leve, molto più delicate e complesse: nessuna trasformazione digitale è solamente tecnologica e i progetti che ci concentrano solo su questa dimensione sono destinati al fallimento immediato.

Come si legge anche nel report:

Digital strategy drives digital maturity. Only 15% of respondents from companies at the early stages of what we call digital maturity — an organization where digital has transformed processes, talent engagement and business models — say that their organizations have a clear and coherent digital strategy. Among the digitally maturing, more than 80% do.

Alcuni messaggi chiave che emergono nell’immediato:

  • Le organizzazioni maggiormente mature sono quelle che hanno una strategia ad ampio respiro che coinvolga tutta l’organizzazione e che sia in grado di massimizzare i risultati ottenibili. Il cambiamento non può essere imposto dall’alto, ma nemmeno organizzato solo dal basso
  • La forza della trasformazione digitale corretta risiede in una corretta definizione degli obiettivi e del punto d’arrivo. Come nel famoso adagio di Seneca: “non esistono venti favorevoli per il marinaio che non sa dove andare”
  • La trasformazione richiede competenze verticali che non è possibile delegare: è necessario mettere assieme il team corretto in grado di supportare l’organizzazione nel percorso di cambiamento
  • La digitalizzazione attira i talenti, i dipendenti intendono lavorare per i cosiddetti “digital leader” che ottengono punteggi più elevati all’interno dei desideri degli utenti
  • Assumersi rischi è diventata la cultura dominante all’interno delle migliori organizzazioni. I leader sono quelli che non hanno paura di sbagliare e che si muovono in contesti anche molto complessi senza volerne necessariamente mantenere il controllo
  • I leader sono sempre coinvolti in prima persona. Lo abbiamo visto e detto molte volte: senza un coinvolgimento della testa dell’organizzazione il cambiamento non può avvenire e nessuna trasformazione può essere efficace

La seguente figura mostra le barriere che le organizzazioni si trovano a dover affrontare a seconda del loro differente livello di maturità rispetto ai temi della digital transformation.

Barriers

Un altro dato interessante che emerge dall’analisi condotta  è – a mio avviso – quello che riguarda la differente penetrazione dei servizi digitali a seconda dei differenti settori di mercato. Non per tutti la trasformazione digitale sta avendo il medesimo impatto e non per tutti il cambiamento sta avvenendo con la medesima velocità.
Il digitale tocca comunque tutti i settori cambiandone le logiche di base e rendendo alcune organizzazioni più o meno restie ad accettare il processo di cambiamento

Levels

Un altro punto di fondamentale importanza è quello legato allo storytelling e al raccontare una storia, le aziende che stanno avendo il successo maggiore sono proprio quelle in grado di muoversi anche su questo versante coinvolgendo, in senso ampio, l’intera organizzazione nel processo di cambiamento e nel processo di trasformazione. Nessuno deve sentirsi escluso e il modo migliore per  raggiungere questo obiettivo sembra proprio essere quello di dare ai dipendenti una storia nella quale identificarsi.
Come si legge nel report:

In our interviews, we found that storytelling is becoming a popular means of gaining employee buy-in and organizational traction for digital transformation.
Disney is a prime example. To capture the hearts and minds of its employees, Disney carefully crafts internal messages so that they are highly relevant.
“We develop stories all day long at Disney,” says Disney senior vice president Milovich. “A great story is  a key element in getting funding for a pilot for our TV shows, and we apply this same storytelling capability to allocate capital for our employee digital initiatives.”

Il legame tra cultura e tecnologia è tutt’ora annoso e complesso. Da quello che emerge dall’analisi sembrerebbe chiaro il ruolo preponderante della prima sulla seconda e il fatto che senza una adeguata cultura di cambiamento non si possa effettivamente trasformare il mondo organizzativo nel quale si vive.

In ogni caso i leader della trasformazione digitale restano coloro che sono in grado di innovare e di trasformarsi su differenti livelli e differenti aspetti: barriere, strategia, cultura, sviluppo e gestione dei talenti, tecnologia, leadership…

Table

Di recente mi è capitato di sfogliare questa interessante presentazione trovata su SlideShare che riguarda il legame tra due campi dell’innovazione che possono sembrare abbastanza distanti tra loro: l’experience design e la digital transformation.
La presentazione – davvero di ottimo livello – è disponibile qui ed è stata realizzata dai ragazzi di Designit

Ve ne consiglio la lettura completa ma vorrei, in questa sede, approfondire alcuni messaggi chiave che emergono dalle riflessioni riportate:

