Archives For November 30, 1999

Twitter is a great place to tell the world what you’re thinking before you’ve had a chance to think about it.” – Chris Pirillo

Questa divertente quote di Chris Pirillo ci aiuta a riprendere un discorso già affrontato in parte con l’analisi del caso Costa Crociere ( http://www.sociallearning.it/social-media-crisis-management-il-caso-di-cos ) e che richiama all’attenzione un aspetto molto interessante e spesso – purtroppo – messo in secondo piano.

Ciò che mi piacerebbe condividere in questa sede sono alcuni spunti e alcune riflessioni, esempi concreti e casi studio tratti dalla rete e che vertono sul tema della costruzione di una social media policy: ovvero di una serie di regole (anche se sarebbe meglio dire di consigli) attorno a cui organizzare i comportamenti e gli atteggiamenti dei propri dipendenti e collaboratori.

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Capita – e le notizie sono anche parecchie in questo ultimo periodo – di leggere di dipendenti che perdono il loro lavoro o vengono scartati a colloqui di selezione per un’incapacità o – meglio – una mancata consapevolezza nell’uso dei social media. Sono numerosi i casi di “leggerezza” in questo senso che lasciano un segno – alle volte anche pesante – sia sulla reputazione del brand sia sulla vita dei singoli dipendenti.
E’ per questo motivo che la costruzione di una policy e di una serie di assett fondamentali che riguardando un corretto uso dei social media è quanto mai importante per regolarne l’attività e rendere tutti più sereni e più liberi.

La prima premessa da fare – quasi scontata, ma sempre doverosa – è che la policy sui social media – così come la strategia da impiegare nel loro utilizzo – è quanto di più sartoriale esista: non esistono ricette pronte o pillole magiche, ma solo esempi a cui ci si può ispirare per costruire il proprio prodotto che sarà chiaramente pensate e ritagliato, appunto, sulle nostre singole e assolutamente specifiche esigenze.

Cerchiamo di vedere assieme alcuni punti fondamentali.

Fare chiarezza sull’utilizzo dei canali
A cosa ci riferiamo? Di che cosa stiamo parlando? Come sottolinea questo interessante articolo ( http://www.inc.com/guides/2010/05/writing-a-social-media-policy.html ) il termine “policy” è un cappello generale attorno a cui ruotano tutta una serie di “regole” molto specifiche.
Il primo punto da chiarire potrebbe essere proprio quello legato alla comprensione dei canali verso i quali ci stiamo aprendo e della definizione di regole specifiche al loro interno. Va da sé che – pur con una base comunque – questi consigli saranno diversi e personalizzati secondo il canale identificato

Utilizzate le regole dei social media
Può sembrare una banalità ma una social media policy deve basarsi sulle regole dei social media: trasparenza, integrità, rispetto verso gli altri e attitudine alla conversazione sono le basi dalle quali partire. Un esempio di alcune regole generiche che si applicano in qualunque contesto lo trovate in questo interessante documento che fornisce alcune utili indicazioni e consigli su come relazionarsi ( http://www.shiftcomm.com/downloads/socialmediaguidelines.pdf )

Chi, come quando e perché
Quando si definiscono delle regole e delle practice è importante definire non solo i motivi che hanno spinto a questa decisione ma anche – e soprattutto – chi se ne dovrà occupare e dettagliare molto bene quali saranno i ruoli in questo senso. Policy e Strategy vanno di pari passo e devono essere relizzate l’una a partire dall’altra e viceversa. Solo in questo modo si potrà evitare di realizzare un modellino capace di funzionare solo in linea teorica.
Chiarire inoltre le motivazioni che ci portano alla definizione di una policy e sottolineare l’importanza che i social media hanno raggiunto in azienda è sempre un’ottima base di partenza

Proteggere le informazioni personali e delicate
Come indicato anche in questo articolo ( http://socialfresh.com/a-template-to-help-start-your-social-media-policy/ ) il rispetto delle norme legali, delle informazioni personali, della privacy e di qualunque informazione confidenziale legata al brand deve essere trattata in modo riservato e confidenziale: nel rispetto del lavoro di tutti.  