  • La trasformazione digitale e le tecnologie che si muovono all’interno dello scenario digitale stanno cambiando il mondo. Non è nulla di nuovo tutto sommato, ma è importante rendersi conto della portata del fenomeno del quale stiamo parlando: non esiste alcun campo o settore che non sia stato toccato da questa trasformazione
  • Sono ancora molti i contesti all’interno dei quali le tecnologie digitali sono percepite come minacce e come problematiche rispetto allo status quo: nel mondo organizzativo – scenario del quale mi occupo più di frequente – non sono rari i problemi legati ai cambiamenti che questi nuovi processi impongono. Le aziende percepiscono ancora molte difficoltà nel gestire e organizzare il cambiamento
  • Le opportunità delle tecnologie digitali (e questo in tutti i settori) sono ancora poco sfruttate e capitalizzate, la vera disruption, la creazione, cioè, di modelli che siano completamente differenti e in rotta con il passato è ancora molto poca. Molto spesso ci si limita a incrementare e migliorare servizi che già esistono anziché sfruttare completamente il potenziale inventandone di nuovi

Capture

  • Le aspettative dei consumatori, dal canto loro, sono sempre crescenti e si modificano costantemente ricercando sempre servizi innovativi e in grado di cambiare la loro vita e di realizzare i desideri più reconditi. Non dimentichiamoci in questo senso la celebra frase di Arthur C. Clarke:

Ogni tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia. (da Profiles of the Future, Harper & Row, 1958)

  • In questo senso il ruolo del design e della costruzione dell’esperienza diviene fondamentale e non solo per la dispersione di energie che vengono costantemente dedicate alla ricerca e al riutilizzo di informazioni. Il ruolo del design risulta fondamentale per costruire esperienze significative e per render e la tecnologia sempre più simile a quella “magia” di cui parla Clarke
  • Il design non è solo una commodity, ma gioca un ruolo fondamentale all’interno della definizione della strategia complessiva, sia essa digitale o meno

In questo senso, ci sono alcune lezioni cruciali che si possono apprendere dalle aziende e dalle organizzazioni che lo hanno implementato all’interno delle loro strategie di trasformazione e cambiamento:

  • (Ri)progettare le aziende mettendo le persone al centro. Troppo spesso abbiamo dimenticato la dimensione umana all’interno dei processi di cambiamento e di trasformazione, la tecnologia ha giocato un ruolo chiave, ma sono le persone che devono creare il vero cambiamento e la vera evoluzione. In tutti i processi di trasformazione digitale di successo sono sempre  le persone ad essere messe al centro dell’equazione
  • Non progettare per se stessi. La buona progettazione e il buon design – ancora una volta – è quello che mette al centro i bisogni degli utenti e i desideri delle persone
  • Il design e l’esperienza utente non rappresentano solamente un contorno ma uno dei pilastri fondanti della strategia delle aziende. Se viene messo in secondo piano i risultati non possono essere raggiunti. Deve essere una priorità di investimento e di costruzione della strategia
  • La trasformazione e il cambiamento devono essere radicali, possono anche avvenire in modo incrementale, ma il risultato finale – se necessario – deve essere qualcosa di completamente nuovo e in rotta con il passato
  • Semplificare anziché complicare. La perfezione viene raggiunta quando non si può togliere nient’altro. Non occorre “sommare” per raggiungere dei risultati significativi
  • Abbattere le barriere e i silos: nessuna azienda è in grado di fare realmente innovazione se i dipartimenti interni non parlano tra loro
  • La Co-creazione è un fattore abilitante. All’interno del complesso meccanismo della costruzione della strategia la progettazione assieme agli utenti è un punto fondamentale per abilitare gli utenti e permettere a tutti di fornire la propria idea
  • Coinvolgere il top management: senza la testa l’azienda non può cambiare. Come abbiamo visto anche nella Social Collaboration Survey che abbiamo condotto negli anni passati, qualunque processo di trasformazione deve necessariamente passare dalla testa dell’azienda

Altimeter ha pubblicato di recente un nuovo report sull’andamento della trasformazione digitale e del social business a livello mondiale. L’analisi molto dettagliata (per chi volesse leggere il report completo questo il link: http://go.pardot.com/l/69102/2015-07-16/sgj4w) presenta alcune indicazioni molto interessanti che ci aiutano a capire meglio come le aziende di tutto il mondo si stiano muovendo rispetto ai temi legati alla trasformazione digitale e all’introduzione di tecnologie e processi collaborativi all’interno dei loro processi di lavoro.
Vediamo assieme i messaggi principali che emergono dall’indagine.

  • L’integrazione di social e digital e del social con i processi chiave dell’azienda ha ancora qualche ritardo e non pochi problemi: non sono poche le aziende che stanno avendo molte difficoltà su questo. Anche per esperienza progettuale personale sono solo le realtà più mature a sperimentare una profonda integrazione del digitale all’interno dei processi di business già esistenti.
    Come si legge nel report:

Integration of social with digital suffers from the lack of cohesive strategy. “Scaling social business” is no longer a top priority of strategists—instead, more than half of the social strategists surveyed have the deep integration of social as a top priority. Additionally, 82% of businesses report they are either fully integrated, in the process of, or planning the integration of social with digital in 2015. But only 36% believe they have in place a multi-year digital strategy that includes social initiatives. Breaking down social silos remains a top priority for many.

  • L’abbattimento dei silos e delle barriere organizzative non è cosa da poco. Sono richiesti leader illuminati e strategie che coinvoglano in modo estensivo tutta l’organizzazione, senza un opportuno coinvolgimento di ambo le parti non è possibile pensare di cambiare il modo di lavorare dell’azienda e dei suoi dipendenti.
  • La funzione HR, da sempre ai margini della trasformazione digitale (quando non fortemente contraria a questo tipo di evoluzione), deve divenire uno dei partner e degli attori fondamentali del cambiamento
  • L’importanza della misurazione è cruciale: molte aziende non si danno obiettivi e non fanno niente per misurare ciò che pensano di ottenere. Non avendo una meta navigano a vista, non avendo un modo per valutarsi e per valutare il cammino non riescono a ottenere alcun risultato significativo.
  • Il ruolo degli investimenti in marketing e advertising digitale promette di crescere ancora molto nel prossimo futuro con indicatori sempre crescenti e risultati sempre più allineati al business

Di seguito lo schema mostra le priorità che le aziende vedono nel prossimo immediato futuro quando si parla di innovazione e trasformazione digitale.

Priorities in digital as in 2015

Come visibile anche dallo schema l’integrazione dei social media all’interno di programmi già esistenti appare essere un veicolo chiave della trasformazione. Il salto quantico da compiere è – ancora una volta e come ormai ripetiamo da qualche anno su questo blog – quello che vede i digitale non più come la bacchetta magica o un processo a sé, ma come qualcosa che trasforma e cambia radicalmente il modo di concepire i clienti, i dipendenti, l’organizzazione, i competitor e l’intero mercato.

Un altro tema chiave riguarda la connessione tra esterno ed interno dell’azienda. Come ripetuto più e più volte in questa e in altre sedi: non è possibile essere digital a metà, o lo si è, oppure non lo si è. Integrare l’interno dell’azienda, il dialogo portato avanti dai dipendenti con quello che sta fuori dall’azienda è ormai una priorità strategica. Fino ad oggi le aziende si sono concentrate sui processi di comunicazione, sull’utilizzo dei social media ai fini di marketing e hanno – da sempre – lavorato sulle aree limitrofe dell’organizzazione, quelle a stretto contatto con i clienti.
Il tema risulta chiave: oggi l’azienda deve essere socializzata nel suo complesso, senza differenziazione tra i processi interni ed esterni.

Priorities in digital 2

Gli stessi modelli organizzativi si stanno evolvendo verso nuove modalità di lavoro. Rispetto all’analisi precedente e a quanto scoperto quest’anno emerge in modo chiaro la predominanza del modello hub & spoke basato sulle community e sulla centralità di un team social e digital che governa le attività di chi invece gestisce i processi.
Risultano ancora poche le organizzazioni – invece – che hanno adottato un approccio completamente olistico abbattendo tutte le barriere e mettendo al centro le esigenze delle persone.

Models of Digital Disruption 2015

A livello di raccomandazioni quello che le aziende che hanno intenzione di evolvere lungo il percorso di trasformazione digitale dovrebbero fare è riassumibile in una serie di raccomandazioni:

  • Non avere paura di sperimentare soluzioni innovative e apparentemente senza soluzione di continuità con il passato, nessun cambiamento è mai facile
  • Rafforzare le partnership con i differenti team che partecipano all’innovazione digitale siano essi HR, digital, marketing, comunicazione interna e garantirsi lo sponsor da parte di tutta l’organizzazione
  • Non dimenticare la dimensione IT: sebbene la tecnologia sia sempre da considerarsi come un di cui e un fattore abilitante non deve causare problemi o rallentare il percorso di trasformazione
  • Instaurare programmi di leadership e mentoring che siano in grado di supportare la visione digitale e di indicare in modo chiaro e univoco la rotta da intraprendere. La formazione anche in questo caso gioca un ruolo fondamentale, non solo nello sviluppo di nuove competenze ma anche e sopratutto nella condivisione di esperienze e nel rafforzamento dei messaggi che provengono dall’alto
  • Attivare centri di eccellenza di persone competenti che siano in grado di animare e di attivare anche coloro che sono maggiormente restii alla trasformazione aziendale
  • Attivare funzioni e dipartimenti cross che siano in grado di promuovere l’innovazione in modo esteso su tutta l’azienda
  • Misurare e valutare le performance 
  • Settare degli obiettivi e delle metriche di business chiare e definite, non valutare solo indicatori connessi alla partecipazione ma osservare i cambiamenti economici e gli impatti organizzativi
  • Prevedere un meccanismo di riconoscimento e di ricompensa per le attività che vengono svolte, equiparando il digitale ad altri processi e dandogli la corretta dignità all’interno della gerarchia aziendale
  • Socializzare best practice e insuccessi dell’azienda, le storie dei dipendenti, siano essere positive o negative vanno condivise nella speranza di creare modelli imitativi e di evitare i medesimi errori già compiuti da altri
  • Assicurarsi un coinvolgimento esteso di tutti i dipendenti all’interno dell’azienda