Keep it simple!
Forse la regola più importante, cercate di essere semplici, diretti efficaci: non dovete fornire un breviario o un manuale di istruzioni per l’uso complicatissimo da usare. Ma dei suggerimenti, utili, efficaci e, perché no, piacevoli da impiegare. Coca Cola ad esempio ( http://www.thecoca-colacompany.com/socialmedia/ ) ha organizzato il tutto attorno a 7 regole/principi guida fondamentali:

  • LEADERSHIP : The courage to shape a better future;
  • COLLABORATION : Leveraging our collective genius;
  • INTEGRITY : Being real;
  • ACCOUNTABILITY : Recognizing that if it is to be, it’s up to me;
  • PASSION : Showing commitment in heart and mind;
  • DIVERSITY : Being as inclusive as our brands; and
  • QUALITY : Ensuring what we do, we do well.

Qui di seguito a mo’ di conclusione una serie di documenti utili da cui trarre spunto e a cui ispirarsi per la realizzazione della propria policy dedicata ai social media.

KODAK

Red Cross (Blogging Guidelines)

Red-Cross-Red-Crescent-SocialMedia-Guidelines

TNT (Italia)

In rete sono poi presenti alcune raccolte di Social Media Policy famose.
La migliore (che conta, al momento in cui si scrive, oltre 195 policy) è questa: http://socialmediagovernance.com/policies.php#axzz1mM6vcG2x

Foto di apertura – http://www.flickr.com/photos/perspective/

Di recente per PMI.it (testata online del gruppo HTML.it) mi sono occupato di Social Media Scheduling ( qui trovate il link all’articolo che ho scritto http://www.pmi.it/impresa/pubblicita-e-marketing/articolo/50444/guida-al-soci… )

Community_manager

In questa sede non voglio chiaramente ripetere le considerazioni fatte nel post ma vorrei ampliare i temi di discussione portandoli ad un livello successivo, mostrando esempi concreti di planning e fornendo alcune utili indicazioni che possono servire alla pianificazione delle attività che un buon community manager deve svolgere in azienda.

Cominciamo subito con il dire che non esistono regole precise se non quelle del buon senso e della sensibilità di chi si occupa di questi canali. Gli esempi che cercherò di portare all’interno di questa discussione sono legati più a fornire un quadro generale e dei punti di ispirazione che essere rigidi schemi da seguire.

Come prima cosa è bene chiarificare che l’attività di un community manager deve partire da una solida base di ascolto che – come sappiamo e come abbiamo affrontato più e più volte – è il primo passo per la costruzione di qualunque strategia sui social media. E’ quindi necessario porsi le domande giuste e studiare la pianificazione delle attività da svolgere a partire dalle specifiche esigenze di quella particolare community: che cosa vogliamo ottenere? Chi vogliamo ingaggiare? Per quale motivo stiamo facendo queste attività? A chi ci rivolgiamo nello specifico? Quali obiettivi ci poniamo nel breve, nel medio e nel lungo termine?

Qui di seguito riporto un’ipotesi di calendario che potrebbe essere utilizzato per la pianificazione di attività all’interno di un gruppo LinkedIn.

Una volta definito lo Scheduling, che – ripeto – non deve essere visto come un rigido schema ma più un elemento di ispirazione, resta da definire in che modo il community manager debba gestire le sollecitazioni provenienti: abbiamo ricevuto commenti positivi? Dobbiamo rispondere e rilanciare? Possiamo ignorare i commenti negativi? Come ci dobbiamo porre nei confronti delle polemiche e delle critiche che arrivano?

Stefano Mizzella se ne è recentemente occupato in un post dedicato al Social Media Triage ( http://www.socialmediascape.org/social-media-triage/ ). Di cui vorrei recuperare due schemi che possono essere utili a recuperare il discorso e a concludere le nostre riflessioni.

Il primo schema di David Armano anticipa quelle che potrebbero essere delle interazioni tra la community e il brand. Questo schema ci consente anche di evidenziare l’importanza che deve avere l’interazione tra il community manager e il brand. E’ impossibile che un community manager abbia tutte le risposte alle domande che vengono sollevate dalla community: non ha nemenno senso che le abbia. Il Community manager deve essere piuttosto un facilitatore che permette l’interazione dinamica tra il brand e il proprio audience.

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Il secondo schema permette invece di ricollegarsi alle recenti riflessioni che ho condiviso sul caso Costa Concordia e sulla gestione della crisi all’interno dei Social Media.
Lo schema viene da Altimiter e consente di avere una visione chiara di cosa poter fare o meno quando si è di fronte a un determinato tipo di messaggio.

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Ripeto ancora una volta: questi schemi, queste pianificazioni devono servire solo ed esclusivamente come idee come spunti per l’avvio di riflessioni. Molto spesso più che queste dettagliate strategie serve una grande intelligenza da parte del community manager nel gestire crisi, critiche e possibili scivoloni che accadono.

Vi lascio in chiusura con una presentazione di Guido Ghedin sui più recenti flop in ambito Social Media che fanno riflettere su come i brand e i community manager dovrebbero e non dovrebbero agire quando aprono un dialogo con i consumatori e con il proprio “pubblico”.

http://www.slideshare.net/YoungDigitalLab/cosa-non-fare-i-pi-recenti-flop-gui…

Ne parlano tutti i giornali: nazionali e internazionali.
Prima di tutto non posso che accodarmi al cordoglio e al dolore di coloro che hanno perso delle persone care, ma anche essere solidale nei confronti di chi ha vissuto quegli attimi di terrore e paura. Non posso nemmeno esimermi dal premettere che con questo post non voglio analizzare gli errori del capitano Francesco Schettino né i contorni legali, nautici e via dicendo che questa situazione sta – giustamente o meno – generando.

 

In questa sede – come proprio del tema di questo blog – vorrei analizzare la situazione dal punto di vista degli errori, dei punti di forza e di quanto è stato fatto di corretto o di completamente errato nella gestione di quella che possiamo definire “Social Media Crisis“.
Sappiamo ormai che i Social Media hanno assunto dimensioni preponderanti per i brand – specie se questi sono di grandi dimensioni e internazionali, come nel caso di Costa Crociere – e che siano tanto utili quanto rischiosi se non gestiti correttamente.

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Cerchiamo di riassumere quanto successo immediatamente dopo il tragico evento.
Roberta Milano – in un suo posto pubblicato il 14 Gennaio qui http://www.robertamilano.com/2012/01/costa-crociere-te-lo-rivelan-gli-occhi-e… – ha giustamente condiviso alcune riflessioni a caldo parlando di engagement e di quanto Costa Crociere si stesse comportando bene nell’utilizzo dei Social Media.
Devo dire di essermi trovato parzialmente d’accordo con quello che ha scritto fino a quello che è successo nei giorni scorsi che mi ha portato a ridimensionare i miei criteri di valutazione.
Ma per prima cosa vediamo di raccogliere qualche dato interessante. Ebbene: quello che emerge dai canali analizzati (Costa Crociere ha impiegato Twitter Youtube e Facebook per comunicare la crisi della Concordia) è un quadro come quello riportato in figura.

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Come facilmente intuibile il canale in cui si è concentrata la maggior parte dell’interazione è Facebook.
Ad integrazione segnalo come su Twitter basti fare una ricerca con un hashtag o sulle mention ( come qui – https://twitter.com/#!/search/@costacrociere ) per rendersi conto di quante richieste dirette stiano piovendo sul brand.
Dall’analisi dei canali social di Costa Crociere emerge un utilizzo come cassa di risonanza per i comunicati stampa e le notizie ufficiali dell’azienda sulla tragedia.
Un utilizzo sicuramente sensato ma che – comunque – utilizza solo parte delle grandi potenzialità che i social media hanno nella gestione delle emergenze e nel far circolare l’informazione in rete.

 

Ecco, poi, uno di quelli che considero uno dei più grandi degli errori commessi dal brand. L’aggiornamento delle immagini di sfondo a poche ore della tragedia.
Sono riuscito a cogliere lo screenshot proprio pochi secondi prima che le immagini venissero rimosse e l’aggiornamento cancellato in seguito a numerose polemiche.
Di per sé credo sia grave perché mostra un’attenzione a un dettaglio poco significativo e fa trasparire una mancanza di consapevolezza nei confronti delle reazioni che un gesto del genere – a poche ore dal disastro – possa generare.

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Interessante risulta poi essere anche l’analisi dei commenti che sono emersi su Facebook che – a mio avviso – forniscono uno spaccato dell’Italia. Sono presenti commenti di ogni genere e tipologia, da chi accusa a chi giustifica, da chi pontifica a chi analizza freddamente la situazione, insulti e lodi si mescolano allo stesso modo nel creare un quadro davvero “bizzarro”.
Qui di seguito una gallery dei commenti che gli utenti hanno postato sulla pagina ufficiale di Facebook del Brand Costa Crociere ( http://it-it.facebook.com/CostaCrociere )

Ecco una gallery delle “parodie” e dei meme che stanno cominciando a generarsi in rete sull’argomento. I gruppi e le fanpage dedicate alla questione si sprecano (ovviamente). Impattando a livello negativo sulla reputazione e sull’immagine generale del brand.

Cercando di riassumere quanto abbiamo visto:
  • i social media sono un veicolo fondamentale per la comunicazione e possono giocare un ruolo chiave nella gestione delle crisi, sia al momento della tragedia sia a posteriori per informare, aggiornare e richiedere aiuto.
  • l’utilizzo in chiave solo informativa è limitante. Di sicuro Costa Crociere ha avuto problemi ben più grandi che pensare alla gestione della pagina Facebook negli ultimi giorni, ma avere questi spazi significa anche doverli gestire durante i periodi di “tempesta”. Questo soprattutto perché è li che si concentra la grossa parte dell’interazione.
  • la disinformazione che può correre lungo i social media è pericolosa. Come si vede dai commenti riportati sulla pagina di Facebook sono parecchie le problematiche che sono emerse e che meriterebbero una moderazione o una risposta quantomeno ufficiale che chiarisca la situazione. La mancata gestione di alcuni di essi può amplificare il danno di immagine subito da un brand.
  • la gestione delle crisi può passare anche (attenzione: non SOLO) attraverso i social media, come mostra questo articolo http://www.socialmediaexaminer.com/how-to-use-social-media-for-crisis-managem… e sarebbe opportuno che lo facesse. E’ necessario – in questi casi più che mai – che questi strumenti meritano la stessa attenzione (se non superiore) di quella destinata ai media tradizionali.
  • In casi come questi, imprevedibili, è necessario essere “pronti prima”. La corretta gestione dei Social Media non può che derivare da una policy adeguatamente impostata. In un recente post sul suo blog, Stefano Mizzella parla di Social Media Triage (http://www.socialmediascape.org/social-media-triage/) per la gestione delle emergenze e per capire come gestire i commenti e le interazioni più complesse con gli utenti più difficili.

E’ vero: le tragedie non si prevedono, i problemi sono altri in casi come questi e le preoccupazioni ben più serie e approfondite di una gestione non proprio perfetta dei social media. Tuttavia sono dell’idea – ed è questo quello che volevo comunicare con il post – che forse una policy migliore in casi come questi avrebbe aiutato una maggiore chiarezza e trasparenza nelle informazioni e nel tranquillizzare chi era alla ricerca di informazioni e di notizie ufficiali evitando disinformazione e limitando i ritorni negativi per il brand.

In questa sede abbiamo più volte parlato della Gamification: intesa, molto brevemente – come l’applicazione dei concetti tratti dal mondo ludico e videoludico al business per generare miglior coinvolgimento e rafforzare la relazione tra clienti, dipendenti, consumatori finali e, più in generale intero ecosistema aziendale.

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Oggi vorrei spendere qualche parola in più per mostrare come questo concetto, all’apparenza poco strutturato e molto semplice, in realtà nasconda qualche insidia e di come sia necessario portare la Gamification verso uno scenario più maturo, più consapevole, meno sperimentale e maggiormente legato agli obiettivi di business che intendiamo perseguire all’interno di una più ampia strategia organizzativa.

Prima di tutto vorrei cominciare con il segnalare questo video di Sebastian Deterding che parla e approfondisce il tema della Gamification da un’ottica maggiormente consapevole e da “addetti ai lavori” al contrario di quello che spesso si legge e si trova – purtroppo – in giro.

E qui – a titolo di completezza e per potersi soffermare al meglio sui punti chiave è possibile trovare le slide complete (154!) dell’intervento svolto:

Credo che questo speech permetta di identificare alcuni punti molto interessanti di quello che ci serve per costruire il nostro discorso:

  • In primo luogo la Gamification non è una bolla, non è un trend campato per aria ma si tratta di un’industria estremamente avanzata e importante che sta assumendo dimensioni sempre maggiori e sempre più interesanti. In sostanza sta diventando un fenomeno che non è più possibile sottovalutare.
  • Come mostrato all’inizio è possibili “gamificare” qualunque cosa, dalla rasatura di un prato sino a sistemi estremamente più complessi.
  • Nei processi di Gamification di oggi – o perlomeno nella maggior parte di essi – mancano tre grossi ingredienti fondamentali necessari a permettere uno scatto qualitativo di un certo tipo:
    • Meaning: il significato di quello che facciamo è sempre importante. Essere consapevoli di quello che si sta facendo, essere centrali e importanti in un processo di apprendimento così come all’interno del lavoro che si sta portando avanti. E’ questo che impedisce l’alienazione, rende l’essere umano consapevole e permette l’evoluzione e il pieno apprezzamento di ciò che si sta facendo. Su questo punto è anche la stessa Jane McGonigal, di cui più volte abbiamo parlato, a insistere quando parla di Gameful Design.
    • Mastery: diventare abili, crescere ed evolversi. Come nei processi di apprendiemnto la gratificazione è data dai feedback che permettono di comprendere se si stia o meno procedendo sulla strada e nella direzione corretta.
    • Autonomy: la resilienza, l’autonomia, la capacità di essere presenti e di permanere in uno stato di Flow sono la chiave per esperienze autoteliche ottimali. Essere autonomi e consapevoli di esserlo porta a un livello sempre crescente di empowerment.

In sostanza la Gamification dovrebbe assumere un senso più ampio che vada al di là dei semplici sistemi di badge e riconoscimenti estrinseci ed essere legata a concreti e specifici obiettivi di business. Obiettivi di business che a loro volta devono essere presi in seria considerazione rispetto agli obiettivi, alle esigenze e alle aspettative delle persone e delle comunità di cui queste persone fanno parte.
In questo caso la metodologia di lavoro è sempre quella del Co-Design: della realizzazione cioè di strategie condivise, partecipate, interattive, in cui utenti finali e designer (nel senso più ampio del termine) collaborano nella creazione di un prodotto che sia soddisfacente per entrambi.

A tal proposito riporto anche le slide di Stefano Mizzella che ha avuto modo di parlare di questi stessi argomenti qualche settimana fa alla Digital Accademia.
Ecco le slide:

Perchè quindi la Gamification dovrebbe evolvere verso uno scenario – maggiormente complesso – di Social Business Design?
Perchè è necessario che sia vista come uno strumento che si inserisce in un contesto molto più ampio, attraverso cui le aziende possono migliorare i processi al loro interno, evolvendosi verso schemi maggiormente coerenti, solidi e adattivi, facilitando la partecipazione all’innovazione e alla creazione di nuove idee e migliorando la relazione con i loro clienti finali.

Come espresso nelle slide viste e negli speech presentati il gioco diviene un vettore fondamentale per innestare meccanismi collaborativi, innovativi e formativi. Il gioco può decretare o meno il successo di un’applicazione e consentire di coinvolgere maggiormente una community aggregando e rafforzandone i legami interni.

E’ necessario quindi vedere la Gamification come un mezzo verso la costruzione di un ecosistema organizzativo più resiliente, innovativo, partecipato e aperto.
E’ necessario – oggi più che mai – considerare la Gamification come un driver fondamentale per l’innovazione e per la collaborazione e porla al centro dei propri strumenti di evoluzione.
E necessario – infine – legare il tutto a un senso e a un desiderio più ampi, di coinvolgimento, di proattività, del sentirsi parte di un qualcosa che abbia un reale riscontro su quello che si sta facendo.

Senza queste considerazione e questa consapevolezza alla base penso che sia non solo poco utile, ma addirittura uno sterile contesto di sperimentazione che non fa altro che far perdere del tempo.

E’ ormai quasi un anno che ho aperto questo spazio e che mi dedico alla riflessione sui temi del Social Learning e della sua concreta efficacia.
Una delle cose che mi capita maggiormente è però quella di scontrarmi con una discrepanza tra teoria e prassi, tra idee innovative e concetti assolutamente affascinanti e casi concreti che spesso mancano o che si perdono tra sperimentazioni che non riescono a tradurre nel concreto quello che vorrebbero realmente ottenere.

Social_learning

Jane Hart – che si occupa, come me, di ricercare questo fenomeno da qualche anno – ha recentemente scritto un post interessante (http://c4lpt.co.uk/social-learning-handbook/social-learning-examples-in-the-workplace/)
Cerchiamo di analizzare alcuni dei casi studio (i più interessanti) e delle storie di successo che sono presentate nel post.

IBM e il Social Learning Tecnologico
http://clomedia.com/articles/view/4304
IBM è da sempre uno dei player fondamentali nello sviluppo di tecnologie per la collaborazione e per portare il “Social” all’interno delle aziende. La soluzione Lotus Connections, estremamente complessa e articolata prevede anche differenti funzioni per la gestione dell’apprendimento e per l’erogazione di formazione online.
La cosa comunque interessante che emerge dall’articolo riportato è il grosso investimento che la compagnia sta facendo in termini di revisione delle proprie strategie e dei propri assett organizzativi.
Come si legge:

[…]

Increasingly, IBM is leveraging social learning to meet this first element of learning strategy. Rather than develop centrally related content, experts throughout the company find, build, publish, share and comment on assets to enhance skills development and productivity. IBM has created tools such as online learning communities and socially generated tags on key knowledge assets to make relevant knowledge more searchable. It also has reduced search time and costs, accelerated onboarding and, recognizing that more than 40 percent of its workforce is global, enabled delivery of job-relevant information to networked mobile devices. 

[…]

B.C. Government e il valore della Intranet collaborativa
http://www.ragan.com/Main/Articles/42471.aspx
Altro articolo molto interessante che sottolinea il potere delle Intranet collaborative e come queste possono migliorare i processi organizzativi, lavorativi e gestionali a 360°.
Le Intranet rappresentano uno dei core business di cui ci occupiamo in OpenKnowledge e non posso – in questa sede – fare a meno di riproporre lo speech – molto interessante – di una delle più grandi esperti di Intranet al mondo.
Jane McConnell all’International Forum on Enterprise 2.0 del 2010.

TELUS e il knowledge sharing che passa dal social
http://www.microsoft.com/casestudies/Case_Study_Detail.aspx?CaseStudyID=40000…
Altro caso interessante di una compagnia di telecomunicazioni che utilizza gli approcci e le leve gestionali del social (nello specifico utilizzando le soluzioni Microsoft)

NASAsphere
http://socialcast.s3.amazonaws.com/corporate/downloads/NASAsphereReportPublic…
Anche la NASA si è lanciata in una sperimentazione impiegando i social all’interno della gestione della conoscenza di questo progetto pilota. Consiglio la lettura del report – estramamente approfondito e dettagliato che fornisce anche utili indicazioni di operatività che sono applicabili in altri contesti.

Questi casi sicuramente fanno ben sperare rispetto al futuro del Social Learning, anche se sono dell’idea che i tempi non siano ancora del tutto maturi per l’affermazione completa di questo paradigma.

Ecco le mie ragioni:

  • in primo luogo la cultura organizzativa tradizionale, purtroppo ancora molto diffusa specie nel nostro paese, già restia molto spesso, nell’applicazione del Social Business non vede di buon occhio sperimentazioni di questo tipo.
  • La tecnologia non è ancora completamente matura per la gestione di processi di apprendimento completamente informali e basati sulle relazioni più che sui contenuti.
  • I sistemi di valutazione del Social Learning (penso alla SNA e alla ONA di cui più volte abbiamo parlato) non sono ancora largamente diffusi e compresi come dovrebbero essere.

Dati questi presupposti non significa comunque che il lavoro non possa continuare. Sono convinto che le cose siano cambiate molto nell’ultimo anno e la situazione – sia a livello di cambiamento culturale sia tecnologico – si sia molto evoluta.
Sicuramente quello che è necessario fare è mantenere quell’idea e quello spirito di ricerca attiva in un tentativo sempre più insistente di conciliare quella che è la teoria con la prassi. dobbiamo cercare di sposare sempre di più le lezioni che ci arrivano dal Social Business e provare a fare le medesime riflessioni in ambito di apprendimento.

Credo che si possa considerare un buon proposito per il 2012.

Post pubblicato originariamente sul blog di Working Capital (Telecom Italia). http://www.workingcapital.telecomitalia.it/2011/12/social-network-learning-i-…

Working Capital 2010: un’altra storia di successo, la storia di ricerca di Stefano Besana, esperto di “Social Learning” e protagonista della passata edizione del nostro progetto. Oggi Stefano, in questo post, ci racconta come è andata la sua ricerca, quali passi avanti ha fatto nell’ultimo anno e quali sono le prospettive per il futuro.

Chi segue il mio blog e chi mi ha seguito negli ultimi due anni in rete sa che il mio interesse principale di ricerca è stato focalizzato sui Social Network e su come questi potessero essere utilizzati all’interno dei processi di apprendimento.

Ho iniziato a interessarmene alla fine del 2008 nel mio percorso di tesi triennale e ho proseguito fino al 2010 – iniziando la mia collaborazione con OpenKnowledge e vincendo l’edizione bolognese del Working Capital di Telecom Italia.

Da fenomeno praticamente sconosciuto in Italia i SNS sono divenuti una realtà pervasiva – e forse invasiva – nelle nostre vite: gli studi di settore si sono moltiplicati, come anche le ricerche e i contributi di letteratura nel campo.
L’apprendimento – il cosiddetto Social Learning – è comunque un trend emergente che non ha ancora assunto la portata riflessiva che meriterebbe.

Nell’ultimo anno ho raccolto alcune riflessioni personali e di ricerca all’interno del progetto che ho seguito per Working Capital.
La mia ricerca si è concentrata – forse è bene ripeterlo – sull’impiego dei Social Network Sites all’interno delle organizzazioni come strumenti di gestione della conoscenza delle organizzazioni complesse. Niente di nuovo apparentemente se non fosse che, come anticipato, le riflessioni hanno cominciato a muoversi nel 2008.

Di seguito alcune riflessioni maturate e il link all’executive summary che ho realizzato per presentare la ricerca al “mondo esterno”.

Il primo dato da comunicare è di che cosa si è trattato.
La ricerca ha coinvolto due studi principali in due anni differenti. Un primo studio (2009) svolto su 320 soggetti, con questi obiettivi: indagare se e in quale misura la comunità dei fruitori di SNS si auto-attribuisca delle caratteristiche specifiche, sia in ambito cognitivo che sociale;  se sia possibile identificare delle linee di tendenza nell’impiego del mezzo;  se sia verosimile – nelle rappresentazioni dei fruitori di tali mezzi – trasformare tali reti virtuali in strumenti per veicolare esperienze formative.
Un secondo studio (2010) svolto su 926 partecipanti. Con lo scopo di: (1) proseguire le analisi e gli approfondimenti rispetto ai temi indagati nella prima fase (Studio 2009) allargando il campione con soggetti maggiormente legati al mondo business. (2) Indagare se – e in che modo – le intranet aziendali potessero essere riconfigurate in ottica collaborativa come ambienti adatti per la collaborazione, la gestione dei processi informali e – più o meno direttamente – i processi di apprendimento (formali e non formali). (3) Ottenere dagli utilizzatori dei SNS indicazioni circa il possibile impiego di piattaforme sociali all’interno dei contesti di apprendimento, rilevandone (come nel caso del precedente studio) concezioni e rappresentazioni più o meno esplicite.

A partire da queste riflessioni ci si è mossi considerando alcuni assunti fondamentali della letteratura e alcuni modelli particolarmente interessanti che sottolineano l’importanza di allargare il proprio framework di riferimento.
Da questi modelli la ricerca è poi proseguita comprendendo quali fossero le logiche alla base del Social Business in primis e – secondariamente – ispirandosi ai principi del Connettivismo enucleati da George Siemens.

Le slide successive dell’executive summary mostrano alcuni dei risultati e delle scoperte effettuate durante la ricerca condotta che evidenziano l’importanza di una riflessione culturale ancor prima che tecnologica e come sia fondamentale considerare prima di tutto la dimensione sociale e di adattamento ai nuovi comportamenti.

In chiusura della ricerca si è provato anche a definire un modello di valutazione del social learning e della conoscenza condivisa che partisse da un’analisi di rete e dagli indicatori propri della Social Network Analysis. Attraverso lo sviluppo e l’ampliamento di un modello classico di valutazione dell’apprendimento si è provato a trovare alcuni punti di riferimento per misurare il ritorno di efficacia ed efficienza di sperimentazioni in questa direzione.

Sviluppi futuri?

Non resta che cominciare a sperimentare seriamente questi principi all’interno di organizzazioni che abbiano compreso l’importanza dei social media al loro interno (e non solo all’esterno dell’azienda) e che valorizzino sempre di più gli approcci partecipativi, informali, collaborativi che hanno fatto il successo di sistemi dinamici ed evoluti, in grado di generare vero valore per l’intero ecosistema aziendale.

Storicamente – per quanto si possa usare questo termine quando si parla di social media – il calcolo del ROI (Return On Investment) è sempre stata una questione annosa e dibattuta in questo ambiente.
Ebbene esiste veramente un ROI dei Social Media? Esiste davvero un ritorno di investimento dei progetti che vengono portati avanti sui Social Media?

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Quando ho iniziato a riflettere su questi temi con l’idea di scrivere questo post mi è subito venuto in mente il famoso video di uno speech dell’anno scorso di Andrea Boaretto in cui si sostiene che il ROI dei Social Media sia “una stronzata galattica” (per chi non sapesse di cosa stiamo parlando qui c’è il video http://goo.gl/yQ1az ). E’ proprio così? Quanta verità c’è in quelle parole e in quelle riflessoni?

Ebbene credo che in quel video ci sia un fondo di verità e capisco l’indicazione sbagliata di considerare il ROI come unico strumento dell’efficacia di un qualcosa, soprattutto in ambito marketing. Tuttavia, parlando – e lavorando quotidianamente – nell’ambito del Social Business il ROI dell’applicazione dei Social Media a livello Enterprise mi pare tutt’altro che una stronzata galattica, anzi.

Se come sappiamo l’etichetta di Social Business si pone proprio a quelle aziende/organizzazioni che fanno della generazione di valore il loro core business, allora la dimensione del ROI assume un significato nuovo e differente, cessando di essere un’indicazione semplicemente legata a un investimento economico ed evolvendosi verso una dimensione maggiormente complessa.

Vi segnalo questa recente infografica sul tema che può darci un’idea dell’industry di cui stiamo parlando e dell’investimento economico che c’è dietro.

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Come si vede sono dati estremamente interessanti che sottolineano la crescita di un’industria che ha mostrato ormai di essere assolutamente efficace e produttiva.

Vorrei, infine, concludere con alcune riflessioni che prendo in parte dalla mia espereienza personale e – in parte – da questo articolo su Mashable Business legato proprio a questi temi ( http://mashable.com/2011/11/15/social-media-roi-measure/ )

  • I progetti di Social Business – quando ben concepiti – con l’utente al centro del processo e con meccaniche di co-creazione che pongano la creazione del valore come focus di sviluppo hanno sempre un ROI, o per meglio dire, portano sempre a benefici all’interno dell’organizzazione rendendola più snella, efficace, reattiva e in grado di rispondere meglio alle sollecitazioni del mercato. Per maggiori informazioni su quello che stiamo dicendo consiglio di leggere questo post di Emanuele Quintarelli che racconta dei benefici dell’adozione di una strategia social all’interno di Lago SpA: http://www.socialenterprise.it/index.php/2009/04/05/da-enterprise-20-a-pmi-20…
  • Calcolare il ROI del Social Business e dei Social Media penso sia non sbagliato, ma abbastanza fuorviante, questo poiché è un indicatore unilaterale che non fornisce la dimensione chiara di tutti i vantaggi che sono ad esso correlati. Per farla più semplice credo che sia come parlare del ROI della formazione. Esistono in questi processi tutta una serie di benefici correlati – e a volte anche invisibili – che usando una sola lente di ingrandimento rischiano di perdersi.
  • La maturità di questa industry rende necessarie riflessioni e prese di posizioni molto più serie. Le aziende – soprattutto quelle maggiormente restie al cambiamento – devono rendersi conto che non è più possibile sottovalutare questi fenomeni né arroccarsi in modelli organizzativi vecchi e obsoleti che per quanto potessero funzionare nel passato sono presto destinati a fallire nell’immediato futuro.
  • I Social Media sono il mezzo e non il fine. Il fine è la creazione di valore per tutto l’ecosistema aziendale (clienti, partner, fornitori, etc.).
  • L’evoluzione dell’azienda non è possibile in unica direzione. Un Social Business come sappiamo è l’ultimo step del processo evolutivo che porta alla realizzazione di valore, quindi i processi interni e quelli esterni sono integrati in un continuum di esperienza in cui interno ed esterno dell’azienda non hanno più senso di esistere.
  • Le nostre organizzazioni, il nostro business, oggi più che mai ha bisogno di essere social, deve essere social. Non si tratta più di una scelta ma piuttosto di una necessità inevitabile per coloro che vogliono avere successo. Eccone alcune in un post di Jarche ragioni: http://www.jarche.com/2011/10/why-do-we-need-social-business/

E tanto per lasciarvi, come di consueto con un video di approfondimento:

photo credit jenteach123 on Flickr.com